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Full text of "Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, v. 5 (Giacomo Leopardi)"

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Volume Quinto 




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PENSIERI 
GIACOMO LEOPARDI 



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PENSIERI 

DI 

VARIA FILOSOFIA E DI BELLA LETTERATURA 

GIACOMO LEOPARDI 

Volume Quinto 




FIRENZE 

SUCCESSORI LE MONNIElì 



1900 



A^ 



Sono riservali tulli l diritti di proprietà letterària» 



Nociuta Tipoijralka Fini tutina, via 8. dallo, 33, 



PENSIERI. 



' * È massima molto comune tra' filosofi, e lo fa spe- 
cialmente tra' filosofi antichi, che il' sapiente non si 
debba curare, né considerar coinè beni o mali, né ri- 
porre la sua beatitudine nella presenza o nell'assenza 
delle coso che dipendono dalla fortuna, quali ch'olle 
si sieno, o da veruna forza di fuori, ma solo in quelle 
che dipendono interamente e sempre dipenderanno da 
lui solo. Ondo (2801) conchiudono che il sapiente, il 
quale suppongono dover essere in questa tale dispo- 
sizion d'animo, non è per veruna parte suddito della 
fortuna. Ma questa medesima disposizione d'animo, 
supponendo ancora ch'ella sia più radicata, più abi- 
tuale, più continua, piti intera, più perfetta, più reale 
eh' ella non è mai stata effettivamente in alcun filo- 
sofo, questa medesima disposizione, dico, già piena- 
mente acquistata, ed anche, per lungo abito, posse- 
duta, non è ella sempre suddita della fortuna? Non si 
sono mai veduti de' vecchi ritornar fanciulli di mente 
per infermità o per altre cagioni, l'offetto dello quali 
non fu in balia di coloro l'impedirò o l'evitare? La 
memoria, l'intelletto, tutte le facoltà dell'animo no- 
stro non sono in mano della fortuna, come ogni altra 
cosa cho ci appartenga? Non è in sua mano l'alte- 
rarle, l'indebolirle, lo stravolgerle, l'estinguerle? La 
nostra medesima ragione non è tutta quanta in balia 
Lkopabpi — Pontieri, V. I 



2 



PENSIERI 



(280 1-2802-2803) 



della fortuna? Può nessuno assicurarsi o vantarsi (2802) 
di non aver mai a perder l'uso della ragione, o per 
sempre o temporaneamente, o per disorganizzazione del 
cervello, o per accesso di sangue o di umori al capo, o 
per gagliardi a di febbre, o per i spossamento straor- 
dinario di corpo ohe induca il delirio o passeggero o 
porpotuo? Non sono infiniti gli accidenti esteriori im- 
prevedibili o inevitabili elio influiscono sullo facoltà 
doli' animo nostro siccome su quelle del corpo? E di 
questi, altri che accadono od oporano in un punto o 
in poco tempo, come una percossa al capo, un terrore 
improvviso, una malattia acuta; altri a poco a poco 
e tontamente, come la vecchiezza, l'indebolimento dol 
corpo, e tutte le malattie lunghe e proparato o inco- 
minciate già da gran tempo dalla natura ec. Perduta 
o indebolita la memoria non è indebolita o perduta la 
scienza, e quindi 1' uso e 1' utilità di essa, e quindi quella 
disposizion d'animo che n' ò il frutto, e di cui ragiona- 
vamo? Ora, qual facoltà dell'animo umano è più labile, 
(2803) più facile a logorarsi, anzi più sicura d'andar col 
tempo a indebolirsi od estinguersi, anzi più continua- 
mente, inevitabilmente e visibilmente logorantosi in cia- 
scuno individuo cho la memoria? Insomma, se il nostro 
corpo è tutto in mano della fortuna, e soggotto por ogni 
parto all' aziono delle cose esteriori, temeraria cosa è 
il dire cho 1' animo, il quale è tutto e sempre sog- 
getto al corpo, possa essere indipendente dalle cose 
esteriori e dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso 
perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi, quale 
mai non esistette, quale non può essere se non im- 
maginario, tale ancora sarobbo interamente suddito 
dolla fortuna, perché in mano di essa fortuna sarebbe 
interamente quella stessa ragione sulla quale ogli fon- 
derebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima 
(21 giugno 1823). 

* Altro è il timore altro il terrore. Questa è pas- 



3 



sione molto più forte e viva di quella, e molto più 
avvilitiva dell'animo e sospensiva dell'uso della ra- 
giono, anzi quasi di tutte le facoltà dell'animo, ed 
anche de' sensi dol corpo. (2804) Nondimeno la prima 
di questo passioni non cade nell'uomo perfettamente 
coraggioso o savio, la seconda si. Egli non teme mai, 
ma può sempre ossoro atterrito. Nessuno può debita- 
mente vantarsi di non poter ossoro spaventato (21 
giugno 1823). 

* Si sa che negli antichi drammi aveva gran parte 
il coro. Pel qual uso molto si è dotto a favore e con- 
tro. ') Il dramma moderno l'ha sbandito, e bene stava di 
sbandirlo a tutto ciò eh' è moderno. Io considero que- 
st'uso corno parte di quel vago, di quell'indefinito 
eh' è la principal cagione dello charme dell'antica 
poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa 
piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile Il bello e 
il grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito 
non si poteva introdurre sulla scena, se non introdu- 
cendovi la moltitudine. Tutto quello che vien dalla 
moltitudine è rispettabile, bench'olla sia composta d' in- 
dividui tutti disprezzabili. Il pubblico, (2805) il po- 
polo, l'antichità, gli antenati, la posterità: nomi grandi 
e belli, perché rapprosentano un'idea indefinita. Ana- 
lizziamo questo pubblico, questa posterità. Uomini la 
più parte da nulla, tutti pieni di difetti. Lo massimo 
di giustizia, di virtù, d'eroismo, di compassione, 
d? amor patrio, sonavano negli antichi drammi sullo 
bocche dol coro, cioè di una moltitudine indefinita, o 
spesso innominata, giacché il poeta non dichiarava 
in alcun modo di quali persone s'intendesse composto 
il suo coro. Esse erano espresse in versi lirici, questi 
si cantavano, ed erano accompagnati dalla musica 
degl' istrumenti. Tutte queste circostanze , cho noi 



') Vedi il Viag'jio <l' AnacarH, cap. 70. 



4 



PENSIERI (2805-2806-2807) 



possiamo condannare quanto ci piace corno con travio 
alla vorisimiglianza, come assurdo ce, qual altra im- 
pressione potevano produrre, se non un' impressione 
vaga e indeterminata, e quindi tutta grande, tutta 
bella, tutta poetica? Quelle massime non erano poste 
in bocca di un individuo, che le recitasse in tuono 
ordinario e naturale. (2806) Per grande e perfetto elio 
il poeta avesse finto quosto individuo, la idea mede- 
sima d ! individue è troppo determinata e ristretta, per 
produrre una sensazione o concezione indeterminata ed 
immensa. Queste qualità contrastano con quello, o 
quelle avrebbero direttamente impedita questa conce- 
zione, non che potessero produrla. Gli uditori avreb- 
bero conosciuto il nome, le azioni, le qualità, le av- 
venturo di quell'individuo. Egli sarebbe stato sempre 
quel tal Teseo, quel tal Edipo, re di 'Xebe, uccisore 
del padre, marito della madre, e cose simili. La na- 
zione intera, la stessa posterità compariva sulla scena. 
Ella non parlava come ciascuno do' mortali elio rap- 
presentavano l'azione: ella s'esprimeva in versi lirici 
o pieni di poesia. TI snono della sua voce non era 
quello degl'individui umani: egli era una musica, 
un' armonia. NegF intervalli della rappresentazione 
questo attore ignoto, innominato, quosta moltitudine 
di mortali, prondeva a far delle profonde o sublimi 
riflessioni (2807) sugli avvenimenti ch'erano passati 
o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, 
piangeva lo miserie dell'umanità, sospirava, maledi- 
ceva il vizio, eseguiva la vendetta dell'innocenza e 
della virtù, la sola vendetta che sia loro concessa in 
quosto mondo, cioè l'esecrare che fa il pubblico e la 
posterità gli oppressori delle medesime; esaltava l'eroi- 
smo, rondeva merito di lodi ai benefattori degli uomini, 
al sangue dato per la patria (vedi Orazio, Arte Poetica, 
v. 193-201). Questo era quasi lo stesso che legare sulla 
scena il mondo reale col mondo ideale e inoralo, come 
essi sono legati nella vita: e legarli drammaticamente, 



(28 0 7-28 0 8-28 09 ) PBNSUffil 



5 



cioè recando questo legamo sotto i sensi dolio spetta- 
tore, secondo l'ufficio e il costume dol poeta dramma- 
tico, e quanto è possibile al dramma di rappresentare 
quello che è. Questo era personificare le immagina- 
zioni del poeta e i sentimenti degli uditori e della 
nazione a cui lo spettacolo si rappresentava. Gli av- 
venimenti erano (2808) rappresentati dagl'individui; 
i sentimenti, le riflessioni, le passioni, gli effetti 
eh' essi producevano o dovevano • produrre nello per- 
sone posto fuori di essi avvenimenti erano rappre- 
sentati dalla moltitudine, da una specie di ossero idealo. 
Questo s'incaricava di raccogliere ed esprimere l'uti- 
lità che si cava dall'esempio di quelli avvenimenti. 
E per certo modo gli uditori venivano ad udirò gli 
stessi sentimenti che la rappresentazione ispirava loro, 
rappresentati altresì sulla scena, e si vedevano quasi 
trasportati essi medesimi sul palco a fare la loro parte; 
0 imitati dal coro, non meno che si fossero gli eroi 
imitati e rappresentati dagli attori individui. Anche 
quando il coro prendeva parte diretta all'azione, que- 
sto fare agir nel dramma la moltitudine era più poe- 
tico, e doveva produrre maggiore e più vivo effetto, 
che il divider tutta l'azione fra pochi individui, come 
noi facciamo. 

Da queste considerazioni si argomenti se (2809 1 
sia giusto il dire che 1' uso del coro nuoce all' illu- 
sione. Qual grata illusione senza il vago e l' indefi- 
nito? E qual dolce, grande e poetica illusiono doveva 
nascere dalle circostanze sovra esposte! (21 giugno 
1823). Nelle commedie la moltitudine serve altresì 
all'entusiasmo e al vago della gioia, alla $aw/sià, a dar 
qualche apparente e illusorio peso alle cagioni sem- 
pre vano o false che noi abbiamo di rallegrarci e 
godere, a strascinare in certo modo lo spettatore nel- 
l' allegrezza o noi riso, come accecandolo, inebbrian- 
dolo, vincendolo col l'autorità della vaga moltitudine. 
Vedi pag. 290S, 



6 



]'KXSIt ; :i:l 



(2809-2810) 



* Io non so quali abbiano ragiono intorno all' ori- 
gine dol verbo latino accuso, o quelli che lo dori- 
vano da causa, e quelli che lo fanno venire da un 
verbo cuso continuativo di cuderc, del qual cuso non 
recano però nessuno esempio ( vedi Porcellini , voo. 
accuso, fine e voo. cuso). Forse a questi ultimi potrebbe 
esser favorevole il nostro antico cusarc, il quale, se 
venisse da cuso e non da causavi, o se non fosse uno 
storpiamento d' accusare, sarebbe ut antichissimo tema 
perduto o disusato nel latino scritto, o conservato 
nell'italiano; e sarebbe il semplice dei verbi composti 
accuso, incuso, excuso, recuso. E da notare però che il 
nostro volgo (almeno quello della Marca) usa il verbo 
causare nel significato appunto del nostro antico cur- 
sore e del latino causari, cioè in sonso. non di ca- 
gionare, ma di recava per cagione o come (28 10) cagione, 
accagionare: l'usa, dico, in questa frase avverbiale 
causando che, cioè atteso che, poiché. Il qual signifi- 
cato di causare e il qual modo avverbiale non è no- 
tato dalla Crusca, ma trovasi puro usato da Lorenzo 
de' Medici nella famosa lettera a Giovanni de' Medici 
cardinale suo figliuolo, poi Papa Leone X, verso il fine, 
dove però nella raccolta di. Prose, stampata' in To- 
rino, 1753, voi. II, p. 782, trovo cagionando che per cau- 
sando che, che sta nelle Lettere di diversi eccellentis- 
simi huomini, raccolte dal Dolce, Venezia, appresso 
Gabriel Giolito de' Ferrari et fratelli, 1554, p. 303, 
e nelle Lettere volgari di diversi moltissimi huomini 
et eccellentissimi ingegni, stampate da Paolo Ma- 
nuzio in Venezia, 1544, carte 6, p. 2 (in ogni modo 
anche la frase avverbiale cagionando che manca nella 
Crusca). Nelle Lettere di Xlll Huomini ìllustri,Yemzia, 
per Coniin da Trino di Monferrato, 1561, p. 485, 
trovo pensando che. Vodi il Magnifico di Roscoe, 
dove quella lettera è riportata. 

Del resto, il verbo accuso o accado o cudo-cusus 
semplice ha il suo continuativo o frequentativo a coti- 



(2810-2811-2812) pensieri 



7 



sito (23 giugno 1823). Se accuso è quasi accauso, 
tanto e tanto è da notare quosto continuativo, che 
sarà quasi accaus ito, dal participio accamatus. (2811) 

* Alla p. 2775. Il verbo 8*t!fco ohe oggi sì pone 
corno toma, non è certamente che reduplicazione di un 
tema più semplice, il che è dimostrato si dalla voce 
Moc,, si dal verbo Sii» presso Omero, si dalla voce 
Ssìoftai usata più volte da Plutarco per temere. ) An- 
che in latino titillò è fatto per duplicazione da tiXXo). 
E altre tali duplicazioni alla greca si trovano puro 
in latino (come quelle de' perfetti rnemini, cecidi oc) 
sieno veramente latino di origina, o greche, o comuni 
anticamente ad ambe le lingue ec. eo. (23 giugno 1823), 

* Institutum autem oius (Mceridis in 'Attwtafg) est 
annotare et inter se conferve voces quibus Attici, et 
quibus Graeoi in aliis dialectis, maxime illa v.otv-jj 
utobantur; interdirai notat et x&ivòy vulgi, illudque di- 
vorsuni facit non modo ab Attico sed etiam IXVvjvtwj» , 
ut in HtXXetV, eò^Jiet, xàtHjao, Xé[ijJ.a, olSticquv, olae, ayia- 

tov. ^abrichis, Biblwthem Graeca, odit. vet., 1. V, c. 38, 
§ 9, num. 157, voi. IX, p. 420 (23 giugno' 1823). 

* Alla p. 2776, margino. Lo stesso discorso si può 
fare di fivAì^u), il quale è pur verbo espri mento un 
suono, e fatto por imitazione di questo suono; il qual 
suono, come è similissimo a quello di cosi non 
ha niente che fare con paSCw. Ma questa e simili in- 
terposizioni della lettera C (2812) e d'altre tali sono 
state fatte o per evitare l' iato o per altro diverse 
cagioni, nel processo della lingua, quando già non 
v' era pili bisogno che il vocabolo, per essere in- 
teso, esprimesse e rappresentasse collo stesso suo 



') Kzf/xof^i )(ap)(3p<0t, *ap%xf\Hi (In xmìssu P« reilnplioaziono, 
6iri7TT!Ùw ilu ìxteìu. filjjflioj ila ptjivtj o (la §ì$ii. Vedi p. 4109. 



8 



•KXMKItl 



(2812-2813) 



suono l' oggetto significato, ma egli era già inteso 
generalmente per se e non per virtù della sua ori- 
gine; e quando già nella lingua si guardava più alla 
dolcezza co. che alla necessità ce, ne' quali modi le 
parole in tutte le lingue si sono allontanate dalla 
forma primitiva e hanno spesso perduto affatto quel 
suono rappresentativo ohe prima avevano e sul quale 
furono modellati e ereati, e nel quale da principio 
consisteva la ragione della loro significanza. I latini 
dal tema Saéco o bauara fecero baubari, interponendo 
un b (il quale in questo caso è più adattato all' imi- 
tazione) invece del (. Noi baiare, che per verità po- 
trebb' essere appunto quello stosso originalo fjvAm oh' è 
affatto perduto nella lingua greca e nella latina 
scritta; o ben si potrebbe credere ohe fosse totalmente 
(2813) vogo antica latina, conservata nel volgare; dal 
che si dedurrebbe, primo, cho l'antico latino e di 
poi il suo volgare perpetuamente conservò puro il 
verbo originale ($«6<ó (giacché l' t> m latino antico 
ora risponde a un ti, ora ad un ì), quantunque non si 
trovi nel latino scritto; verbo inusitato affatto nel- 
l'antica e moderna grecità nota; secondo, che questo 
antichissimo verbo, perduto, o vogliamo dire alterato 
nel greco, perduto, ossia alterato nel latino scritto, 
conservasi ancora purissimo e soiiz' alterazione al- 
cuna nell'italiano, e vedi la pag. 2704. Si potrebbe 
anche erodere cho i primi latini e il volgo, invece 
di baubari, dicessero bauari (appunto Bafctv j , e che la 
mutazione dell' u in ì (vocali che spessissimo si scam- 
biano, per esser le più osili, come ho detto altrove) 
seguisse nell' italiano e nel francese ec. Ovvero che 
gli antichi dicessero bauari e poi il volgo baioni (24 
giugno 1828). 

:f: I continuativi latini tutti (so non forse visere da 
visus di . ìlici) co' suoi composti inviso reviso ec, e 
forse qualche altro, che io chiamorò continuativi ano- 



(28 1 3-28 14-281 5) pensieri 



9 



mali) appartenenti alla prima eongiugazione, sono fatti 
dal participio o dal supino del verbo originalo, conio 
ho dimostrato. Nondimeno io trovo alcuni pochi verbi, 
pur della prima maniera, i quali sono evidentemente 
fratelli o figli di altri verbi della terza, ed hanno 
una significazione evidentemente continuativa della 
significazione di questi, ma non sono fatti da' loro 
participi i. Quelli che io ho osservati sono, 1°, cubare, 
co' suoi composti aeeubare, incubare, decubare, secu- 
bare, recubare oc, il significato de' quali è manife- 
stissima mente (2814) continuativo di quello di cum- 
bere (inusitato, fuorché nella voce evìnti ec. e cubitum 
che ora s'attribuiscono a cubare), incumbere, accum- 
berc ec, tanto che ogni volta che si dee esprimere azione 
continuata si usano immancabilmente quelli e non 
questi (come anche viceversa nel caso opposto), e 
appena si troverà buono esempio del contrario, quale 
potrebb'esser quello di Virgilio, Aen., II, 513-14, Ingens 
ara fuit; juxtaque veterrima lauru.s Jneumbenx arac, 
invece A' incubane. 2", edrtaare, continuativo di educere 
quanto al significato. 3°, jugare parimonto di fungere, 
o cosi coniugare, abiugare, deiugare, e s'altro composto 
ve n'ha. 4", dicare similmente di dicere, o cosi i com- 
posti judkare, di ius dicere, dedicare, praedicare, abdi- 
care ec. Vedi p. 3006. 5", labaro di labore inusitato, 
cioè labi deponente. È noto che questi verbi della terza 
hanno anche i loro continuativi formati regolarmente 
da' loro participii, ma con significato diverso da quollo 
de' soprascritti verbi dolla prima, sebbene anch' esso 
continuativo; come dicere ha pur dieta-re e dictitare; 
ducere, onde educere, ha duclare e ductitare; j ungere 
ha nel basso latino e nello spaglinolo junctare (noi 
volgarmente aggiuntare, i francesi ajouter); labi o 
labore ha pur lapsare. C'ubitare, aceubitare oc. pos- 
sono venire da acmbatux (2815) inusitato e da ac- 
cubitus oc o quindi ossere derivativi, cosi di accum- 
bere come di accubare. Ma questo, con tutti i suoi 



10 



!"KNSI151tJ 



(28 15-28 16) 



fratelli o col suo semplice cubo, non ha del pro- 
prio né il preterito perfetto né i tempi cbe da 
questo si formano, né il participio in US, né il su- 
pino, ma li toglie in prestito da accumbcre, reévm- 
bere , incumberc ec, facendo né pili né meno come 
fan questi, accubui, accubUus i, accubitum ec. Vedi 
però la p. 3570, 3715-7. Incubare ha anche incubavi, 
incubatum. Cubare ha anche cubavi o certo cubasse. 
Notate che se talvolta troverete ne' lessici o ne' gram- 
matici ec. degli esempii di accubare, incubare, ec. 
adoperati nel preterito o nel supino ec. che non vi 
paiano di senso continuativo, dovete credere ch'ossi 
sieno male attribuiti a quei verbi, o spettino ad in- 
cumberc, accumbcre, occumbere ec. Vedi a questo pro- 
posito p. 2930, 2935, Forse a questo discorso apparten- 
gono eziandio auspicar o suspico ed auspico o auspico)-, 
da spedo, seppur quello non viene piuttosto da suspicio 
onis, o questo da auspiciurn o da auspex auspicis. 
Forse ancora, qua si dee riferire plico da plecio, 
de' quali verbi mi pare aver ragionato altrove in altro 
modo. Da pleeto-plexus si fanno tinche i continuativi 
ampkxor e compierò. E notate che si trova anche 
amplector aris in luogo di amplector eris ; il che per altra 
parte confermerebbe che picelo is fosse un continua- 
tivo anomalo di plico, come mi pare aver detto al- 
trove. Vedi p. 2903 (24 giugno, di del Battista, 1823). 
Vodi p. 2996. 

* Sono molti verbi formati da' participii in «s i 
quali non esprimono azione continuata, né costume 
di fare quella tale azione, o non l'esprimono sempre, 
e nondimeno anch'essi, ed anche in questo caso, sono 
veri continuativi, e il Porcellini e gli altri che li 
chiamano frequentativi sbagliano ed usano una voce 
impropria, parlando (2816) con tutto rigore ed esat- 
tezza. Per esempio, iactarc nel luogo dell'inette, II, 
459, ed exceptare nelle Georgiche, III, 274, sopra i 



(2816-2817) 



PENSIERI 



11 



quali luoghi lio disputato altrove, non ' esprimono 
azione continuata per se stessa, giacché 1' azione di 
lanciare o quella di rioovcr l' aria col respiro non 
sono azioni continue, ma si concepiscono conio istan- 
tanee; né anche significano costume di lanciare o di 
ricovero; ma moltitudine continuata di questo tali 
azioni, cioè di lanciamenti, per cosi dire, e di -rice- 
vimenti, che senza interruzione e per lungo tempo 
succodono l' uno all' altro. Questa è idea continua, o 
bene, in questo caso, si chiameranno continuativi 
quei tali verbi, e non potranno per nessun modo chia- 
marsi altrimenti con proprietà. Malissimo poi si chia- 
meranno frequentativi, giacché ben altro è il fare 
una cosa frequentemente od altro il ripetere per un 
corto maggiore o minor tempo una stessa azione con- 
tinuamente, quando anche quest' azione per se non 
sia continua e si fornisca nell'istante. Questa è con- 
tinuità di faro una stossa azione, ben diversa dalla 
frequenza di fare una stessa azione. La qual fre- 
quenza suppone e considera dogi 'intervalli, maggiori, 
(2817) minori e più o meno numerosi che si e no, du- 
rante i quali quell'azione non si fa, laddove la detta 
continuità non li suppone, ed ancorché, come è natu- 
rale, sempre vi sieno, pure, siccome minimi, non li 
considera. Avendo l' occhio a queste osservazioni si 
vedrà quanto gran numero di verbi latini detti fre- 
quentativi lo sieno impropriamente, e quanto signi- 
ficazioni credute frequentative, e che tali paiono a 
prima vista, perché rappresentano ripetizione di una 
stessa azione, con tutto ciò non lo sieno, ma sieno 
vcramonte continuative. Bisogna sottilmente distin- 
guere, come abbiamo mostrato, e non credere che 
qualunquo verbo esprime ripetizione di una stessa 
azione, sia frequentativo, né che questa ripetizione 
sia sempre lo stesso che la frequenza d' essa azione. 
La successione di più. azioni di una stessa specie è 
ben altra cosa cho la frequenza di esse. E con questo 



PENS1E1U 



(2817-2818) 



criterio, siccome cogli altri che abbiamo dati in varii 
luoghi circa le diverse signilic azioni do' verbi fatti 
da parti eipii in us, si correggeranno infiniti errori 
de' grammatici e lessicografi; rettifìcherannosi infi- 
nite loro definizioni, conoscerassi o distinguerassi 
paratamente il vero spirito e la vera e varia pro- 
prietà e forza de' verbi formati da' suddetti parti- 
cipii; e vedrassi come il senso frequentativo. (2818) 
eh' è solamente l'uno dei tanti che ricevono essi verbi, 
sia stato male scelto o preso a denotaro e denominare 
e definire tutti questi verbi, ed anche considerato 
come 1' unico loro proprio senso. Il che è lo stewsu 
che porro la parte per il tutto. E quando ciò s'abbia 
a fare, meglio converrà a questi verbi il nomo di 
continuativi, il qual nomo abbraccia un assai più 
gran numero delle varietà proprie del significato di 
questi verbi. Le quali varietà non ancora considerate 
né dai grammatici né dai filologi né dai filosofi, e nondi- 
meno necessarissime a considerarsi e distinguersi por 
ben penetrare noli' intima proprietà ed eleganza, ed 
anche noli' intimo e vero senso o valore della lingua 
latina, e nell' intelligenza dell' efficacie, dolio bellezze 
oc. dei passi degli scrittori, noi abbiamo procurato 
di dichiarare ed esporro, si ai grammatici e filologi, 
corno ai filosofi e a' letterati (25 giugno 1823). 

* Un continuativo anomalo o somianomalo si è hie- 
tare fatto da hiatus, quasi da kktus, participio à'biare. 
Dove la mutazione dell'» in e viene; 1°, dal voler evi- 
tare il cattivo suono d' hiatare, del qual suono sempre 
evitato nella formazione de' continuativi fatti da verbi 
della prima ho detto altrove; ') 2°, da questo, che seb- 

') Salvo no' continuativi de' tomi monosillabi, por esempio dato, 
flato, nato ce, corno altrove. A questo proposito il ubilo molto cLe bettre 
0 bUtre o bitire aia un continuativo anomalo (come nfeo »«) ili 9n ba dal 
greco ficMi), come no da vio, do da S'M, e altri tali tomi monosillabi ialini 
Slitti da tali verbi Riooi cosi f onti atti. Èbito amebbo ix^mva ex-eo. Vedi 
Foroelllnl in ììelu. Vedi p. 3694. 



(28 1 8-28 1 9-2820) pensieri 



13 



bene i latini in questa (2819) ootal formazione solevano 
cambiar l'ultima a dol participio in i, facendo, per 
esempio, da wussattw mussitare invece di rnussatare, 
qui non poterono far cosi, stante 1' altro i che prece- 
deva, onde avrebbero fatto lattare che riusciva di tri- 
sto suono e difficile alla pronunzia (25 giugno 1828). 

* Bnhulcitare dinota forse un antico verbo bubulco, 
dal cui participio esso sia formato. Cosi credo io, se- 
condo l'ordinaria ragione osservata da' latini nella 
formazione de' verbi, secondo la qual ragiono e pro- 
prietà non mi par verisimile che buhulcitarc sia fatto 
a dirittura da babulcus (19 giugno 1823). 

* Subvento da subvenio, eoe/ito da empio, voeito da 
voco, tornito o cenito da conno, dormito da dormio, ster- 
nuto da sternuo, observito da obse.rvo, perito da pereo 
(come ito ed itito da eo), adiuio (onde aiutare, ayudar, 
aitare, aider, atare), e adiutor aris da adiuvo, eiulitare 
da eiulare, clamìtare (dedamitare oc.) da clamare. Ci- 
cerone nota che declamitare era voce nuova al suo 
tempo. Vedi Porcellini Fugito da fttgio, ed altro da 
fugo. Flato da fio-fl(dvs, onde fiatare. Vedi Porcellini 
e il glossario. Volito da volo-volatus. Strepito da stre- 
po-strepitns. Spanno (onde sposare, épouser eo.) o de- 
sponso da spondeo e despondeo, e notate la significa- 
zione continuativa e durativa di quelli a paragone 
del significato di questi. Responso e responsito da 
respondere (25 giugno 1823). (2820) 

* Frequentativi. Cantito. Symipiìto o sumtito. Da 
cano-eantus, e da numo-sutnptus o sumtus (25 giu- 
gno 1823). Missito da mìtto-missus (26 giugno 1823). 
Accessito. 

* Il verbo eo i$ è forse e sonza forse il solo che, 
avendo un continuativo desinente in ito, cioè appunto 
(tare, abbia anche un frequentativo pare in ito, di- 



Ì4 pensieri (2820-2821) 

stinto dal continuativo e l'orinato col raddoppiamento 
della ìt, cioò ititare, il che fu schivato da' latini in 
tutti gli altri verbi dovo sarebbe potuto accadere, 
corno ho dotto altrove, onde questi verbi non ebbero se 
non un solo o continuativo o frequentativo o l' uno e 
l'altro insieme, desinente nel semplice ito. "Voro è che 
il verbo itltare non ha noi Porcellini che un solo 
osonipio, o secondo me poco sicuro (26 giugno 1823). 

* Alcuni continuativi o frequentativi composti sono 
fatti dal continuativo semplice, a dirittura, senza che 
il verbo padre del continuativo abbia i composti cor- 
rispondenti. Di ciò mi pare d'aver detto altrove Veg- 
gasi la pag. 3619. Per esempio, recito e suscito sono 
continuativi composti di cito, il qual è continuativo 
di cica che non ha né recito né suscieo né i participi! 
recìtus né suscìtus. Dico di cieo, (2821) non di ciò, 
che ha pur lo stesso significato, ma il suo participio 
è cìtus, o di cieo cìtas, onde citare, e quindi axeitare, 
incitare, concitare ec. che hanno la sillaba ci breve, 
vongono tutti da ciao. Da ciò, o vogliamo dire da excio, 
vorrebbe il verbo exctto appresso Stazio, se fosse 
genuino e sincero. Vedi Porcellini (20 giugno 1823). 

* Nexo nexas è continuativo regolare, come si vede, 
di nmto-nexus. Nexo nexis (vedi Porcellini) sarebbe 
anomalo, sul? andare di viso visis da video-visus, e po- 
trebbe forse conformare quello che mi par di aver 
detto altrove circa plecto is, o altro simile, da me sti- 
muto continuativo, benché, come tale, anomalo (2(5 giu- 
gno 1823). Vedi p. 2885, ed osserva anche la p, 2934-5. 

* Verbi in tare i quali sono continuativi, benché 
paiano tutt' altro, e non apparisca a prima vista que- 
sta loro qualità. Confutare, reputare ec. sono conti- 
nuativi o composti da futare o derivati da confun- 
dere ec. E futare viene dal participio di fundere, il 



(2821-2822-2823) pensieri lo 

qual participio ora è fusus, ma anticamente futus. 
Vedi Porcellini in Confido, initio vocia, in Fido oc. 
Da altro participio pur di fundo, e pure antico e inu- 
sitato, cioè fundiiuSj viene fiwditare (20 giugno 1823). 
Vedi p. 3585, 3625.' 

* Un altro futara dice Festo che fu usato da Ca- 
tone per saepius fuisse. Questo dimostrerebbe un an- 
tico participio (2822) futus del verbo sostantivo latino. 
Dico del verbo sostantivo, c non dico del verbo sum. 
Questo è originalmente il medesimo elio il greco elju, 
ovvero e che il sascrito asham, e il suo participio 
in ws dovette essere situs o stus o sutus (giacché è 
notabile il nostro «litico suto, vero e proprio partici- 
pio del verbo essere, laddove stato cho oggi s'usa in 
vece di quello, è tolto in prestito da stare), come ho 
detto altrove. *) Ma il participio futus, onde fiutare, 
non potè essere so non di quel verbo da cui il verbo 
sum tolse in prestito il preterito perfetto fui colle 
voci cho da quosto si formano, cioè fueram, f itero ec. 
Il qual verbo fiuo non ha che far nionte in origine 
con sum né con etju , ma è lo stesso che <p<5«, e vedi 
Fornellini in fiuam e in sum. Di questo dunque dovotto 
osistoro ancho il participio futus, il quale dimostrasi 
col verbo futara che ne deriva. E notisi che Festo 
dico il verbo fiutare essere stato usato da Catone per 
saepius fuisse, e non per saepius esse, onde paro che 
questo verbo appresso Catone conservasse una certa 
corrispondenza e similitudine e analogia collo voci 
fui, finisse ec. tolte in prestito da sum, le quali 
tutte indicano il passato, e che aneli' osso denotasso 
il passato di natura sua, ed avesse (2823) significa- 



') Il francese Ut è lo stesso che M, giacché gli antichi dicevano 
etti, e quell' e tonami e animilo pei dolcezza ili lingua avanti la i im- 
pura noi principio della parola, corno in e&pérer, ettjmugnr (ora épuuMr), 
ilei olio lio doti» altrove. Ora il participio tti sarebbe appunto rttff In 
latino. 



PENSIERI 



(2823-2824) 



zione preterita. Del resto, come il vèrbo fatare è 
diverso da stare, cosi il participio futus, da cui quello 
deriva, è diverso da situa o stus da cui vien questo, e 
come futus è participio di fuo e stus di mm, cosi fu- 
ture è continuativo di fuo e s/are, di .swn. E l'esi- 
stenza del particiò futus dimostrata dal verbo futare, 
non nuoce a quella che io sostengo dol participio stus, 
giacché sum e fit«, che ora fanno un sol verbo ano- 
malo composto e raccozzato di duo difettivi, furono a 
principio due verbi ben distinti e per origine e per 
forma materiale, e probabilmente completi tutti e due, 
c mm difettivi come ora (2*1 giugno 1823). 

* K notabile come il nostro volgo e il nostro di- 
scorso familiare conservi ancora l' esattissima etimo- 
logia e proprietà do' verbi stupeo, stupeseo, stupefaeio, 
stupejìo oc, che diciamo anche stupire, stupefare, stu- 
pefarsi. In luogo do' quali vorbi diciamo sovente ^re- 
stare o rimanere o divenire o diventare di stoppa por 
grandemente maravigliarsi, che sono precisissimamonte 
il significato proprio o l'intenzione metaforica de' pre- 
detti verbi latini. (2824) Cosi penso assolutamente io, 
sobbono altri li derivano da stipes, e forse niuno ha 
pensato di derivarli da stuppa, che anche si dice stupa. 
Il che forse è avvenuto perché non dovettero sapore 
o avvertire quella nostra frase familiare che ho notata. 
Che in alcuni manoscritti si trova anche stipeo ed obsti- 
peo, ciò non vale, perché stupa si disse anticamente 
stipa, secondo Servio che lo deriva da stipare. Potrebbe 
anche osser la stessa voce che storcti da atùf u>- 1 ) E 1'» 
greco, siccome ho detto più volte, cambiasi nel latino 
ora in i ora in u, e questo due vocali i ed w si scam- 
biano sovente fra loro e nel latino e nelle altre lin- 



') Chi sa eli» lo stesso stipare non venga apposto <ln c;tO?« pio 
tosto cho da ot.i?»? Vedi Fornellini in etipa, «tfpo, stuppa ce. (Ieri 
»• egli ha ohe faro con ttupa o stipo, eMO viene da intesta voce, o non i 
contrario, come vuol Soi-vio. 



(2824-2825) 



17 



guo, come ho pur detto altrove; ed osservate infatti 
che Fu francese e bergamasco e 1' » greco, è appunto 
un misto e quasi un composto d'ambedue queste vo- 
cali i ed w, e non si sa a qual più. dolio duo rasso- 
migliarlo; onde si vede quanto elle sieno affini o si- 
mili ed amiche tra loro, cho s'accozzano insieme a 
l'uro (sulla bocca di molti e diversi popoli) una sola 
vocale, dove ninna delle due viono a prevalere. Quindi 
s'argomenti quanto è facile che queste due vocali si 
scambino l'una coli' altra nella pronunzia (2825) umana, 
anche ip uno stesso tempo e popolo, nonché in diversi 
tempi e nazioni' e (dirai. Simulare da sìmllis, onde 
anche limitare, e noi simigliare e somigliare, assiviu- 
lare v'assimilare, maximus, optimus e maoeumns, optu- 
mus, amantissimus e amantissumus. Vedi Perticai!, 
Apologià di Dalile, p. 156, cap. XVI, verso il fine, lu- 
bens, decumus, reeiperare e recuperare, carnufex (26 
giugno 1823). 

* Foréwnatianus, in Honorii (Augustodunonsis, De 
luminaribus Ecdesiae) Codicibus, lib. I, cap. 98, vitiose 
Fo-rtunatius, natione Af'er. Aquilejensis Episcopus, in- 
torfuit Concilio Sardiconsi, An. 347, et p. 179, teste Hic- 
ronymo (J)e scriptoribus Ecctcsiasticfs) cap, U7, scripsit 
Oommentarios in Evangelia, titulis (ut apud Hilarium 
fit) ordinatiti, breviqtie et rustico sermone. Do rustico 
sermone Latino singularem se libellum conscribere 
proposuisse testatus est V. C. Christianus Falsterus 
ad Gelili XIII, 6, parte 3. Amoenitatum l'hilologi- 
carum, p. 280. De Fortunatiano hoc, qui ad Arianos 
denique deflexit, plura Tillemontius, tomo VI, momo- 
riarum, pag. 364-419. Fabricius, Biblioth. Lai. med. 
et inf. aetat., ed. Mansii, Patav., 3 754, t. II, p. 178-179, 
lib. VI, art. F ortunatianus (26 giugno 1823). 



* Alla p. 2776. Da aòio o aoitu, su>£tu. Notate che l'etimo- 
logi co dice esprossamente che otùCiu deriva da <jJku (e 
LKOi-AitLi. — Pensieri, V. B 



18 PSiNSÌÈRl (2825-2826) 

non viceversa), ed aggiungo, corno !£<b sedere facÀo, 
seu colloco, pono, da !<u colloco, statuo. Cosi i£u> sedere 
facto, in sede, colloco, eh' è lo stesso verbo che 5£«>, come 
dico Eustazio, (2826) è fatto da Iu>. risTÓ-O pando 
explico da imàcu idem. ') Anche da ne-iai^ai si trova 
fatto Kz-à^.'/.i nei frammenti dol 'l'osiwÀi-j-o; d' Epifa- 
nio pubblicati dal Mustoxidi e dallo Scinà nella Col- 
lezione di vari, aneddoti greci (i quali frammenti però 
credo che non fossero, comò gli editori stimarono, ine- 
diti). Vedi l'ultima pagina delle annotazioni degli 
editori a essi frammenti , nel fine, e, se vuoi, la 
p. 2780, margine. E forse buona parte di questi tali 
verbi mancavano originariamente del £, aggiunta poi 
per proprietà di pronunzia o di dialetto, per evitar 
l' iato ee. Da yàsv.<u y//av.a£u). Ma questa è un' altra 
formazione, che cambia in eerto modo il significato 
e lo rende più continuo ec. Cosi potrebbe essere 'j-^tm^uì 
da Spreto e non da àpitàto. KuìjjihO sembra voniro da 
v,ii>|j.o; a dirittura, non da xcd|ak<j>; e cosi molti altri. 
Da ppùio Bpoafoi (26 giugno 1823). 

* E da notare che la nostra ben distinta teoria 
della formazione grammaticale de' continuativi e fre- 
quentativi giova ancora a dimostrare evidentemente 
l'antica esistenza ed uso de' participii o supini di 
moltissimi verbi che ora no mancano affatto, mentre 
però esistono ancora i loro continuativi o frequenta- 
tivi, come fagliare dimostra fuijilits o fugitum di fugio 
che altrimenti non si conoscerebbe, e cosi cent' altri; 
ovvero di participii e supini divorai da quelli che ora 
si conoscono, come agitare dimostra il participio affi- 
ti** diverso da actus, noscitare noscitim diverso da no- 
tus, future e funditarc, futus e funditus, ambedue di- 
versi da fusus (vedi la p. 2928 segg., 3037), quaeritarc 
quaeritus, diverso da quaesitus cho non è di quaero, ma 

') I>:i x£/.<z(o reJ.ifu, Tignar.)- TSX«à?Oi àviàu- -iviiiw, ÌTi|iàu- 
ìtijjwìJu, T(u- itlju, *pf(j- npi^u, }&>$ia~iZa. 



1!> 



Hi quaeso, benché a quello s'attribuisca, o simili. E 
servo ancora ad illustrare e mettere in chiaro l'antico 
uso e regola seguita (2827) da' latini nella formazione 
de' partieipii in us e de' supini, come ho fatto vedere 
altrove in proposito di agitare; e la vera origine di 
molti participi! più moderni, come actus, e la loro ra- 
gione grammaticale; o spiega e scioglie molte anomalio 
apparenti oc. oc. ec. (27 giugno 1823). 

* Alla p. 2795, margine. Cambiata la pronunzia dolla 
lingua greca, doveva necessariamente mutarsi il 
modo di produrre l'armonia eolla collocazione delle 
parole (giacché le parole collocate all'antica o pronun- 
ziate diversamente non potevano più rendere l'antica 
armonia) o quindi variarsi affatto la struttura del- 
l' orazione, e prendere un altro giro il periodo; ed ol- 
tre a ciò mutarsi ancora l'armonia risultante dalla 
eolloeaziono delle parolo modornamente pronunziate, 
giacché di diversi elementi, cioè di parole diversa- 
mento pronunziate era quasi impossibile che no ri- 
sultasse uno stesso offetto per mezzo della varia col- 
locazione, cioè che le parole pronunziate alla moderna 
e distribuito perciò diversamente dal modo antico 
producessero l'armonia stossa che producevano col- 
l'antica pronunzia e collocazione. Quindi diversa 
struttura e giro di orazione e di periodo, o nel (2828) 
tempo stesso diversa armonia. Assai più gran cosa 
elio non paro si è il cambiamento della pronunzia in 
una lingua. E parlo qui solamente della pronunzia 
che spetta alla quantità, cioè alla brevità o lunghezza 
delle sillabe ed all' accentazione, senza entraro punto 
in quella pronunzia che spetta alle stesse lettere ed 
dementi dolla favella , la quale pronunzia come in- 
fluisca sulle lingue e come basti a diversificarle l'una 
dall' altra, e sia principal causa si della moltiplica- 
zione si della continua alterazione do' linguaggi, è 
cosa già dimostrata. Ma quella pronunzia che spetta 



20 



alla semplice quantità delle sillabe ed agli accenti, 
par cosa del tutto estrinseca alla lingua. Infatti 
ella non altera in nessun conto il nifiterialo delle 
parole comò fa l 1 altra. Ed appunto eli' è veramente 
estrinseca ed accidentale allo parole. Nondimeno il 
cambiamento di questa pronunzia, che nulla influisce 
su ciascuna parola, influisce sulle più intrinseche 
parti della favella, ed arreca essenzialissimi cangia- 
menti alla composizione e all' ordine delle parolo, e 
quindi al giro ed alla forma della dicitura, e quindi 
alla vera indole della favella. Vedi p. 3024. 

Oltre di che, quando anche a' tempi bassi si fosse 
potuta dare all' ora/iono l'antica armonia, quando an- 
che quest 1 armonia si fosse ben conosciuta (2829) (che 
già non si conosceva), il mutato e corrotto gusto non 
lasciavano poteva lasciar di stendersi anche all'armonia. 
Onde quell'armonia antica non sarebbe piaciuta, senza 
cadenze, senza strepito, senza ritornelli, senza eco, senza 
rimbombo, senza sfacciataggine di ritmo, dolcemente e 
accortamente variata ec. Tutte le contrarie qualità 
piacevano e si celebravano a quei tempi. Leggansi le 
orazioni o declamazioni o proginnasmi ec. e l'epistole 
stesse de' sofisti Libanio, Imorio, Coricio ec.- Questo 
ancora gli obbligava a dare alle parole un giro diverso 
dall' antico. Di più, quando anche non fosse mancata 
loro la volontà, sarebbe mancata l'arte che infinita si 
richiede alla retta economia ed uso de' numeri. Quindi 
essi sono sempre insolentemente monotoni oc. (27 giu- 
gno 1823). 

* Ho detto altrove che il greco moderilo è senza 
paragone pili similo al greco antico che non l'italiano 
al latino. Fra lo altre moltissime particolarità basti 
osservare che una dello coso che massimamente di- 
stinguono le lingue moderne dalle antiche, e fra que- 
ste l'italiana, spagnuola ec. dalla latina, si è che le 
moderne mancano dei casi de' nomi; il che (2830) ba- 



(2830-2831) 



PENSIERI 



21 



starebbe quasi per se solo a diversificare il gonio e 
lo spirito delle nostre lingue, da quel delle antiche. 
Ora. il greco moderno conserva gli stessi casi del- 
l' antico. Conserva ancora l'nso dolla composizione 
fatta coi vocaboli semplici e colle preposizioni e par- 
ticelle. Ma già non v' è bisogno d'altra prova che di 
gittar l'occhio sopra ima pagina di greco vernacolo 
correttamente scritto, per conoscere la visibilissima e, 
dirci quasi, totale somiglianza eh' esso ha coli' antico, 
e quanto ella sia maggiore, and di tntt'altro genere 
che non è quella, che passa tra 1 J italiano e il latino, 
giacché questa consiste principalmente nel materiale 
de'vooaboli e delle radici, e quella, oltre di ciò, in 
grandissima parte doll'indole e dello spirito. Ho dotto 
correttamente scritto, perché corto fra il greco mo- 
derno scritto o parlato da un ignorante e quello scritto 
da un uomo cólto ci corre tanto divario quanto fra 
questo e il greco antico. Vedi il contratto in groco 
moderno barbaro pubblicato da Chateaubriand nel- 
l' Minerario. Ma ciò è naturalo, e succede in tutte Je 
lingue e nazioni, e certo il greco antico parlato, anche 
dai non plebei, e scritto (283!) dagl' ignoranti era ben 
diverso da quello che scrivevano i dotti, come il la- 
tino rustico dall'illustre Vedi la pag. 2811. Il greco 
moderno cólto, giacché ed ogni lingua può esser cólta, 
e mima lingua non cólta può valer nulla, potrebbe 
certo divenire una lingua bella, efficace, ricca, potente 
e forse, per la gran parte che conserva si delle ric- 
chezze come delle qualità e della natura dell'antico, 
una lingua superiora o a tutte o a molte delle mo- 
derne cólte o t'ormate (27 giugno 1823). 

* Grazia dallo straordinario e dal contrasto. Spesse 
volte la grazia o delle formo o delle maniere deriva 
da una bellezza e convenienza nelle cui parti non 
esiste veramente nessun contrasto, ma che però re- 
sulta da certe parti che non sogliono armonizzare e 



•22 



imstamu (2831-2832-2833) 



convenire insieme, bonché in questa tal bellezza e in 
questo tal caso convengano; ovvero da parti che non 
sogliono trovarsi riunito insieme, benché, trovandosi, 
sempre armonizzino : onde essa bellezza è diversa 
dalle ordinario, bonclié sia vera bellezza, cioè intera 
convenienza ed armonia. In t;il caso il contrasto 
12832) è estrinseco ed accidentale, non intrinseco: in 
tal caso la grazia deriva precisamente dalla bellezza, 
ma non dalla bellezza in quanto bellozza, bonsi in 
quanto bellezza non ordinaria e di genero diversa 
dallo altro; cosi che la grazia anche in questo caso 
deriva dal contrasto, non dolio parti componenti il 
bello, ma del tatto, cioè di questo tal bello, col bello 
ordinario; o dalla sorpresa cho 1' uomo prova vedendo 
o sentendo una bellezza diversa da quella ch'egli 
suole considerar come tale, il che produce in lui un 
contrasto colle suo idee. Questo caso, da cui nasce la 
grazia, non è raro. Tutte quelle fisonomie. o quelle 
forme di persona, perfettamente armonizzanti, e con 
tutto ciò non ordinarie, o nelle quali non si suol tro- 
vare armonia, o insomma di genere diverso dal più 
dello fisonomie e forme belle sono per qualche parte 
graziose. E il caso è più frequente e più facile 
nello manioro, lo quali ammettono più varietà che le 
forme materiali e naturali, e possono armonizzare in 
molti più modi cho le dotte forme. (2833) 

La grazia, anche in quosti casi, è sempre rela- 
tiva, cioè secondo il contrasto che fanno quelle tali 
forme o maniere colle assuefazioni e colle idee che lo 
spettatore ha intorno al bollo. Il qua! contrasto può 
esser maggiore in una persona, minoro in un' altra, 
e in un' altra nullo : e quindi produrre un senso di 
maggiore o minor grazia ; ovvero questo senso non 
esser prodotto in niun modo. E questa varietà può 
anche essere in una medesima persona in diversi 
tempi e circostanze, assuefazioni ed idee. Onde può 
succedere che ad una medesima persona in altro tem- 



98 



pò, o ad un' altra persona nel tempo stesso, riosoa 
grazioso in questi casi appunto il contrario di quello 
ch'orale già riuscito, o che riesce a quell' altra per- 
sona. E questa, grazia di cui discorro può esser tale 
per un maggior o minor numero di persone, per la 
l'ili parte o per pochi, per quelli d'una città q na- 
zione o por quelli d'un' altra, per la gente di cam- 
pagna o di città ; secondo che lo straordinario di quella 
tal bellezza e armonia è maggioro o minoro, più o 
meno visibile, rispettivo a quello (2834) che i pili 
riconoscono per bellezza o a quello che pochi oc. Seb- 
bene io abbia qui considerato questa grazia applican- 
dola alle forme e manioi-e delle persone, il medesimo 
discorso si potrà e dovrà fare intorno a tutti gli al- 
tri oggetti capaci di bellezza e di grazia, in molti 
do' quali sarà molto più frequente o pili facile il caso 
della grazia figlia della bellezza diversa dall'ordina- 
rio, eh' esso non è nelle forme e manioro degli uomini 
(27 giugno 1823). Vedi p. 3177. 

• Dovunque non cado bellezza, non cade grazia. 
Dico relativamente agli uomini, perché bellezza e 
bruttezza cade in qualsivoglia cosa, ma gli uomini 
non ne giudicano, o non ne ricevono il senso se non 
in certe. E in queste solo, dov'essi possono riceverò 
il senso della bellezza, possono anche ricever quello 
della grazia e concepirla. E viceversa similmente, do- 
vunque cade bellezza, cade ancor grazia. Non che 
P una non possa esser senza V altra. Ma quel genere 
eh' è capace dell' una è capace dell' altra. E per bel- 
lezza intendo quella eh' è propriamente e filosofica- 
mente (2835) tale, cioè quo! la eh' è convenienza, non 
1' altre impropriamente chiamato bellezze C27 eineno 
1823). k b 

* Pcuscitare da paxeitas antico participio di pasco 
poi contratto in pashis, come mseitcsre da nosdtus poi 



(2835-2836) 



ristretto in notux (siccome da suesco suetus ec.) del 
qual verbo noscitare \io detto altrove (28 giugno 1823). 

* JCmpUto o tmtito frequentativo da cmo-emplu», etn- 
tu#. Non vi sarobbe chi appresso Pianto, Cos., IT, 5, 3£>, 
leggesse ernpsitem per empiitevi se si fosso ben posto 
mento alla teoria eri alla formazione grammaticale 
de' frequentativi in ito, ed alla loro derivazione dai 
participii o supini, o non d' altronde (28 giugno 1823) . 

*Ho recato altrove, in proposito dei sinonimi, al- 
enili esempi di voci che nelle lingue figlie della latina 
son passati ad aver per proprii de' significati ben lon- 
tani da quelli che avevano nella latina, e tra quosto il 
verbo quaerere (quarer) che nella lingua spagrmola si- 
gnifica velie. Aggiungete 1' esempio del verbo latino 
creare (criar) che in ispagnuolo significa allevare, edu- 
care, si esso come i suoi derivati, crianza, criddo ec. 
(28 giugno 1823). (2836) 

* Solati communes nato.*, consortia teda Urbis habent 
(apes), magnisque agitakt xuh legibUs àevum. Geor- 
giche, 1. IV, v. 153-154. Qui il verbo agito non può es- 
ser] pili continuativo di quel eh' egli è; e veramente 
non so chi possa avere il coraggio di dire ch'egli in 
questo e ne' simili luoghi sia frequentativo (28 giugno 
1823). 

* Ho mostrato altrove che i poeti e gli scrittóri 
primitivi di qualunque lingua non potevano mai os- 
sero eleganti quanto alla lingua, mancando loro la prin- 
cipal materia di questa eleganza, che sono lo paróle 
e modi rimoti dall'uso comune, i quali ancora non 
esistevano nella lingua, perché scrittori e poeti non 
v'erano stati, da' quali si potessero tórre, ci quali 
conservassero quelle parole e modi che già furono in 
uso. Onde quando una lingua comincia ad essere 



(2836-2837-2838) pensieri 25 



scritta, tanto esiste della lingua quanto è nell'uso 
comune: tutto quello ohe già fu in uso, e olio poi ne 
cadde, è dimenticato, non avendovi avuto chi lo con- 
servasse, il che fanno gli scrittori, che ancora non vi 
sono stati. Togliere pili che tante parole o forme da 
quella lingua la cui letteratura serve di modello alla 
nuova (come gl'italiani avrebbero potuto fare dalla 
lingua latina), è pericoloso in quei principii molto più 
che nel séguito (contro quello che si stimano i pe- 
danti), anzi non si può, porche, quando nasce la let- 
teratura (2837) di una nazione, questa nazione è na- 
turalmente ignorante, e poro lo scrittore o il poota, 
cosi facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non 
prenderebbe piede, non si propagherebbe mai, non 
crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. Di più 
il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in questo pro- 
posito la p. 3015. Questo medesimo vale anche porle 
parole della stessa lingua, rimote più che tanto dal- 
l' uso comune, sia per disuso (seppur lo scrittore 
stosso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando 
fin allora gli scrittori), sia per qualsivoglia altra ca- 
gione. Bisogna considerare che la nazione in quel 
tempo è ignoranto, e non istudia, e non leggerebbe 
quella scrittura o quel poema, benché scritto in vol- 
gare, le cui parolo o modi non fossero alla sua portata 

0 egli non potesse capirli senza studiarvi sopra. E 
poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o di forme 
basta ad eccedere la capacità de' totalmente ignoran- 
ti, quali sono allora quasi tutti, e degli a tutt' altro 
avvezzi che allo studio. Ho dunque detto altrove che 

1 poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti e sem- 
pre o per lo phi, si nella lingua si nello stile, tirano 
al familiare. E questo viene, si p 0r adattarsi' alla 
capacita della nazione, si perché, mancando loro, corno 
s e detto, la principal materia dell' eleganza (2838) di 
lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica 
e rimessa, e non volendo che questa ripugni e di- 



86 



PENSIERI 



(2838-2839) 



sconvenga allo stile, sono altresì costretti di tenere 
anehe questo, per così dire, a mezz' aria, e di fami- 
liarizzarlo. Ondo accade che questi tali poeti o scrit- 
tori sappiano di familiare anche ai posteri, quando 
lo loro parole e forme, gi;'i divenute abbastanza lon- 
tane dall' uso comune, hanno puro acquistato quel che 
bisogna ad essere elegantissime, pori oche già elle come 
tali s' adoprano dagli scrittori e poeti della riaziono 
ne' più alti stili. Ma non essendo elle ancora eleganti 
a' tempi di que' poeti e scrittori, questi dovettero as- 
sumere un tuono e uno stile adattato a parole non 
eleganti, e un' aria, ima, maniera, nel totale, dome- 
stica o familiare, le quali cose ancora restano, e que- 
ste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, ben- 
ché 1' eleganza sia sopravvenuta alle loro parole o 
a' loro modi che non P avevano, com' è sopravvenuta, 
e somma, a quei del Petrarca. Queste considerazioni 
si possono fare, e questi effetti si scorgono, massi- 
mamente ne' poeti, non solo perché gli scrittori pri- 
mitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura 
(2839) sono per lo più poeti, ma perché, mancaiido ad 
essi la detta materia dell' eleganza, niente meno ohe 
a' prosatori, questa mancanza o lo stilo familiaro che 
ne risulta è molto più sensibile in essi che nella, 
prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto 
l'imoto dall' uso comune per esser elegante di quella 
eleganza che le conviene, e deve sempre tener qualche 
poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del 
Boccaccio, benché familiare anch' esso, massime ad 
ora ad ora, pur ci sa meno meno familiare, e ci 
rende più il senso dell' eleganza e della squisitezza 
che quello del Petrarca, c dimostra meno sprezzatura, 
eh' è poro nel Petrarca bellissima. Cosi è : la condi- 
zione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto 
ai materiali che si trovano aver nella lingua, è la 
stessa (a difforonza de' tempi nostri che abbiamo a 
poco a poco acquistato un linguaggio poetico tutto 



(2839-2840-2841) pensieri 



distinto) : il prosatore si trova dunque aver poco 
meno del suo Insogno, e quasi anche tanto che gli 
basti a una certa eleganza : il poeta che non si trova 
aver niente di più bisogna ohe si contenti di uno stile 
e di una maniera che si accosti alla prosa. Ed infatti 
è benissimo definita (2840) la familiarità che si sente 
ne' poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza es- 
sore però basso, porclié tutto in loro è ben proporzio- 
nato o corrispondente, tieno «lolla prosa. Come fa 
l' Eneida del Caro, che quantunque non sia poema 
primitivo, pure, essondo stato quasi un primo tentarne 
di poema eroico in. questa lingua, che ancora non n' ora 
creduta capace, coni' osso medesimo scrive, può dirsi 
primitivo in certo modo noi genere e nello stile eroico. 

Tutto quosto discorso sui poeti e scrittori primi- 
tivi di una lingua si devo intender di quelli che me- 
ritano veramente il nome di poeti o di scrittori, e 
non di quei primissimi e rozzissiini, ne' quali non cade 
sapore né di familiarità né d'eleganza, né d'altra cosa 
alcuna determinata e che si possa ben sentire, fuor- 
che d' insipidezza, non avendo essi né lingua, né stilo, 
né maniera, né carattere formato, sviluppato, costante 
e uniformo. E il sopraddetto discorso ha massima- 
mente luogo, e i sunnotati effetti avvengono princi- 
palmente nel caso che sui principii di una lettera- 
tura compariscano tali e cosi grandi ingegni che o la 
creino (2841) quasi in un tratto, o tanto innanzi la 
spingano dal luogo ove la trovano, ch'essa paia poco 
mono che opora loro. Il qual caso avvenne alla lette- 
ratura greca e alla italiana. Anche gli antichi e primi 
scrittori latini hanno sapore e modo tutto familiare, 
si poeti come Ennio e i tragici, di cui non s'hanno che 
frammenti, Lucrezio ec; si prosatori, corno Catone, 
Ciucio ed altri cronichisti di cui pur s' hanno fram- 
menti ec. Perciocché quando la letteratura si va for- 
mando a poco a poco e con tanta uniformità di pro- 
grossi, che mai un suo passo non sia fuor d'ogni 



l'KXSIKKl 



(28+1-2842) 



proporzione cogli antecedènti; i summentovati effetti 
sono manco notabili, e manco facili a vedere, tro- 
vandosi 1' ologan/a delle parole e dei modi già fatta 
possibile coli' abbondanza degli scrittori e l'arricchi- 
mento dolla lingua che dà luogo alla scelta; o la na- 
zione già capace e cólta e studiosa, prima ohe la let- 
teratura giunga a produr cosa alta e perfetta, e che 
un grande ingegno faccia uso dell'una e dell'altra 
disposizione, cioè di quella della lingua, e di quolla 
de' suoi nazionali (28 giugno 1823). Vedi p. 3009, 3413. 

* Partieipii in us di verbi attivi o neutri, non de- 
ponenti, in senso attivo o neutro, alla foggia di quelli 
do' deponenti. Dissimulatus a um,pranxus a um, impran- 
sus a um, coenatus a um, incoenattts a wwi, potus a um 
(dall'antico po o poo, di cui altrove), appotus a um, 
iuratus a um, coniuratus a um, iniuratus e simili, solir 
tue a um, insolitus a um, mietuti a um. co' suoi composti, 
hausus (Foroollini, haurio, fino) .Vedi lap. 2904. line, 3072 ; 
esus a um, vmtus a um (2842), appresso Plauto, gavisus 
a um (ijavìsus min, per l'antico gavisi), óbsiineUm a um, 
obituà a um e altri composti di eo, come fatfevihià a um, 
praeteritus, a um. Placito» a um, comò gavisus. Vodi 
Porcellini. Vedi il Porcellini si in questi partieipii, 
si ne' verbi loro, specialmente in coeno, edo, vento ec. 
(28 giugno 1828). Vedi p. 3060. 

* Continuativi delle lingue figlie della latina. Di- 
ventare italiano da devenio-deventus. S'épultar spagnuolo 
da sepelio-sepultus. Questo verbo sepultare trovasi usato 
da Venanzio fortunato, poeta e scrittore italiano del 
sesto secolo, Carm., lib. Vili, llymno de vìtae wtcrnae 
gaudiis (glossario Cang). Gazar spagnuolo da gaudeo- 
gavisus. Fecesi ne' bassi tempi di gavisus gausus, onde 
gosus, onde gosare e gazar. Ovvero di gavisus gavìmre, 
gausare, gasare, gazar. Trovasi nello antiche glosse 
latino-grocho gaviso ^atpw. Vedi il glossario Cang. in 



(2842-2843) 



PF.NfSIF.ni 



29 



Mavisci, ed anche in Gavi$io,Gausida (goduta sostantivo) 
e Gausita. Vedi quivi anche Gauzita dovo trovi già 
il 'A di. gazar. Da questo, o da gaviaio, gausio gonio, 
anzi da gavinus us gansus, gomiti, credo io che sia fatto lo 
spagnuolo gozo, godimento, piuttosto che da garulium. 
Gozar assai spesso, come il nostro godere e il fran- 
cese jouir, è vero continuativo di gaudere, non mono 
per il significato cho por la forma, equivalendo a 
fruì. Il verbo jouir, jouissons, jouissez, jouissent oc. dee 
esser venuto similmente da gavisare, prima che questo 
fosso mutato in (284-3) gausare, e ne sparisse la ì cho 
manca in gozar, ma con tutto ciò ò pili sfigurato. 
Cosi dite di joie, jouissance, joyeux ec. e di gioia, gioire 
ec. che di là vengono. Pressare, presser, prensar, appres- 
sare , oppresse, soppressore, expressar o da premo-pres- 
sws.Vedi il glossario. Tritare da tero-irvtus. Il glossario 
Tritare, Frequenter terere, Joh. de Janna cioè genovese, 
del secolo XIII, autore di un lessico edito. Cantare 
incantare da caveo-cautus. Vedi il glossario. Pranzare o 
pranzare italiano da pransus di prandeo, ondeilfrequen- 
tativo latino pransitare. Incettare non da un barbaro 
incaptare, come pensa Giordani nel principio della 
lettera a Monti, Proposta, voi. I, parto 2, ma appunto 
da un inceptare, mutato 1' a di captare, in e per virtù 
della composizione, come in attrectare, contrectare, da- 
trectare, obtreetara ec. da tractare o da detractus ec. di 
dutraho. in affettare ec. da affectus di affido, il quale 
viene da facto, in coniectare, subiectare, obiectare ec. da 
conieetwi di coniicio cho viene da iacìo, in descendo, ascendo 
ce. da seaiido, in accento da occentus di occino da vano, 
in aggredior oc. da gradior, in accendo, incendo, succendo 
da eandeo o dall'inusitato «andò (vedi p. 3298), e in 
molti simili, benché pivi generalmente o regolarmente 
Va della prima sillaba de' verbi dissillabi ') si muti 
per la composizione in i (e puoi vedere la p. 2890; . 



') Vedi pag. 3351, 



so 



PENSIKW 



(2 843-2844) 



liieepto àa ìneeptus d' incipio è tutt' altro verbo. 
Da capto, o certo da copio, vengono exeepta, re- 
eepto, acceplo, intercettare, discepto ec, i quali paro 
mutano l' a in e,, e con fanno excaj)to, recapto ec. 
Vedi p. 3850 , fine , 3900 , fine. Avvinare nel suo 
senso proprio (vodi la Crusca in avvisare, § 1, 2, 3) 
è verissimo continuativo di avvedere noi senso suo 
primitivo. Ma non può esser fatto da questo verbo ita- 
liano, il quale lia per participio avvisto o avveduto, 
non avviso. Conviene che sia fatto da advisus di ad- 
videre, il quale verbo oggi non si trova nella ottona 
latinità. Puoi vedere la p. 3034. Trovasi però nolla 
bassa il verbo advidere in senso di avvertire che io 
credo metaforico, (2844) e in questo e simili sensi il 
verbo advimra e avisare. Vedi il glossario Gang. Anello 
i francesi e gli spaglinoli, cho non hanno il verbo 
avvedere, hanno aviser e avisar, ma l'usano in quei 
sensi metaforici no' quali l'usiamo anello noi. Nel 
senso proprio nel qualo egli è più dirittamente con- 
tinuativo del suo verbo originale advidere non credo 
eh.' egli si trovi so non nella nostra lingua, e princi- 
palmente nei nostri antichi autori. Noi diciamo anche 
avvistare, od equivale a un di presso ad avvisare, nel 
senso proprio, o nel più simile a questo. Vedi p. 3005. 
Advidere dovette propriamente significare adspicere, 
oeidòB advertere, e quindi anche animuw, advertere 
(nell'esempio che ne porta il glossario non mi ri- 
solvo s' ei voglia dire animadvertere o commonere, 
corno il glossario spiega). Nel qual senso avvisare, 
preso nel significato proprio, è suo vero continuativo, 
osprimondo la stessa azione, ma più durevole. Si può 
dir simile ad adspectare. Noi non usiamo advidere 
so non reciproco, cioè neutro passivo, sempre però in 
significato simile ai sopraddetti o che questo sia re- 
lativo agli occhi che propriamente vedono, o all'animo 
che considera e conosce. Olii vuol ridere o nuova- 
mente vedere quanti spropositi abbia fatto dir la poca 



(2844-2845-2846) pensieri 



33 



notizia finora avutasi della formazione do' verbi (2845) 
latini e latino-barbari da' partieipii o supini d'altri 
verbi, vegga la bella etimologia di advimre cho dà 
l? Hickesio presso il Cango noi glossario. Vedi la Cru- 
sca anche in avvieamento, § 3 e in awistttwa (29 giu- 
gno, mio di natale, 1823). Vodi p. 3019. 

* Vantano che la lingua tedesca è .di tale e tanta 
Capacità o potenza, che non solo può, sempre che vuolo, 
imitare lo stile e la maniera di parlare o di scrivere 
usata da qualsivoglia nazione, da qualsivoglia autore, 
in qualsivoglia possibile genero di discorso o di scrit- 
tura: non solo può imitare qualsivoglia lingua, ma 
può effetti voiiiCuilG trasformarsi in qualsivoglia lingua. 
Mi spiego. I tedeschi 'hanno traduzioni dal greco, dal 
latino, dall'italiano, dall'inglese, dal francese, dallo 
spaglinolo, d'Omero, dell'Ariosto, di Shakespeare, di 
Lopo, di Oalderon oc, lo quali non solamente conser- 
vano (secondo che si dice) il carattere doli' autore e 
del suo stilo tutto intero, non solamente imitano, espri- 
mono, rappresentano il genio e l'indole della rispet- 
tiva lingua, ma rispondono verso per verso, parola poi- 
parola, sillaba per sillaba, ai versi, alle costruzioni, 
all' ordino preciso (2846) delle parole, al numero dolio 
medosime, al metro, al numero e al ritmo di ciascun 
verso o membro di periodo, all' armonia imitativa, alla 
cadenza, a tutte le possibili qualità estrinseche come 
intrinseche cho si ritrovano nell'originale: di cui per 
conseguenza elle non sono imitazioni, ma copio cosi 
compagno coni' è la copia d : un quadro di tela fatta 
in tavola, o d'una pittura a fresco fatta a olio, o la 
copia d'una pittura fatta in mosaico, o tutt' al più in 
rame inciso colle med esimissime dimensioni del quadro. 

tìo questo è, che certo non si può negare, resta 
solamente che si spieghi con dire che la lingua todo- 
sca non ha carattere proprio, o elio il suo proprio ca- 
rattere si è "di non averne alcuno oltre i cui limiti 



S2 



PBNSEBBX (2846-2847-2848) 



non possa passare, il che viene a dir lo stesso. Che 
una lingua per ricca, varia, libera, vasta, potente, pio- 
glievole, docile, duttilissima ch'ella sia, possa rice- 
vere, non solo l'impronta di altre lingue, ma, per cosi 
dir, tutte intiere in se stossa tutto le altre lingue; 
eh' olla si rida della libertà, della infinita moltiplicata, 
della immensità della lingua greca, e dopo averla tutta 
abbracciata ed ingoiatone tutte lo innumcrabili forme, 
ella si trovi ancora tanta capacità come per lo in- 
nanzi, o possa ricevere e riceva, sempre che vuole, 
tutte le forme (2847) delle lingue lo più inconciliabili 
colla stessa greca (che con tante si concilia) e fra loro; 
dello lingue teutoniche, slave, oriontali, americano, in- 
diane, questo, dico, non può umanamente accadere, se 
non in una lingua che non abbia carattore; non è ac- 
caduto alla greca eh' è stata ed è la più libera, vasta e 
potente e la più diversissimamente adattabile di tutte 
le lingue formate elio si conoscono; non è accaduto e 
non accade, che si sia mai saputo o si sappia, a nes- 
sun' altra lingua perfetta di questo mondo. 

Io doteranno il mio ragionamento cosi. Ogni na- 
zione ha un suo carattere proprio e distinto da quello 
di tutto le altre, come lo ha ciascuno individuo, e tale 
che niun altro individuo so gli troverà mai perfetta- 
mento uguale. Ogni lingua perfetta è la più viva, la 
più fedele, la più totalo immagine e storia del carat- 
tere della naziono che la parla, o quanto più ella e 
perfetta tanto più esattamente e compiutamente rap- 
presenta il carattere nazionalo. Ciascun passo dulia 
lingua verso la sua perfezione è un passo verso la 
sua intera conformazione col carattere do' nazionali. 
Ora domando io: i tedeschi non (2848) hanno carat- 
tere nazionale ? corto che 1' hanno. Porse non ancora 
sviluppato, di modo, ch'essendo tuttavia informe, è 
capace d'ogni configurazione, o non ben si distinguo 
da quollo degli altri popoli ? Anzi sviluppatissimo, 
perché la civiltà loro è già in un alto grado, l'orso 



(2848-2849) 



l'EKSlEKI 



cosi vario, cosi sfuggevole, cosi pieghevole, cosi adat- 
tabile ad ogni sorta di qualità, ch'esso abbracci tutti 
i caratteri delle altre nazioni, e a tutti questi si possa 
conformare? tutto l'opposto, porche il carattere della 
Dazione tedesca è benissimo marcato e cosi costante, 
che forse il suo difetto ó di piegare alla roidewr, a 
una certa rigidezza e durezza, e di mancare un poco 
troppo di mollezza e pieghevolezza. Ma quando anche 
fosse appunto il contrario (come sarebbe fino a un 
certo sogno negl' italiani), a me basterebbe ohe la na- 
zion tedesca avesse pure un qualunque carattere, che 
offrisse abbastanza tratti di distinzione per non po- 
torio confondere con un altro, e molto meno con qualsi- 
voglia altro. Or dunque se la nazione tedesca ha un 
carattere proprio, so essendo civile non può non averlo, 
se tutte le nazioni civili lo hanno, e non possono man- 
carne, (2849) la lingua tedesca s'ella è formata, e più, 
s'ella è perfetta, dev'essere una fedelissima e com- 
pleta immagine di questo carattere, e per conseguenza 
avere aneli 'essa un carattere, e determinato e costante, 
o tale che non si possa confondere con quello di un'al- 
tra lingua, né ella possa ammettere il carattere di 
un'altra lingua, ancorché simile a lei, né molto mono 
scambiare il suo proprio carattere con questo. Ma la 
lingua tedesca, senza far violonza alcuna a se stessa, 
ammette le costruzioni, lo forine, lo frasi, l'armonia, 
non solo delle lingue affini, non solo delle setten- 
trionali, ma delle più alieno, ma delle antichissime, 
delle meridionali, delle formate e delle informi, di 
quelle' che appartengono a nazioni per costumi, per 
opinioni, per governi, per costituzione corporale, por 
climi, per leggi eterne della natura dispartissimo, ed 
oziandio contrarissimo al carattere proprio o costantis- 
simo e certissimo della nazion tedesca, insomma di 
tutto le possibili lingue passate e presenti e per cosi 
dir futuro. Dunque la lingua todosca non è formata, 
non è determinata, e molto meno perfetta. 

Lkoi'audi. — Panieri, V. S 



PENSIERI 



(28+9-2830-2851) 



Parlando dell'adattabilità o pieghevolezza, e della 
varietà e libertà (2850) di una lingua, bisogna distin- 
guere l'imitare dall'agguagliare, o rifare le cose dalle 
parole. Una lingua perfettamente pieghevole, varia, 
ricca e libera, può imitare il genio e lo spirito di 
qualsivoglia altra lingua, e di qualunque autore di 
ossa, può emularne e rappresentarne tutte le varie 
proprietà intrinseche, può adattarsi a qualunque ge- 
nere di scrittura, e variar sempre di modo, secondo 
la varietà d'essi generi, o dello lingue e degli autori 
che imita. Questo fra tutte le lingue poi-fotte antiche 
e moderne potò sovranamente fare la iingna greca, e 
questo fra le lingue vive può, socondo me, sovrana- 
mente la lingua italiana. Perciò io dico che quésta e 
quella sono piuttosto ciascuna un aggregato di più lin- 
gue che una lingua, non volendo dire ch'elle non abbiano 
un carattere proprio, ma un carattere composto o capace 
di tanti modi quanti lor piaccia. Questo è imitare, 
corno chi ritrae dal naturale noi marmo, non mutando 
la natura del marmo in quella dell'oggetto imitato; 
non è copiare né rifaro, uomo chi da una figura di 
cera ne ritrae un'altra tutta (2851) compagna, pur 
di cera. Quolla è operazione pregevole, ancho por la 
difficoltà d' assimulare un oggetto in una materia di 
tutt' altra natura; questa ò bassa o triviale porla molta 
facilità, che toglie la maraviglia; e in punto di lin- 
gua è dannoso, perché si oppono alla forma o natura 
ed essenza propria ch'olla o ha o dovrebbe avere. Imi- 
tando in quel modo s 5 imitano le cose, cioè lo spirito ec. 
delle lingue, dogli autori, dei generi di scrittura; imi- 
tando alla tedesca s'imitano le parole, cioè le forme 
materiali , le costruzioni , 1' ordino de' vocaboli di 
un'altra lingua (il che una lingua perfetta, anzi pure 
tonnata, non dee mai potei' faro,, né può por natura 
fare) e probabilmente s'imitano queste, e non le cose; 
cioè non s'arriva ad esprimer l'indole, la forza, la 
qualità, il genio della lingua e dell'autore originalo 



(2851-2852-2853) pensieri 



(benché protendano di si), appunto perché in un'altra 
e diversissima lingua so ne imitano, anzi copiano lo 
parole: e madama, di Stael ancora è di questo senti- 
mento in un passo, che ho recato altrove, della prima 
lettera alla Biblioteca Italiana, 1810, n. 1. (2852) 

Una traduzione in lingua greca fatta alla ma- 
niera tedesca, una traduzione dove non s' imita, ma 
si copia, o vogliamo dire s'imitano le parole, doven- 
dosi nelle traduzioni imitar solo lo cose, si è quella 
de' libri sacri fatta da' Sottanta. Ora, la medesima lin- 
gua greca, quella cosi immensamente pieghevole e 
libera, nondimeno, percioch' ella è pur lingua formata 
e perfetta, riesco in quella traduzione (fatta certo in 
antico o buon tempo) affatto barbara o ripugnante a 
se stessa, e non greca, e di più, quantunque noi non 
possiamo per la lontananza do' tonipi o la scarsezza 
delle notizie grammaticali ec. e la diversità de' co- 
stumi o dell'indole, ìieppur leggendo gli originali 
ebraici, pienamente giudicare e sentire qual sia il 
proprio gusto do' medesimi, e il vero genio di quella 
lingua, nondimeno possiamo ben esser certissimi cho 
questo gusto e questo genio non ò por niente rappre- 
sentato dalla vorsion de' Settanta, che non è quello 
dio noi vi sentiamo leggendola, che non ve lo sentirono 
i greci contemporanei o posteriori, e eh' ella insomma 
fu ben lontana dal l'are ne' greci lo stesso effetto, né 
di gran lunga simile, neppure analogo a (2853) quello 
che facevano ne' lettori ebrei gli originali '). Oh' è 
appunto il fine che dovrebbero avere le traduzioni, e 
che i tedeschi pretendono di pienamente e squisita- 
inente conseguire col loro metodo. Aggiungasi dopo 



) Seppure la lingua ebraica ha genio o ultra indolo elio quella ili 
non averne veruna. E certo la lingua ebraica, por essere informe, può forse 
esser bene rappresontata o imitata con una traduzioni! in qualsivoglia lin- 
gua, elio por esser troppo esatta sia aneli' essa informe. 11 che non acca- 
dranno in vet un altro caso. Vedi la p. 2903, 2911), (ine - 2913. Vedi anche 
una giunta :l queata pagina uellu p. 2913. 



36 



PENSIERI 



(2853-2854) 



tutto ciò che la traduzione de' Bottali ta, barbara por 
troppa conformità estrinseca coli' originale, non le è 
di gran lunga cosi scrupolosamente od onninamente 
conforme, come le vantate traduzioni tedesche agli 
originali loro. 

Una lingua perfetta che sia pienamente libera ec. 
collo altre qualità dotto di sopra contiene in so stessa, 
per dir cosi, tutto le lingue virtualmente, ma non mica 
può mai contenerne neppur una sostanzialmente. Ella 
ha quello che equivale a ciò che le altre hanno, ma 
non già quello stesso precisamente che le altre hanno. 
Ella può dunque colle sue forme rappresentare e imi- 
tare l'andamento dell'altro, restando però sempre la 
stessa, e sempre una, e conservando il suo carattere 
ben distinto da tutte; non già assumere l'altrui forme- 
per contraffare, l'altrui andamento; dividendosi e mol- 
tiplicandosi in mille lingue, e mutando a (2854) ogni 
momento faccia e fisonoinia por modo che o non si 
possa mai sapere e determinare qual sia la sua propria, 
o di questa non si possa mai fare alcuno argomento 
da quelle eh' ella assume , né in queste raffigurarla. 

Ella è cosa più cho certa e conosciuta che i po- 
poli meridionali differiscono per tratti essonzialissimi 
e decisivi di carattere da' popoli settentrionali e gli 
antichi da' moderni, per non dire delle altro seconda- 
rie suddivisioni e suddift'erenze nazionali caratteri- 
stiche. Ella è cosa ugualmente inconcussa cho il ca- 
rattere di ciascuna lingua perfetta si è precisamente 
quello della nazione che la parla, e viceversa. La 
stessa verità è indubitata e universale intorno alla 
letteratura. Or dunqne cho una lingua settentrionale 
possa senza menomamente violentarsi né differir da 
se stessa, non solo imitare, anzi copiare, il carattere, 
ma assumere indifìoron temente le forme, l'ordine, le 
costruzioni, le frasi, l'armonia di qualunque lingua 
meridionale come di qualunque settentrionale, che una 
lingua moderna possa altresi lo stesso indilìoronte- 



(2854-2855-2856) pensieri 



87 



monte con qualunque lingua antica (2855) siccome con 
qualunque moderna; questo in rerum natura, e se i 
òrinoipii della logica universale vagliono qualche cosa 
ne' nasi particolari, è impossibile quando questa lin- 
gua sia veramente formata e determinata, o molto pili 
nella supposizione che sia perfetta. Questo medesimo, 
oltre di ciò, secondo tutte le regole e teorie specula- 
tive della letteratura, secondo tutti gl' insegnamenti 
dati finora dall' osservazione e dall' esperienza in que- 
sto materie, è contraddittorio in se stesso, non essondo 
possibile che una tal lingua, contraifaeendo esattamente 

10 forme e frasi proprie e speciali d'un' altra lingua 
caratteristicamente divorsa, no rappresenti il genio e 

11 carattere, e'ne conservi lo spirito, essendosi sempre 
voduto no' casi particolari, e confermato colle ragioni 
speculative generali, che da tal causa risulta contra- 
rio effetto, e contrario totalmente, anche trattandosi 
di lingue ailini e somiglianti di carattere. Ma la- 
sciando questo, e tornando alla prima impossibilità, 
dico che il carattere proprio di una lingua è sempre 
per sua natura esclusivo degli altri caratteri, siccome 
lo è quello (285G) di una unzione, quando sia formato 
e completo; che quello eh' è impossibile alla nazione 
ò impossibile alla lingua: cho so la nazione tedesca 
non può assumere per natura il preciso e proprio ca- 
rattere do' francesi, se non può assumerne i costumi 
e le maniere senza nuocere al carattere nazionale, senza 
guastarsi, senza rendersi affettata e dimostrarsi com- 
posta di parti contraddittorie, e produrrò il senso della 
sconvenienza, dello sforzo, della violenza fatta alla 
propria natura, cosi la lingua tedesca, s' ella ha già 
forma propria e certa, s'ella ha carattere, s'ella e per- 
fetta, non può per natura contraffare c ricopiare il 
Carattere delle altre lingue, non può senza gl' incon- 
venienti sopraccennati e anche maggiori, rinunziando 
alle l'orme proprio, assumere nelle traduzioni lo formo 
delle lingue straniere. 



38 rasssnfrà (2856-2857-2858) 

Astraendo da tutto questo, dico olio in una lingua 
la quale abbia pienamente questa facoltà, le traduzioni 
di quel genere, che i tedeschi vantano, meritano poca 
lode. Esse dimostrano che la lingua tedesca (2857) 
come una cera o una pasta informe e tenera, è disposta 
a riceverò tutte le figure e tutte le impronte che se 
le vogliono dare. Applicatele lo forme di una lingua 
straniera qualunque e di un autore qualunque. La 
lingua tedesca le riceve e la traduzione è fatta. Quo- 
st' opera non è gran lode al traduttore perché non ha 
nulla di maraviglioso; perché né la preparazione della 
pasta né la fattura della stampa oh' egli vi applica 
appartiene a lui, il quale per conseguenza non è che 
un operaio servile e meccanico; perché dov'è troppa 
facilità quivi non è luogo all' arte, né il pregiò del- 
l' imitazione consiste nell' uguaglianza, ma nella simi- 
glianza, né tanto è maggiore quanto l'imitante più 
s'accosta all'imitato, ma quanto pili vi s'accosta se- 
condo la qualità della materia in cui s' imita, quanto 
questa materia è più degna; e quel che è più, quanto 
v'ha più di creaziono nell'imitazione, cioè quanto più 
v'ha di creato dall'artefice nella somiglianza cho il 
nuovo oggetto ha coli' imitato, ossia quanto questa so- 
miglianza vien più dall'artefice che dalla materia, ed 
è più nell'arte (2858) che in ossa materia, e più si 
deve al genio che alle circostanze esteriori. Neanche 
una tal opera può molto giovare alla lingua, né ser- 
vire ad arricchirla o a variarla ó a formarla e de- 
terminarla, si perdi' ella deo perderò queste impronto 
e queste forme colla stessa facilità con cui le riceve 
e por la ragione stessa per cui cosi facilmente le ri- 
ceve; si perché queste nella loro moltiplicifcà nocciono 
1 una all' altra, si scancellano e distruggono scambie- 
volmente e impediscono l'ima all'altra l' immedesi- 
marsi durabilmeuto o connaturarsi colla favella; si 
perché questa moltiplicità immoderata è incompatibile 
con quella tal quale unità di carattere che dee pur 



(2858-2859-2880) raiNsrrciii 



89 



avere mia favella ancorché immensa, massimo eli' elle 
sonn diversissime l' une dall' altre, o ripugnano scam- 
bievolmente; si perdio gran parte di questo formo 0 
impronte essondo allenissimo o affatto contrarie al ca- 
i-attore nazionale de' tedeschi, o a quello della loro 
letteratura, non possono se non nuocere alla lingua 
e guastarla, o impedire o ritardare oh' olla prenda e 
fortemente (2859) abbracci o ritenga quella sola forma 
e carattere che le può convenire, cioè quella che sia 
conformo al carattere della nazione e della nazionale 
letteratura, senza la qual forma perfettamente deter- 
minata e da loi perfettamente ricevuta por cos tanta- 
mente conservarla, essa lingua non sarà mai compiuta 
e perfetta. 

Conchiudo che so i traduttori tedeschi (grandis- 
simi letterati e dottissimi, e spesso uomini di gonio) 
fanno veramente quegli effetti che ho ragionati nel 
principio di questo pensiero, il ohe pienamente credo 
quanto alle cose ohe appartengono all' estrinseco ; se 
con ciò non fanno alcuna violenza alla lingua, nel che 
credo ascili ma assai meno di quel elio si dice; se in- 
somma la lingua tedesca quanto allo qualità sopra di- 
scusso è tale quale si ragiona, nel cho non so che mi 
credere, la lingua tedesca, come applicata assai tardi 
alla letteratura, e come appunto vastissima e immen- 
samente varia, si per l'antichità della sua origine, si 
per la moltitudine dogi' individui, e diversità de'popoli 
i-In' la parlano, non è ancora né perfetta né formata e 
sufficientemente (2860) determinata; ch'ella è ancor 
troppo mollo per troppa freschezza; eli'' ella col tempo 
e l'orso presto (per l'immenso ardore, attività e infati- 
cabilità letteraria di quella nazione) acquisterà quella 
sodezza e certezza che conviono a ciascuna lingua, e 
quella partieolar forma e determinato e stalli! carattere 
e proprietà, e quel genere di perfezione ohe conviene 
a lei, con quel tanto di unità caratteristica eh' è inse- 
parabile dalla perfezione di qualunque lingua, siccomo 



pensieri (2860-2861-2862) 



di qualunque nazione, o forse di qualunque cosa, se 
non altro, umana; che allora ella potrà essere e sarà 
liberissima, vastissima, ricchissima, potentissima, pie- 
ghevolissima, capacissima, immensa, e immensamente 
varia, pari in queste qualità astrattamente considerate, 
e superiore eziandio, se si vuole e so è possibile, non 
che all'italiana ma alla stessa lingua greca, ma non per 
tanto olla non avrà o non conserverà per niun modo 
quelle facoltà stravaganti e senza esempio divisate di 
sopra; oquello traduzioni ora lodate e celebrate piuttosto, 
cred'io, per gusto matematico che letterario, piuttosto 
come curiosità che come opere di genio, (286 1 ) piuttosto 
corno un panorama o un simulacro anatomico o un au- 
toma, che come una statua di Canova, piuttosto misu- 
randolo col compasso, che assaporandole e gustandole 
e paragonandole agli originali col palato, quelle tradu- 
zioni, dico, parranno ai tedeschi non tedesche, e nel 
tempo stesso non capaci di dare allo nazioni la vera 
idea degli originali, aliene dalla lingua e proprio di 
un'epoca d'imperfezione e immaturitìt (29-30 inujnio 
1823). 

* In ciascun punto della vita, anche mìl' atto del 
maggior piacere, tinche nei sogni, P uomo o il vivente 
è in istato di desiderio, e quindi non v' ha un solo 
momento nella vita (occetfo quelli di totale assopi- 
mento e sospensione dell' esercizio do' sensi e dì quello 
del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel 
quale l' individuo non sia in istato di nona, tanto 
maggiore quanto egli o per età o per carattere e na- 
tura o por circostanze mediate o immediate o abi- 
tualmente o attualmente, è in istato di maggior sen- 
sibilità ed oaereizio della vita, e viceversa (30 giu- 
gno 1823). Vedi p. 3550. (2862) 

* L amicizia, non elio hi piena ed intima confidenza 
tra' fratelli, rade volte si conserva all' entrar che que- 



(2862-2863) 



l'KNKlKUl 



LI 



sti fanno noi mondo, ancorché siano stati allevati 
insieme, ed abbiano esercitato 1' estremo grado di que- 
sta confidenza sino a quel momento; e di più seguano 
ancora a convivoro. E pure se l' uomo è capace di 
pi oua ed intima confidenza, e s'egli dovrebbe con- 
servarla perpetuamente verso qualcuno , questo do- 
vrebb' essere verso i fratelli coetanei ed allevati con 
Ini nella fanciullezza: e dico dovrebb' ossero, non per 
forza naturale della congiunzione di «angue, la qualforza 
è nulla o immaginaria, e niente ha che fare nel produr 
quella confidenza o nel conservarla, ma per forza natu- 
rale dell'abitudine e dell' abitudine contratta nel primo 
principio delle idee e dolio abitudini dell'individuo, 
e nella prima capacità di contrarle, e conservata tutto 
quel tempo clie dura la maggioro intensità e dispo- 
sizione ed ampiezza e il maggior esercizio di questa 
capacità. Nondimeno quosta confidenza cosi fortemente 
stabilita e radicata si perdo per la varietà che s' in- 
troduce nel carattere de' fratelli mediante il commer- 
cio cogli altri individui della società. Ma se questo 
(2863) commercio non uvesse avuto luogo, quella con- 
fidenza sarebbe stata perpetua, coni' ella non è mai 
cessata fino a quell'ora. Glie vuol dir ciò, se non che 
nei caratteri degli uomini novantanove parti son 
opera doliti circostanze? e per diversissimi eh' essi' 
appariscano, come spesso accade anche tra fratelli, in 
questa diversità non è opera della natura , so non 
una parte cosi menoma ohe saria stata impercettibi- 
le? È quasi impossibile il caso elio tutte le minute 
circostanze e avvenimenti che incontrano all' un 
de' fratelli nell'uso della società, incontrino all'altro, 
o sieno uguali a quello che incontrano all'altro, an- 
corché postogli da vicino. Questa diversità diversifica 
due caratteri che parevano affatto, ed orano, quasi af- 
fatto, compagni, e coni' ella è inevitabile, cosi la di- 
versificazione di questi caratteri nella società non 
può mancare. E ho detto lo minute circostanze, con- 



l'fiXSIJi]; ' 



(28G3-2864) 



tentandomi di questo, perché anche la somma di coso 
minutissime basta a produrre grandissimi c visibi- 
lissimi effetti sul? indole dogli uomini, massime allora 
eh' eglino sono principianti del mondo, o che in essi 
la capacità delle abitudini o delle opinioni, ossia la 
formabilità dell' indole, è ancor (2864) molta e grande 
e in buon essere (30 giugno 1823). 

* Diminutivi che nelle lingue figlie della latina 
sono passati in luogo dei positivi latini, del cho ho 
ragionato altrovo, sia che questi positivi non esistano 
più in esse lingue, sia cho questi diminutivi sieno 
latti loro .sinonimi. Fratello, sorella , figliuolo italiano, 
orilla da ora, cioè estremità, spaglinolo. Vedi il glos- 
sario, il Porcellini o i dizionarii spagnuoli quanto 
alle tre suddetto voci italiane (30 giugno 1823). Orec- 
chia, oreja, orcillr, da aurìcula, pepóhia, aveja, abeilte, da 
apinda o apecula, come vulpémld. Flagellimi s'usava 
anche nell'antico latino pel suo positivo flagrwn, 
siccome ora flagello, jléau oflagrum è perdute ; scalpello 
e sealpro. Vedi p. 2974, 3001, 3040, 3264. 

* .Proprietà comnne alle tro figlie della lingua la- 
tina. Aggiungere pleonasticamente por idiotismo, e per 
proprietà di lingua V aggettivo plurale altri o altre ai 
pronomi plurali nos e vos. Noi altri, voi altri; nmts 
autres, vous autres; nosotros, vosotros. Nel che l' ita- 
liano e il francese è libero di farlo o non farlo, lo 
spagnuolo no ec, E presso i primi, massimamente i 
francesi, par che quest' nsaàssa sia del dir familiare. 
Ella è pi-esso noi della scrittura familiare, frequen- 
tissima nel discorso domestico, e quasi continua in 
quello del volgo, corno nello spagnuolo, quando voi ha 
significato veramente plurale. Vedi p. 2891 (30 ma- 
gno 1823). V ° 

* Nostri plurali femminini o neutri, in a, da nomi 



(2864-2865) 



PENSIERI 



di singolaro mascolino o neutro, del elio lio detto al- 
trove in proposito dalla voce plurale fusa por fusi 
usata da Simmaco. Le peccata, le foia, le calcagna, U 
cervella, le fila, le oigliu. Questi plurali corrispondono 
(2865) ai rispettivi latini. Le risa : risum. i non si 
trova né nel Porcellini né nel glossario. Cosi né 
anclie le anclla ; anellum i. Le latta. Trovasi leetum i 
in Ulpiano. Vedi il glossario in lectumstratum (30 
giugno 1823). 

* Altronde per altrove (del che ho detto, se non 
erro, parlando di un lnogo di Floro o dolio spagnuolo 
donde, cioè nude, detto, come ora si dice, per ubi) 
trovasi in Giusto de' Conti, son. 22 e canz. 2, st. tilt., 
in Angelo di Costanzo, son. 44, e in molti altri, si 
osso, come onde o donde per dove ec, massime ne' tre- 
centisti, in alcuno do' quali espressamente mi ricordo di 
aver trovato uno o più di tali esempi ultimamente. 
E vedi la Crusca in altronde. § 2 ec. (30 giugno 1823). 

* Buppeditare se viene da sub e pedes (vedi Por- 
cellini), donde si ha ,tolta quella giunta e desinenza 
ix tiare? To lo credo fatto da qualche participio, 
e però continuativo d' altro verbo perduto (1 luglio 
1823). Cioè da suppedio-suppeditus, conformo a impedio- 
impeditm, expedìo, praapedio ec. che pur vengono da 
pés, ma non hanno il t nel tema, perché non son 
fatti da participio È da notare però che l'idi sup- 
pedito è breve, e in suppeditus sarebbe lunga. Ma 
credo v'abbiano molti altri esempi di questo, che l'i 
de' verbi in ito sia sempro breve, ancorché fatti da 
participii in itus lungo. Certo da' participii in atus 
si fa ito breve. Vedi la p. 3619. 

* Gli spaglinoli usano l' avverbio luego, cioè subito, 
nel principio delle enumerazioni o massime quando 
S' hanno a recare più d'un argomento, o recasi il 



44 



PESSjlBRJ 



(28G5-2866-2867I 



primo, dicono luego, che vale primieramente. Pretto 
grecismo. I greci (2866) in casi simili, e spocial- 
mente noi caso predetto, usano elcgantoinonte aòuv.a, 
cioè subito, in principio di periodo, come gli spa- 
gnuoli lueyo, ed anche luego al punto in stilo più 
familiare o burlesco. San Giovanni Crisostomo, o chiun- 
que sia l' autore dei due sermoni sulla preghiera 
iwpl itpojsoxvj;, nel semi. 2, che incomincia 5xt (aèv naviò? 
à-jadoò, sul principio : Eàft&s toìvov sxetvo (lé^tatov ifspì 
s'-iceìv s'/ojaev, St; s. ).. Vedi Piato, de Ecp., T, t. IV, 
p. 82, voi. ult., dove «ì>n%«non serve all'enumerazione, 
ma vale ecco qua subito, pronto e come senza cercare o 
senza andar lontano. E cosi i greci spessissimo. Noi 
dirommo te prima cosa avverti., prima di tutto, in 
primo luogo; i latini primum o principio (vedi Geor- 
giche, II, 8, IV, 8) ec. (1 luglio 1823). 

:; Ho detto sovente che ciascuno autor greco ha, 
por cosi dire, il suo vocabolarietto proprio. Ciò vaio 
non solamente in ordine all'usare ciascun d'essi 
sempre o quasi sempre quelle tali parole per espri- 
mere quelle tali cose, laddove gli altri altre n' usano, 
o in ordine ai loro modi e frasi familiari e con- 
suete, ma eziandio in ordine al significato delle 
stesse parole o frasi che anche gli altri usano, o che 
tutti usano. Perocché chi sottilmente attende e guarda 
negli scrittori greci, vedrà che le stesse parole e frasi 
presso un autore hanno un senso, e presso un altro 
un altro, e ciò non solamente trattandosi di autori 
vissuti in diverse epoche, il che non sarebbe strano, ma 
eziandio di autori contemporanei, e compatriota ancora, 
come, per esempio, di Senofonte e (2867) Platone, i 
quali furono di più condiscepoli, e trattarono in parte 
le stesse materie, e la stessa socratica filosofia. Dico 
che il significato delle parole o frasi in ciascuno 
autore è divergo: ora più ora meno, secondo i termini 
della comparazione c secondo la qualità d'osse pa- 



(2867-2868-2869) pensieri 



45 



role; c per Io più la differenza ò tuie che i poco ac- 
corti ed esercitati non la veggono, ma ella pur v 1 è, 
benché picciolissima. Un autore adoprerà sompre una 
parola nel significato proprio, e non mai no' metafo- 
rici. Un altro in un significato simile al proprio, o 
forse proprio ancor esso, e non mai negli altri sensi. 
Un altro l' adoprerà in un senso traslato, ina con 
tanta costanza, che. occorrendo di esprimere quella 
tal cosa, non adoprerà mai altra voce che quella e, 
adoprando questa voco, non la piglierà mai in altro 
senso, ondo si può dire che presso lui questo signi- 
ficato è il proprio di quella voce (come accade che i 
sensi metaforici de' vocaboli pigliano spesse volte as- 
solutamente il luogo del proprio, che si dimentica), e 
questo caso è molto frequento. Un altro adoprerà quella 
voce colla stessa costanza, o con poco manco, in (2868) 
un altro senso traslato, più o mono diverso, e tal- 
volta vicinissimo o similissimo, ma che pur non è quel 
medesimo. E tutta questa varietà (con altre molte 
differenze simili a queste) si troverà nell'uso di uno 
stesso verbo, di uno stesso nome, di uno stesso av- 
verbio in autori contemporanei o coinpatriotti. Alla 
qua! varietà, corno ben sanno i dotti in questo ma- 
torio, è da por mentei assai, e da notar sempre in 
e insinui autore, massimo no' classici, qual' è il preciso 
senso in cui ogli suole o sempre o per lo piti ado- 
perare ciascuna parola o frase. Trovato c notato il 
quale, si rendo facile la intelligenza dell' autore e se 
ne penetra la proprietà o l' intendimento vero dolio 
espressioni e sì spiegano molti suoi passi che senza 
la cognizione del significato da lui solito d'attribuirsi- 
a certe parole non s'intenderebbero; com'è avvenuto 
a molti interpreti o grammatici oc. che, spiegando 
questi passi secondo l' uso ordinario di quello tali 
parole o frasi, o non considerandole in quello parti- 
colare eh' osso sogliono aver presso quello scrittore, o 
inni hanno saputo (2869) strigarsi o si sono ingan- 



Mi 



(2869-2870) 



nati. E cosi accade anche ai ben dotti, elio però non 
ahbiano pratica di quel tale autore e vi sieno prin- 
cipianti o elio no leggano qualche passo spezzato. 
Certo non prima si arriva a pienamente e propria- 
raento intendere qualunquo autor greco elio si abbia 
prosa pratica, del suo particolar vocabolario e de' si- 
gnificati di questo : e tal pratica è necessario di farla 
in ciascuno autore che si prende nuovamente o dopo 
lungo intervallo a leggere : benché in alcuni costa 
più in altri meno, e in certi costa tanto, che solo i 
lungamente esercitati e familiarizzati colla lozione 
e studio di quel tale autore sono capaci di bene in- 
tenderne e spiegarne la proprietà delle voci e frasi, 
e della espressione si generalmento, ai in ciascun 
passo. Insomma, questi soli conoscono la sua grecità, 
la quale, si può dire, in ciascuno autor greco più o 
meno è diversa (1 luglio 1823). 

* Non è maraviglia che la scrittura francese sia 
cosi diversa dalla pronunzia. Come altrove ho detto, 
a tutte lo ortografie delle lingue figlie della latina, ed 
anche, almeno in parte, della inglese o della tedesca, 
servi (2870) di modello e di guida la scrittura latina, 
che apparteneva all'unica letteratura che si conoscesse 
quando prima si cominciarono a formare e regolare le 
moderno ortografie, anzi era altresì quasi l'unica scrit- 
tura nota, perché le lingue moderne poco fino allora 
s'erano scrìtte, e quando conveniva scrivere s'era pol- 
lo più scritto in latino, benché barbaro. Ora la pro- 
nunzia francese è tra le pronunzie delle lingue nato 
dalla latina quella che più s' è discostata dal latino. 
Ond' è che la lingua francese è altresì fra quoste lin- 
gue la pili diversa dalla madre, cosi di spirito, di co- 
sti-unioni , di maniere, di frasi, o di assai vocaboli, 
corno di suoni. *) Egli è certissimo che da principio 
la lingua francese si pronunziava noi modo stesso che 



') Vedi pag. 2989 



(2870-2871-2872) 



PENSIERI 



47 



ai scriveva, ossia la pronunzia delle sillabe nello pa- 
role francesi corrispondeva al valore che avevano nel- 
1' alfabeto le lettere con cui esse parole si scrivevano. 
I versi che si trovano ancora de' poeti provenzali, 
pronunziavansi indubitatamente in quosto modo o con 
poca differenza, come ne fa fede la loro misura, le loro 
rimo ec. che si perderebbero l'ime c l'altra pronun- 
ziando quei vorsi altramente o alla moderna. Ma le 
irruzioni e i commerci de' settentrionali (2871) avendo 
cangiata la pronunzia francese, o diradata di vocali 
e inspessita di consonanti o resa più aspra, e cosi di- 
versificatala dalla lingua provenzale, e poi col mezzo 
della francoso mutata eziandio la provenzale (vedi 
Perticari, Apologia di Dante, cap. XI, principio, p. 206, 
fino — 208, princìpio, e cap. XII, principio, p. 111-112 
e ivi line, p. 119 e cap. XVI, fine, p. 158), la lingua 
fiancose si allontanò sommamente dalla latina, si per 
li nuovi vocaboli e forme che acquistò da popoli che 
non avevano mai parlato latino, si per li suoni di cui 
vesti o con cui pronunziò quegli stessi vocaboli tolti 
dal latino ch'ella avova, e cho tuttora conserva. Quindi 
poi- due ragioni la pronunzia francese dovette riuscir 
diversa dalla scrittura. Primo, per la sopraddetta, cioè 
perche, non avendovi scrittura nota o almeno scrit- 
tura appartenente a lingua lotterata e formata, fuori 
della latina, l'ortografia francese dovette pur pren- 
dere, come l'altre, por suo modello la latina, ed es- 
sendo già la pronunzia francese fatta diversissima 
dalla latina, e certo assai più diversa cho non erano 
o non furono poi la spagnuola e l'italiana, (2872) per- 
ciò la scrittura, francese dovette molto più differire 
dalla pronunzia, cho non differiscono la spagnuola e 
l'italiana che presero e usarono lo stesso modello. Se- 
condo : questa diversificazione e sottentrionalizzaziouc 
di pronunzia avendo avuto luogo o acquistato forza 
ed estensione in Francia piuttosto tardi, e di più tro- 
vandosi che i poeti di -cui la Provenza abbondò seri- 



48 



pensieri (2872-2873-2874) 



vevano il provenzale, stato già tutt'uno col francese, 
od allora tuttavia analogo, ina più latino (vedi Per- 
ticari, 1. e, p. 107, principio) lo scrivevano, dico, in 
modo similo ed analogo al latino; ed essendo cosi vero 
come naturale ohe i primi che scrissero qualche cosa 
in francese riguardarono ai provenzali e so li pro- 
posero por guide, come quelli eli' erano in quei tempi 
i più dotti forse della Francia ed avevano contribuito 
a spargere in essa il gusto della poesia volgare e dolio 
scrivere in volgare; da tutto questo ne segui che la 
scrittura francese si accostò al latino, come ci si ac- 
costava la scrittura o pronunzia provenzale; ci si ac- 
costò dico, non ostante che la pronunzia francese ogni 
di più se ne scostasse, con che si venne anche a sco- 
stare dalla scrittura. (2873) 

Perciocché veramente si può dire che la pronun- 
zia francese da so, o inovondosi essa, si allontanò e 
divise dalla scrittura, piuttosto che la scrittura dalla 
pronunzia. Benché veramente sia debito do' buoni e 
filosofi ortografi di far che la scrittura in qualunquo 
modo tonga sempre dietro alla univorsalo pronunzia, 
regolata o riconosciuta per regolare; e non far che la 
scrittura stia forma, c lasci andare Questa tal pronunzia 
al suo viaggio, senza darsene alcun pensiero. Ma que- 
sti discorsi non si potevano né fare ne seguire in quei 
primi e confusi tempi e ignoranti, né, dopo fatti, sono 
stati effettuabili, avendo preso piede l'usanza contraria 
in modo che non si potea più scacciare, né mutare; 
abbisognando olla di troppe e troppe grandi ed essen- 
ziali mutazioni, non di poche e lievi e quasi acciden- 
tali come no abbisognò e ne ricevette l'usanza italiana. 

Da tutto questo cagioni e andamenti a' è seguito 
questo curioso effetto: che la lingua francese scritta 
è talora uguale, spessissimo somigliante alla latina, 
o quasi sempre riconoscihìle por figlia (2874) di lei; 
ma la lingua francose pronunziata, eh' ò pure insomma 
quanto diro la vera lingua francese, n' è tanto di- 



(2874-2875) 



PENSIERI 



49 



versa, anzi dissimile, ohe appena si può riconoscere 
questa figlino] anza. E degli stessi vocaboli latini ohe 
i francesi conservano, e sono assaissimi, gran parte 
e forse la maggiore, pronunziati, riescon tali, elio 
Spiarci ancloli nella sola pronunzia non s' indovinerebbe 
mai la loro origine, né mai si piglierebbero por nati 
da tali o tali vocaboli latini; laddove questa origine 
si riconosco a prima vista leggendo quei vocaboli 
scritti. E veramente se la scrittura francese non fosse 
cosi diversa dalla, pronunzia, io credo che oramai la 
notizia della più parto dello origini di questa lingua 
si moderna sarebbe perduta, o in preda delle disser- 
tazioni, delle congetturo o delle favole. Mentre ella si 
conserva per solo benefizio della diversità e irregola- 
rità anzi assurdità della scrittura, e in questa si con- 
serva chiarissima e certissima e visibilissima, o tanto 
più visibile quanto la scrittura più è diversa dalla pro- 
nunzia, perché tanto più è simile al latino. Tanto si è 
mutata la lingua latina sulle bocche francesi per l'uso 
avuto co' popoli settentrionali, e forso ancora in gran 
parte ancor prima, per la natura del (2875) clima stesso, 
oltre la origino settentrionale di molti do' medesimi 
parlatori, cioè de' Franchi di origine. Quantunque né 
l'origine gotica o longobardica di molti italiani, né la 
vandalica né la moresca di tanti spagnuoli abbiano 
prodotto di gran lunga effetti simili o proporzionati a 
questi nelle lingue di questi due popoli. 

Somiglianti condizioni dovettero certamente con- 
tribuire a fare che le scritture inglese e tedesca siano 
riuscite meno conformi alle pronunzie, e queste meno 
corrispondenti al valor delle lettere no' rispettivi alfa- 
beti, e meno costanti nelle regolo medesime loro' (clic 
hanno, almeno in francese, tante eccezioni e sottecce- 
zioni) che non sono lo scritture e pronunzie italiana e 
spaglinola. Perocché 1' alfabeto inglese è il latino, e il 
todesco originarianionto non è altro: laddove le loro 
lingue sono e originariamente e presentemente tutt'al- 

Ltoi-aiiui. — Pemieri, V. 4 



PENSIERI (2875-2876-2877) 



tre ohe la latina. Di più, ossondo pervenuta la lettera- 
tura e scrittura latina, e 1' OSO oziandio della medesima, 
anello dove non pervenne l'uso di questa loquela, corno 
in Inghilterra o in Germania,, anche i tedeschi e gl'in- 
glesi regolarono primieramente o abbozzarono la loro 
ortografia e scrittura col solo o quasi solo et empio della 
latina avanti gli occhi. E dopo preto piede le prime 
regole o i primi abbozzi non si è più in caso di distrug- 
gerli, e (2876) neppur si è tempre in caso di fare che 
il resto, scimene ancor non sia fatto o non abbia preso 
piede, non gli corrisponda; almeno non sempre si può 
riuscire ad impedirlo porfottamente, o a far che, impe- 
ditolo, la macchina cammini bene e regolarmente e 
senza imbarazzi e contrapposizioni e disturbi ec, disor- 
dini, effetti contradittorii ec. (1 luglio 18215), 

* L' nomo si rassegna a soffrire passivamente o a 
non godere, ma ninno si rassegna a faticare invano o 
senza niuna speranza, o a faticar molto per cose da 
nulla; niuno si rassegna a soffrire attivamente senz' al- 
cun frutto. Quindi è cho dall' abito dolla rassegnazione 
sompre nasce noncuranza, negligenza, indolenza, inat- 
tività, e filialmente pigrizia e torpidozza e insensibi- 
lità, e quasi immobilità (2 luglio 1823). 

* Dico altrove che l'uso di crear giudiziosamente e 
parcamente nuovi composti fu mantenuto dagli autori 
latini, e massime da' poeti, non solo fino alla intera 
formazione della lingua e della letteratura, ma nello 
stesso secolo d'oro della latinità e nel tempo che 
immediatamente gli succedette. Di quest' uso parla 
Macrobio, (2877) Saturri., VI, 5, mostrando cho alcuni 
epiteti composti che si credevano fatti da Virgilio 
sono di fabbrica più antica. Segno qui alenili compo- 
sti latini de' quali, eh' io sappia, non si trova esempio 
nogli autori antoriori al secolo aureo. E saranno tutti 
composti di due nomi, 1' uno sostantivo e V altro 
addiottivo, o tutti e due sostantivi ec. o d'un nome 



(2877-2878) 



PENSIERI 



5.1 



0 d' un verbo o participio o verbale ee. che sono i com- 
posti più rari; lasciando stare i nomi o verbi oc, com- 
posti con preposizioni o particelle, de'qualj si potrebbero 
addurre al caso nostro esempi in troppa abbondanza. 
AUpes, aliger, arrnifer, armipotens, armisomts, aeri- 
pes, aerisonus, aerifer , aerifodina , aeqitaevus , aequi- 
distans presso Frontino ed altri, algificus presso Gellio, 
aequilatio presso Vitruvio, aequilateralis presso Censo- 
ri no. aequilaterus presso Marziano Capella, aequilibris 
oc, aequinoctium, della qual voce vedi Pesto appo il 
Forcellini in aequidiale, aequipedus ed aequìpolUns 
presso Apuleio ; aequipondiwm presso Vitruvio, aequi- 
erurius presso Marziano Capella, altieinctus, altitonanti, 
altitomis, altivolus presso Plinio il vecchio, anguitenena, 
aegisonus, auricornutt, aurifer, aurifex, awifodina 
presso Plinio il vecchio, aurigi-Ma, auriger, aaripigmen- 
fum presso Plinio e Vitruvio, (2878) auriscalpiuni 
presso Marziale e Scribonio, bijuguts e bijugis (ma qui 
c'entra un avverbio) o altri tali composti con bis, 
equifhus ed equisètum presso Plinio il vecchio, fon- 
tigena» di Marziano, ignigena, ignipotenti, ignipes, gemel- 
lipara, mellifer, mellificium, ■mellificua presso Colnmella, 
mellifico o melligenus presso Plinio il vecchio, nidifico 
presso il medesimo e Colnmella, nidijivium presso Apuleio, 
nidifieus presso Seneca tragico, nodifer e simili, nvbifer, 
nubifugus di Colnmella, ftoriparus d'Ausonio, securifer, 
securiger, nubivagus presso Silio, nubigena (in proposito 
del quale è da notare che Macrobio nel citato luogo, che 
mei itad'ossor veduto, volendo provare come molti epiteti 
creduti fatti da Virgilio sono pi u antichi, recita quel 
dell Emide, VIII,293. Tu nubigenas, invicte, Umembres, 
e mostra che bimembri* è di Comincio, ma di nubigena 
non dice niente, sicché pare che lo concoda per mo- 
derno, e veramente nel Porcellini non se ne trova 
esempio se non d' autori posteriori a Virgilio, il quale, 
appresso il medesimo Forcellini, in questa voce non è 
citato), penatiger d' Ovidio, solivagus presso il Porcol- 



52 pensieri (2878-2879-2880) 

lini, i cui esempi son tolti da Cicerone, e presso il mede- 
simo Cicerone, de republica, I, 25, p. 70, edizione roma- 
na, 1822; ed altri tali moltissimi (2 luglio 1823). (2879) 

* Notate la radice monosillaba di caput (Forcel- 
lini, oeps), secondo quello che ne ho congetturato 
altrove, e dì tutti i suoi derivati, ancora in dein-CEVS^) 
della qual voce vedi Porcellini (2 luglio 1823). 

■ i: Che il v, presso gli antichi latini non sia stata 
che una spocie di aspirazione, o non una consonante, 
e che tale in verità sia la sua natura, di tener cioè 
dell' aspirazione o di svanir sovonte dalle voci se- 
socondo T indole delle varie pronunzie. Dionigi d' Ali- 
carnasso, Arrhaeol. roinan., 1. I, c. 35, parlando del- 
l'origino del nomo Italia. 'KXXAvoios Si ó Aiogiós ip-rjotv 

'Upr/.vXéa tàs r-f|puovoD [ioù; àraXauvovta sì? Wp-jo;, Hv.r/ri 
v.i ostai}» SaiJ.aXi; àKOQV.ipi'f]W.<; xvj? frf«Xf>,« »V 'lutXi'/ Sy» 
■fiS-f) ipéu-fiuv òi-jjps tt|v èxt-f]v, nòti tòv (j.e™?ù Siavr)4«fi.E- 
vo? nóptìv rfji *a).ó.50Ti; sì; SkueXUrt ^(fi'.xeto , Ipó^svov 
àei tou; lnwbRtOOS xaì)' 5 o'i; éxójTO'UB -[évoiro 8c(uxtt>V tòv 
86u<ìiX.tv, «i itoj tl« aòtiv ìwppmeui; , t?/5s &v*pw7iiuv 

éXXótòfj? (liv xXttrttYl? è).tY« OOYWVttnv, t-j Se rcct-upu» tfujvfi 
KOrtà là; |iy|Vboei; toQ £">ou xaXoóvtwv tòv Sà(j.aX;v o&tuooXov, 
«jOKBp m\ v5v Xifstot, ànò toù £i»oo ttyi (2880) /«Wv òvo- 
(j.«-sat rcàaav, So-qv ó SajwxXl? ht,ì]kètv, O&UaXi.OtV. Metm- 
nsoEiv Bà àvà ypóvov T'Jjv ivofiaciav sì; ti vùv 
ax'^KJ-a» óèSèv 3'«uu.t/.a'cóv. ! Blt»l tòìv èXXfjvtwuiv 
icoXXò'. tò jcapanX*rj<3tov jtétcovìHv è v '> [). « T « v. Da Ubo 
noi diciamo levo, e 2>eo, tolte la lettera v, beve e 6ee, 
beendo , bere, da 6euer«, tolto il », e contratto beere in 
bere ec.Vcdi il Corticclli, e il Buommattei, Trattalo. XII, 
c. 40, fine. Cosi da debeo devo e deo, devi e dei ec. Vedi i 
grammatici e 1' uso volgare. Dal latino pavo diciamo 
pavone e paone, paonessa, paoncino ec. Diciamo altresì 
pavonaszo e paonazzo. E in cento altre parolo leviamo 



(2880-2881-2882) feksiew 



53 



0 inseriamo il v a nostro piacere, o eli' esso veramente, 
secondo 1' etimologia, appartenga loro o che no, e tal- 
volta l' inseriamo sempre o costantemente ili voci a cui 
esso non appartiene, o lo passiamo pur sempre e costan- 
temente sotto silenzio in quelle voci dov'esso dovreb- 
b'eseere ed era. E in questo parti colare v'è frequentissima 
discordanza tra le pronunzie e dialetti dello provinole, 
città, individui d'Italia, tra gli antichi autori e i 
moderai, tra 1' antico parlare e il moderno, tra il 
moderno parlare e lo scrivere ec. (2 luglio 1823). (288 1) 

* Traduzione del passo soprascritto di Dionigi d'Ali- 
carnasso fatta da Pietro Giordani nella Lettera al 
Chiarissimo Abate Giambattista Canova sopra il Dionigi 
trovato dall'Abate. Mai. Milano, per Giovanni Silvestri, 
.1817, li. 30-31. «Ma Ellanico Lesbiése dice che Ercole 
menando ad Argo i buoi di Gorione, e già trovandosi 
in Italia, poiché un Ime sbrancatosegli della greggia 
fuggendo corse tutta la spiaggia, e notando per lo 
strotto del mare in Sicilia arrivò; esso Ercole inter- 
rogando i paesani, dovunque nel correr dietro al bue 
passava, se alcuno lo avesse veduto; e quelli poco 
intendendo la favella greca, e per gl'indizi ch'Ercole 
ne dava chiamando ossi quoll' animalo nella nativa 
lor lingua Vitulo (come anch' oggi si chiama) : accadde 
cho dal vocabolo di quella bestia, tutto il paese eh' ella 
corse fosse nominato Vitulia (il greco dice ch'Ercole 
medesimo cosi nominollo, e dice Vitalia). Che poi il 
nome col tempo si mutasse nella prosente forma, non 
è da maravigliare, quando molti de : vocaboli greci co- 
siffatte mutazioni patirono » (2 luglio 1823). (2882) 

* E notabile corno lo spagnuolo atar abbia conser- 
vato il proprio o primitivo significato di apiarc, cioè 
legare, significato che, benché proprio e primitivo, pur 
non è molto frequente negli autori latini, anzi un 
esempio che faccia veramonte al caso non mi pare 



:>.( 



i>K.\siT!ni 



(2882-2883) 



che sia so non quello d' Amuiiano nel Porcellini, 
voc. aptatUS. Ora Ammiano è pur di bassa latinità. 
Mostra che il volgo abbia sempre conservato il primo 
uso di questo verbo, più degli scrittori eleganti, che 
l'hanno piuttosto adoperato metaforicamente. Del resto, 
se mai si potesse dubitare che il verbo optare venisse 
da aptus, il cui proprio senso è legato ec, e che Pesto dice 
ossore participio di apo, lo spagnuolo atar, che vale 
legare, congitmgere, finirebbe di mandare a terra qua- 
lunque dubbio. Il nostro aliare, adattare, adapter ec. 
ha por proprio il significato metaforico ordinario di 
apto, adapio ec. Vedi noi Porcellini osoinpi di cooptare, 
coaptalio, waptatuts (òto/àicitlv), in senso di collegato ec, 
tutti di 8. Agostino, il quale certo non pigliava que- 
sto buono e primitivo uso di tali parole da' più anti- 
chi padri della scrittura latina, né dagli scrittori auroi 
che non le usano, ma dal parlar del volgo, che tut- 
tavia conservava quel significato, come ancora lo con- 
serva in Ispagna. E cosi dite di Ainmiano. (2883) È 
chi sa che aptare in questo senso non sia l'origine di 
attaccare, attacher oc? Vedi il glossario Gang, princi- 
palmente in attachiare, cioè vincìrc ec. Ma siccome 
questa voce si trova massimamente usata nelle scrit- 
turo latino-barbare d'inglesi e scozzesi, cosi non voglio 
contrastare che la sua origine non possa probabilmente 
essere teutonica ec. come si afferma nel medesimo 
glossario, voc. 2, Tasca (3 luglio 1823). Vedi p. 2887. 

• Io provo presentemente un piaoere, io vorrei che 
la condizione di tutta la mia vita, di tutta l' eternità, 
fosse uguale a quella in cui mi trovo in questo mo- 
mento. Questo è ciò che nessun uomo dice mai né può 
dire di buona fode, noppur per un solo momento, nep- 
pure nell'atto del maggior piacere possibile. Ora, se egli 
in quel momento provasse in verità un piacer presente 
e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli do- 
vrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre, 



(2883-2884-2885) pensieri 



55 



perché il fine dell'uomo è il piacere; e quindi desiderare 
che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui quel mo- 
mento, o di più desiderare di viver sempre, per som prò 
godere. Ma egli è certi esimo che (2884) nessun uomo 
ha concepito né formato mai questo desiderio nemmeno 
nel punto più felice della sna vita, e nemmeno durante 
quel solo punto: egli ò certissimo che non ha concepito 
ne mai concepirà questo desiderio per un solo istante 
neppur l'uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini 
ha provato o è per provare il massimo po:. sibilo piacere. 
E ciò perché nommeno in quel punto ninno mai si trovò 
pienamente soddisfatto, né lasciò né sospeso ponto il 
desiderio, né anche la speranza di un maggiore ed assai 
maggior piacere. Con che egli non venno in quel punto 
a provare un vero e predente piacere. Bensì dopo pas- 
sato quel tal punto l'uomo spesso volte desidora che 
tutta la sua vita fosso conforme a quol punto, ed esprime 
questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona 
fede. Ma egli ha il torto, perché ottenendo il suo de- 
siderio lascerebbe di approvarlo ec. (8 luglio 1328). 

* Quanta barbarie avesse introdotto anche noli' or- 
tografia italiana durante il quattrocento l'eccessivo mo- 
dellarla sulla latina, onde, se si fosse perseverato in (2 8 85) 
quella forma, anche noi scriveremmo diversissimamente 
da quel che pronunzieremino, come si può credere che 
allora avvenisse, se pur la pedanteria di quoi tempi, o 
piuttosto i pedanti (perché di tutti non ò credibile), non 
pronunziavano come scrivevano ; vedi alcuni esempi 
nelle Lezioni sulle doti di una cólta favella dell'Abate 
Colombo, Parme, 1820, lez. HI, p. G9-70 e il C'omento 
di Pico Mirandolano sopra, la Canzone, d' amore di Gi- 
rolamo Eenivioni con essa Canzone ec., Venezia, 1522, 
dove si scrive sempre ad per a avanti consonante, 
anche seguendo il d, come ad dir (st. 1 della canz., 
v. fi, a carte 41); advenire ec. Durò questo pessimo uso 
anche noi principii del cinquecento. Nel citato libro 



r>c> 



(2885-2888) 



si scrive tribola per tavola, egloge per egloghe ec. oc, 
oltre philosopho, admìrando, cui pena por appena ec. 
(3 luglio 1823). 

¥ Alla p. 2821. Altresì farebbe a «posto proposito 
il verbo nido is detto (se però mai fu detto, e vedi 
il Porcellini) per nido as, (o nictàr aris), il quale è 
verbo continuativo fatto dall' inusitato niveo, e dimo- 
stra si l'antica esistenza di questo nìveo. eh' è anche 
dimostrata dal suo composto conniveo, si il participio 
o supino di quello o di questo, che ora ne manca, il 
quale anche (2886) sarobbo dimostrato dal nome nktvs 
MSj secondo i ragionamenti da me fatti altrovo, se 
però quosta ò voce vera, e se, e quando significa 
nictatio, e non nisus. Perocché anche nifins pare ch'ella 
possa significare, secondo il Porcellini, e in quosto 
senso ella servirebbe altrcsi a comprovare V antico 
participio nictus di nitor en$, usato già in veco di 
nixus e di nisUs; dal quale nictus di nitor nasce al- 
tresì' il continuativo nietari, il quale io credo total- 
mente diverso da meto di nìveo, o non tutt'uno, come 
vuole il Porcellini ec, giacché i due significati non 
hanno la monoma analogia, e d'altra parte l'origino 
dell'uno e dell'altro verbo è pianissima, porche, se v ! è 
conniveo, dovette esservi nìveo, e facendosi da conniveo 
eonnixi deve farsi nel supino connictutn, come da dixi 
dietum, e quindi da niveo nietum, e quindi nietare ; 
e quanto a nictor di nitor il Porcellini medesimo non 
la metto in dubbio. Anzi io credo che nicto as sia di 
niveo solamente, e niciov aria solamente e propria- 
mente di nitor, benché in duo luoghi dì Plinio trovisi 
nietari per connivere ec., il che potrebb' essere fallo 
degli scrivani (e infatti in un di quei luoghi v'e chi 
legge nietare), e fallo eziandio dello stesso Plinio che 
confondesse l'uno coli' altro verbo, osscndo ambedue 
antichi e poco al suo tempo usati : nel qual proposito 
vodi quello che dicono il Perticari noi Trattato degli 



(2886-2887-2888) pensieri 



57 



Scrittori del Trecento, e Giordani nella Lettera a Monti, 
voi. IL par. 1, della Proposta, sopra la voce fastus ee. 
Del resto da (2887) nixus di nitor (che forse non è 
differente da nictus por ninna ragione grammaticale, 
ma per sola diversità di pronunzia) si fa altresi il 
suo continuativo, cioè nixor aris *) (3 luglio 182;5). 

f Alla p. 2883. So ad alcuno non paressero suffi- 
cienti le testimonianze che si hanno dell'esistenza del- 
l' antico verbo apo, consideri che si la forma estrinseca 
si la significazione vera e propria e il primitivo uso 
di aptus sono al tutto di participio. E se aptus è par- 
ticipio, dovrà esser participio di apo o d'altro tal verbo, 
quale eh' essi vogliano, dal qnal verbo dovrà esser ve- 
nuto fOT-ecj e optarti. So non vogliono che aptus sia par- 
ticipio, sarà pur sempre incontrastabile che opto sia 
stato fatto da aptus. E se questo è, dunque fimsiv, eh' è 
lo atesso che apio, sarà pur venuto da aptus, o so non 
altro da una radico simile a questa, la quale sarà stata 
nella lingua madre della greca e della latina, e conser- 
vatasi nella latina, cioè nell'aggettivo aptus, si sarà 
perduta nella greca. Che aptus venga da Sntetv o da 
SitttoSw, come vuol Servio un aggettivo da un verbo, è 
fuor d'ogni vorisimiglianza, perché è contrario (2888) 
ad ogni usata norma di derivazione, si por la forma 
materiale comparata dei detti verbi e del detto agget- 
tivo, si per la ragiono grammaticale, analogia ec. che 
in tal derivazione ninna si troverebbe. Che poi aptus 
venga da optare (come Perticai! credova che arso ve- 
nisse da arsure: vedi p, 2688) sarà anche meno verisi- 
mile a quelli cl>e avranno ben considerata la nostra 
teoria della formazione do' vorbi in tare da' participi! 
in tus, i ichiarata ed esposta e provata con tanti esempi. 
A tutti i quali parrà, molto pi l'i probabile cho optare sia 
un continuativo fatto da un participio in tus ec. che 



') Vengasi la p»g. 2929. 



58 



pensieri (2888-2889-2890) 



non può esser so non aptus (il quale, come ho detto, ha 
tutto quanto del participio) o questo da apo ec. Che 
aptus sia sincope di aptatus, il qual participio esiste, 
ed è ben diverso da aptus, è cosi credibile come che 
jarhts di jacio sia sincope di jactatus participio di 
jactare, e altri tali spropositi, molti de' quali sono 
stati detti e creduti per non aver posto mente alla 
formazione do' verbi ec, che noi illustriamo (4 lu- 
glio 1823). (2889) 

* Da i£u>, dor. etc, èSuj, o da sZo\>.m, fut, é&o0|jwt| 
st'diìu, o cosi da Zhoc, so; o da £8pa a? scdes e simili. 
Da àlooi saltus (4 luglio 1823). 

* A quello che altrove ho detto circa la formazione 
dei verbi in no o in uor dai nomi verbali, o qualun- 
que, della quarta declinazione, o dai nomi della se- 
conda desinonti in wts, e circa i nomi in uosus fatti 
da simili radici, e agli avverbi ec. aggiungi prae- 
sumptuosus, praesumptuose ; presuntuoso, pvesontuoso , 
prosuntuoso, prosontuoso, presuntuósamente, presuntuo- 
sità oc; presumptuoso ec. Bpagnuólo, da sumptus us 
Mutuar arìs da mutuus. A quel che in questo proposito 
ho dotto di monstruosus, mostruoso ec. aggiungi che 
gli spaglinoli in verità dicono momtruo, non monstro, 
ondo ben si deduce, non monstrosus, ma monstruosiis. 
Quaestuosus da quaastus us. Ructuo, ructuosus da ruetus 
us. Eructuo, vedi l'orcellini in Eructo, fine. Evacuo da 
vacuus, e cosi vacuo as (4 luglio 1823). Vedi p. 3263. 

* Dico altrove delle sillabe latine che non sono 
dittonghi, e pur sono composte di più vocali. Tra 
queste è notabile la seconda sillaba di eheu, la qual 
voce non è trisillaba, ma dissillaba, benché composta 
di tre vocali e benché cu non si conti fra 1 dittonghi 
latini. ') (2890) Ed è dissillaba non per licenza o 



l ) Niui'twui-cburiwB. 



(2890-2891) 



59 



figura poetica , ma per regola, e trisillaba non po- 
trebb' essere o non senza licenza. Cosi dite di hei, heu, 
auge, eugepae, ungane us oc. ec. (i luglio 1823). 

* Non è fuor di ragione né arbitrario e gratuito 
quello eh' io dico circa la formazione doi continuativi 
da' participi! in atus, che mutano l' a in ì ec. Peroc- 
ché questa mutazione è ordinarissima e solenne nelle 
derivazioni e composizioni della lingua latina. Onde 
da copio, frango, tango, sapio, facto, iacìo, tacco ec. ec. 
si fa in composi/ione elpio, fringo oc, cioè, per esom- 
pio, aeeipio, ejfdngo, attingo, insipienti, resipio, desipio, 
affido, adjicio, conticesco, reticeo ec. e cosi nelle deri- 
vazioni ec. Ancbo la c si muta in i: per esempio, da 
teneo, sedeo, spedo, rego, lego ec. contmeo, insideo, 
aspieio, corrigo, colligo ec. ') (5 luglio 1823). 

* Ho detto altrove che presso Omero il nome •Jjp.ap 
serve a una perifrasi, corno JìLa , in modo' che por se 
stesso non vuol dir nulla, ma significa quello che 
occorre unitamente al nome eoi quale è congiunto ; 
per esempio, visupov 4)|tap, il di del ritorno, vuol diro 
il ritorno & non (2891) altro. J_ J fù esempi di quest'uso 
d'Omero vedili nell'iredeas vocabulorum Homeri del 
Sobero, in ^«p cuoiuov (5 luglio 1823). Vedi p. 2995.2 

* Alla p. 2864, margine. È indubitato, secondo me, 
che quest' uso nacque dall' altra pessima usanza, in- 
trodotta nel latino fin dai primissimi tempi dell' im- 
pero, di dar del voi, alle persone singolari. Onde è 
probabile che allora, o poco dipoi, o eerto nel vol- 
gar latino quando ohe sia, s' introducesse questo co- 
stume di aggiungere l'aggettivo altri al voi e al noi 
(giacché il noi anche negli ottimi tempi in latino e 
in greco si usava in senso singolare) quando questi 



') Puoi vednro la p. 2843. 



60 



rKNSiEEi (2891-2892-2893) 



pronomi avevano ad aver senso plurale, por distin- 
guerli da quando avevano ad avorio singolare. E cosi 
introdotto quest' uso nel volgar latino passò in tutto 
tre le lingue figlie. E con ragione; perché in esse 
ancora si mantonova o si mantiene quelli altra pessima 
usanza die, secondo me, lo produsse. Stante la quale. 
1' uso di questo idiotismo è quasi necessario per evitar 
mille equivoci e dubbi si nello scrivere, si nel par- 
laro, quando molte persone sono presenti o (2892) 
quando nello scrivere si suppongono ec. (come si vede 
tuttodì por esperienza, massime nello scrivere, dove 
per iscrupolo di esser troppo familiare, e perché non 
si sa piò la lingua ec. ormai generalmente si trala- 
scia questo idiotismo). Infatti, noi noi parlar l'ami- 
liare non lo abbandoniamo quasi mai, né gli spa- 
gnuoli lo possono abbandonare. Ma anche gli spaglinoli 
tacciono Yotros se parlano a persona singolare, o di 
so stessi singolarmente, ne' quali casi dicono vos e 
non. Lo tacciono ancora quando il vos e il nos fa 
ufficio dolio nostre particelle o pronomi ci e vi, come 
rtOUS e vom in francese. Del resto, in nessuna delle 
tre linguo si direbbe voi altri o noi altri in senso 
singolare. E notabile che V uso di nos in senso sin- 
golare fu più proprio delle lingue antiche che dello 
modorno, nelle quali anzi, quanto al parlare o allo 
scrivere familiare, a cui solo spetta il noi altri, esso 
uso è intieramente abolito. Vedendosi dunquo elio pur 
tutte tre queste linguo usano familiarmente questo 
idiotismo di noi altri senza abbisognarne punto poi- 
distinzione, conformasi eh' osso idiotismo derivi dalla 
lingua latina, la quale ne avea bisogno per distin- 
guere il nos plurale dal nos singolare (5 luglio 182B). 
Altri è qui ridondante come 5Uo? in greco ec, del elio 
spesso altrove. (2893) 

* A proposito del vario significato e del figurato 
uso de' tempi dell' ottativo in latino, dolio scambio 



(2893-2894) pbksibki 81 

d'ossi tempi tra loro, e con quelli d'altri modi oc, 
vedi Orazio, Epist., I. 1. 2, v. 3, 4, dovo peccem, rno- 
fer stanno per peecarmn, morarer (5 luglio 1823). *) 

Circa quello ohe altrove ho detto de' participii 
guaesitm e quaeritus e del verbo quaeritare ed fran- 
cesi hanno querir da quaerere, e quMer, anticam. quester, 
da quaesitus di quaesere, onde noi chiesto o gli spa- 
gnuoli quisto. Chéri è il querido degli spagnuoli da 
quaeritus di quaerere . E chérir è lo stosso quercr spa- 
glinolo nel significato, che questo pure ha, di voler 
Itine. Il nostro cherere è il quaerere latino, in signi- 
ficato però di volere, come lo spagnuolo gwerer, e an- 
dino di domandare, come il nostro chiedere eh' è il 
latino quaerere (vedi p. 2995), siccomo il suo participio 
chiesto è il latino quaesitus, per sincope quaestus, Acqué- 
Hr e conquérir francesi, adquirir spagnuolo sono i 
latini acquirere e conquirere. Acquèter, antic. acquester, 
o 1' antico conquèter o conquester ì ) francesi, lo spa- 
gnuolo conquistar e l' italiano acquistare (2894) e con- 
qyàstare sono continuativi fatti da acqxiisitus o con- 
quisiti, detratta la seconda ì (vedi il glossario se ha 
nulla in tutto queste e simili voci) (5 luglio 1823). 

Questa detrazione fatta, come si vede, in tante 
voci, o derivate o composte da quaesitus, o che non 
sono altra voce se non questa medesima, conferma 
la mia opinione che da situs participio di sum si fa- 
cesse stare, detratta la i, come appunto da conquisitus 
conquistare, o cosi da quaesitus quisto e chiesto ec. La 
qual detrazione non è solamente propria dolio lingue 
moderno (dico cisca questo vocabolo quaesitus ap- 
punto), giacché la stessa lingua latina ne fa liso nella 



*) Cosi Virgilio, Georg., IV, 11G-7. 

! ) Uahptertr, malquerido, malquixto, «ioo v „i era 0 mlìtl(1 maU . 

t-hesta, Mhesta nutaattTi, per «Meo* tfeludtre rtchttto - 

intinerere, rfeMmn, cioè in;ui,en:, ,-rr,uirrrr ™„ ( .„ ilsi aeqtuu ; 
r«fs per «collii-ere, con altro schiso. 



62 



voce quaestus us, la quale, comò altrove ho dato per 
regola circa tali verbali, e formato appunto da quaesi- 
tus, e dovrebbe regolarmente dire quaasitus us, la 
qual vooo ancora si trova effottivanionte. Siccome vi 
sono le voci quaesitìo, quacMtor, quaesìtura, di cui sono 
contrazione quaestio, quacstor, quacstum, voci fatte da 
quelle per detrazione della. /, come per tal detrazione 
son fatte quaestorius, quacvtuosus ec., boncbó non si 
trovi quaesitorius, (2895) quaeMtuoxus ec. Cosi da po- 
siiùs, postus, repostus oc. ec. E della soppressione della 
i in moltissimi parti cipìi latini, come docitus-doctvs, 
hgitus-legtus-lectus ec, soppressione divenuta, lino ab 
antico, comune, anzi univorsalo, vedi ciò che dico altrove. 
E vedi a questo proposito la p. 2932 e 299 1-2. 3032, sogg. 

* Del rosto, il nostro antico suto è lo stesso che lo 
spagnuolo sido e che il latino situs da me supposto: 
è lo stesso, dico, considerato il solito scambio e la so- 
lita affinità fra la lettera u c 1' del che ho detto 
più. volte, e fra l'altre p. 2824-5, principio (e se n'ha 
appunto un esempio nolla voce quaesumus di quaesere, 
detta per quaesimus. Vedi Forcellini). Stante il quale 
scambio e affinità si può credere o che gli antichi 
latini dicessero cosi sutus come situs (maxumus o ma- 
ximus, lubem e libens) o prima l'ima di queste, e poi 
col tempo V altra, o che l' italiano antico mutasso la 
pronunzia latina facendo «veto da situs, o viceversa lo 
spagnuolo facendo sido da sutun. giacché questo scambio 
tra u ed i ebbe luogo frequontemente anche nei prin- 
cipii delle moderne lingue (vedi Pertieari, Apologia 
dì Dante, c. XVI, vors'o il lino, p. 156) siccome lo ha 
tuttodì (5 luglio 1823). Vedi p. 3027. 

* Quanto sia facile l' imparare a parlare, quanto 
poco tempo debba esser corso innanzi che il genere 
umano (2896) arrivasse primioramonte ad accorgersi 
di avere organi capaci di formare e articolare varii 



(2896-2897) pensieri 68 

suoni, poi ad imparar di formare e articolar tali 
suoni, o finalmente a crear col loro diverso accozza- 
mento una serie di voci di convenuta significazione, 
che fosse bastante a potersi scambievolmente oommu- 
nicaro i proprii sensi, e più ancora innanzi che il ge- 
nere umano arrivasse a portar questa serio al punto 
di poter ossero chiamata lingua e di servire a tutti 
i bisogni doli' espressione; si consideri nel muto. Il 
quale, convivendo pur tutto giorno con uomini i quali 
parlano ed usano una lingua già perfetta, non arriva 
mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla prima 
/delle sopraddette cose, cioè ad accorgersi di avore or- 
gani capaci di suoni articolati: giacché, seppure egli 
manda fuori alcun snono di voce, questo è mono ar- 
ticolato e meno vario che non sono le voci delle be- 
stie. Ora io torno in campo colla mia solita domanda. 
E egli possibile ohe se la natura aveva espressamente 
destinato l'uomo a parlare, so, come dico Dante, opera 
naturale è eh' uom favella, essa natura lasciasse tanto 
da fare all' uomo per (2897) arrivare ad eseguire que- 
st' opera naturale, o debita alla sua essenza, e propria 
di essa, quest' opera senza la quale egli non avrebbe 
mai corrisposto alla sua natura particolare, né all'in- 
tenzione della natura in generale, o condannasse espros- 
samento tanta moltitudine e tante generazioni d'uomini, 
quante dovettero passaro prima che fosso trovata una 
lingua, altre a non sapere né potere in alcun modo 
faro, altre a non poter faro sò non se imperfettissi- 
mamente, quello che 1' nomo doveva pur sapere e po- 
tere eompiutamonto faro per sua propria natura ? E 
poiché l'uomo senza la lingua non sarebbe uscito mai 
del suo stato primitivo purissimo, e la lingua è il 
principale e più necessario istrumento col quale egli 
ha operato od opera quollo che si chiama suo perfe- 
zionamento ; (ì se d'altronde tanto è por ciascuna cosa 
il ben essere, quanto l' esser perfetta, né si dà per 
veruna specie di onti felicità voruiia senza la porfo- 



pensieri (2897-2898-2899) 



ziono conveniente ad essa specie; è egli possibile che 
se questa che si chiama poi-lezione dell' nomo fosse 
veramente tale, e destinatagli dalla natura, essa na- 
tura noi formar l'uomo (2898) l'avesse posto cosi mi* 
raliil mori tri lontano Hallo perfeziono da lèi voluta e 
destinatagli, ed a lui necessaria, die egli non avesse 
ancora né potesse avere nemmeno nna prima idea del- 
l' istrumonto, col quale dopo lunghissimi travagli e 
lunghissimo corso di generazioni e di secoli la sua 
specie sarebbe finalmente arrivata a conseguire alcuna 
parte di questa perfezione? 

Certo, se quosto è voro, perché diciamo noi che 
l'uomo è per natura il più per-fetto degli esseri ter- 
restri? Lasciamo stare che la perfezione è sempre re- 
lativa a quella tale specie in che ella si considera. 
Ma paragonando pur 1' uomo colle altro specie di que- 
sto mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice, 
come non si dovrà sostenere che l'uomo ò por natura 
la più imperfetta Hi tutte le coso? Perocché tutte lo 
altre cose hanno da natura la perfezione che loro si 
conviene, e però sono tutte naturalmente cosi perfette, 
come debbono essere, elio è quanto dire perfettissimo. 
Solo 1' uomo, secondo il presupposto cho abbiamo fatto, 
è por natura cosi lontano dallo stato che gli conviene, 
che più, quasi, non potrebb' essere, e quindi, laddove 
tutte (2899) l'altre cose sono in natura perfettissime, 
l'uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie 
umana, lungi da esser la prima in natura, è anzi l'ul- 
tima di tutte le specie conosciute. 

Questa conseguenza deriva dal supposto principio: 
ma come il principio è falso, cosi essa non è vera; e 
questa proposizione, considerata ancora in se sola, si 
riconosce agevolmente por f'alsissima. Poiché, relati- 
vamonte all'ordine delle cose terrestri, l'uomo, come 
l'essere più ai tutti conformabile, è il più perfetto 
di tutti. 

Se però nel detto ordine delle coso terrestri, con- 



(2899-2900-2901) 



"PENSIRltl 



65 



(adorando la perfeziono di ciascheduna specie in modo 
comparativo, cioè relativamente 1' mia all' altra', non 
vogliamo immaginare una doppia scala, ovvero una 
scala parte ascendente e parta discéndente. E nella 
estremità inferiore dolla prima porre gli esseri affatto 
o più di tutti gli altri in organi zza. ti. Indi, salondo lino 
alla sommità, porre gli osseri più organizzati, fino a 
quelli cho tengono il mezzo della organizzazione, della 
sensibilità, della conformabilità. E di questi farne il 
sommo (2900) grado della scala, cioè della perfe- 
zione comparativamente considerata, come quelli che 
forse sono per natura i più disposti a conseguire La 
propria particolare o relativa felicità, e conservarla. 
Da questi in poi sempre discendendo, giù giù per gli 
esseri più organizzati, sensibili e conformabili, porre 
nell'ultimo e pili basso grado doli' altra parte della 
scala l'uomo, come il più organizzato, sensibile o con- 
formabile degli esseri terrestri. 

Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o 
ripiegando cosi la scala, troveremmo che l' uomo è 
veramente nella estremità non dolla perfezione' (come 
ci parrebbe so facessimo una scala sola o semplice e 
retta), ma della imperfezione; e in una estremità più 
f>assa ancora di quella olio è dall'altra parte dalla 
scala. Perocché dalla comparativa imperfezione degli 
esseri posti in quel grado, non ne seguo ai medesimi 
alenila infelicità laddove all'uomo grandissima. 

E voramente io cosi penso. L' uomo non è per 
natura infelice. La natura non ha posto (2901) in lui 
nessuna, qualità che lo renda tale per se medesima, 
nessuna che tal qnal è naturalmente, si opponga da 
ninna parte !tl suo ben essere; e però la natura diret- 
tamente non ha prodotto l' uomo né infelice, né tale 
e i ei debba necessariamente divenirlo. Perocché l'uomo 
Potrebbe conservarsi nello stato suo primitivo puro, 
"te gli a it r i esseri si eonsei-vano nel loro, e conser- 
Wiclocisi, sarebbe cosi felice, o cosi non infelice, come 

Lhomuiii. - Penule)/., V. 1 « 



pensieri (2901-2902-29031 



gli altri esseri sono felici o non sono infelici durando 
nel naturale stato. Sicché la natura in ordine all'uomo 
non ha violato per nimi conto né trapassato le sue 
universali leggi, che ciascuno essere abbia nella sua 
propria essenza immediatamente quanto abbisogna alla 
felicità che gli conviene, e nulla che por se lo sforzi 
alla infelicità. Ma l'eccessiva o, diciamo meglio, la 
suprema conformabilità e organizzazione dell' uomo, 
che lo rende il più mutabile e quindi il più corrutti- 
bile di tutti gli esseri terrestri, lo rendo eziandio per 
conseguenza il più infelicitabile, benché non lo renda 
per se stessa e naturalmente ini'elice, cioè lo rende il 
(2902) più disposto a potersi, e più d' ogni altro es- 
sere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi 
dalla sua propria perfeziono e quindi dalla sua fo* 
licita ; perdi' essa stessa confomiabilità umana è 
più d' ogni altra disposta e facile a poter perdere 
il suo primitivo stato, uso, operazioni, applicazioni e 
simili. Talché diffìcilmente l'uomo si conserva in ef- 
fetto nel suo naturalo o primitivo stato, e però diffi- 
cilmente si salva in fatti dalla infelicità. Stante le 
quali considerazioni, e stante appunto la somma con- 
fomiabilità e organizzazione dell' uomo, metafisica- 
mente considerata in ordine alla vera e metafisica 
perfezione, diremo che l'uomo è il più imperfetto degli 
esseri terrestri, anche per natura, in quanto però so- 
lamente ella è naturale in lui una disposizione, mag- 
giore che in qualunqu' altro essere a perdere il suo 
stato e la sua perfezione naturale. Niuna imperfezione, 
neppure in ordine all' uomo, si può trovare propria- 
mente nella natura ; l' uomo non è imperfetto né in 
natura, né per natura ; anzi, se volete, in natura e per 
natura egli è il più perfetto degli esseri, ma (2903) 
in natura e per natura egli è più di tutti disposto a 
divenire imperfetto; e ciò per ragiono appunto della 
somma sua porfezione naturale; come quelle macchino 
o quei lavorìi compitissimi e perfettissimi, che per 



(2903-2904) 



PENSTERT 



67 



esser tali sono minutamente lavorati, e qiiindi deli- 
catissimi, e per la somma delicatezza pili facilmente de- 
gli altri si guastano, e perdono l'essere e l'uso loro. 

Ma ad ossi pi trovano l'orse artefici che possono 
ripararli, a noi, guasti e snaturati una volta, non si 
trova mano che ci riponga nel primo stato (né da noi 
medesimi siamo atti a farlo). Poiché né la natura ci 
ripiglia in mano per riformarci, come 1' artefice il suo 
lavoro sconciato, né altra potenza v' ha che ci possa 
restaurare corno un nuovo artefice il lavoro altrui (6 
luglio 1823). 

* Alla p. 2815, margine. Auspico e suspicò, vedi 
p. 3686. da spedo, sono come aedifico, vivìfico, sacri- 
fico, amplifico , gratifico, veli-fico, significo , vocifieo (s s è 
vero), magnifico, mellifico, e tali altri non pochi, da fa* 
ciò, i quali hanno la forma e la coniugazione mutata 
dalla loro origine o per esser fatti da nomi, come, per 
esempio, aedifichtm, Sacrificium , unagnificus , ampli- 
ficus '), ciré di Frontone, viv {ficus oc, o per accidente 
e virtù della composizione, quando (2904) anche sieno 
fatti direttamente dal verbo originale faeio. E notate 
cho i composti di questo verbo, fatti con preposizione o 
particella, non hanno questa forma, ma solo quelli 
tatti con nomi ec. A ogni modo, siccome questi tali 
verbi, se ben li" guardi , hanno per lo più un signifi- 
cato continuativo, 8 ) giacché altro e meno è, per esem- 
pio, mei facete, altro e più mellificare, si potrobbo forse 
credorc che la loro inflessione in are mutata da quella 
della terza coniugazione non fosso a caso né senza 
ragione e che essi appartenessero alla categoria di 
verbi della quale al presente discorriamo, cioè di con- 
tinuativi appartenenti alla prima coniugazione , ma 
non formati da' participii, e diversi da quelli che ne 

1 ) Voggusi 111 pajf. 2998 a 3007. 

) Lubrificare — Lucri/accre. Senefaccre — Hemfieare Italiano. Tm- 
atfacore — Ludificare. 



68 



rEHSiETix (2904-2905-2906) 



sono formati, comò noi caso nostro, da faeio facto, la- 
ìic.facto ec, da spedo specto , suspeeto (a cui appartiene 
mspectio ch'equivale a auspicio e dà cui il nostro .so- 
spettare e ]p spagnuolo sospechar (come perito da pectm) 
elio vagliono suspicari. Soupconner è quasi suspiciona- 
re, da xoupeon, suspicio onis ec). Suspieo potrebbe an- 
che essere fatto da suspicio is, il qual verbo trovasi appo 
Sallustio in senso di sospettare, ed al quale appai-tiene 
il participio Buspecius che vale per lo più sospetto, ag- 
gettivo. E forse in questo senso si disse anche siispi- 
cior erte, onde poi suspicor lt giacché trovasi swspectus 
per sospettoso (cosi anehe in italiano sospetto) e Apu- 
leio l'adopra (2905) espressamente coll'àccusativo, come 
participio d'un verbo depononte, invece di suspicatn$. 
Ma vedi la pag. 2841-2 (7 luglio 182B). 

■J! Alla pag. 2809. Nelle nostre opere serie e buffe 
l'effetto del coro non è cattivo. Ma esso nelle opere 
serie è ben lontano dal far quegli uffici, dal sostener 
quel personaggio, e quindi dal muovere quello illu- 
sioni e far quegli offetti che faceva nelle tragedie 
antiche : ond'è ch'esso riesce forse meglio nello opere 
buffe, quanto all'effetto morale, giacché muove pure 
all'allegria, e fa, come l'uffizio, cosi l'effetto che pro- 
duceva nelle antiche commedie, né il muovere all'al- 
legria, ch'è pure una passione, è piccolo effetto' mo- 
rale. Laddove nelle opere serie esso non interessa 
quasi che gli occhi e gli orecchi, e. ninna passiono, 
ancorché menoma, nó desta né pur tocca. Ma questo 
è pur troppo il general difetto di tutta l'opera, e mas- 
sime della seria, e nasce dal far totalmente servir lo 
parole allo spettacolo e alla musica, e dalla confes- 
sata nullità d'esse parole, dalla qual necessariamente 
deriva la nullità de'personaggi, e (2906) cosi del coro, 
e quindi la mancanza d'effetto morale, ossia di pas- 
sione; se non altro la molta scarsezza, rarità, lan- 
guidezza e poca durevolezza dell'uno o doll'altra. 



(2906-2907) 



PENSIERI 



69 



Del resto, i pochi moderni che hanno introdotto 
il coro ne' loro drammi regolari, come Racine nel- 
l'JSster, non avendogli dato le condizioni ch'esso avea 
negli antichi, niu.no o quasi niuno effetto hanno pro- 
dotto. Ed anche la natura d'essi drammi, si moral- 
mente parlando, e si anche matorialmonto (poiché la 
scena si fingo per lo più in luogo coperto e chiuso, 
con altre tali circostanze che restringono e impicco- 
liscono e circoscrivono e depoctizzano lo ideo) , non 
era adattata né al coro degli antichi né a's'uoi effetti. 
Parlo anche dolle commedie, lo quali presso gli antichi 
Si' supponevano per lo più o la più parte di ciascuna, 
in piazza o no'porti, corno il Sudena di Plauto, o in- 
somma all'aperto ec. Vedi p. 2999 (7 luglio 1823). 

* In tutte le lingue tanto gran parte dello stile 
apparti ono ad ossa lingua, che in veruno scrittore 
l'uno senza l'altra non si può considerare. La magni- 
ficenza, la forza, la nobiltà, l'eleganza, la semplicità, 
la naturalezza, la grazia, la varietà, tutte o quasi 
tutte lo qualità dello stile sono cosi legato alle cor- 
rispondenti qualità della (2907) lingua, che nel con- 
siderarle in qualsivoglia scrittura è ben difficile il 
conoscere e distinguere e determinare quanta e qua] 
parte di esse (e cosi dello qualità contrarie) sia pro- 
pria del solo stilo, o quanta e quale della sola lin- 
gua; o vogliamo piuttosto diro, quanta e qnal parte 
spetti e derivi dai soli sentimenti, e quanta e quale 
dalle solo parole; giacché, rigo rosa ni onte parlando, 
l' idea dello stile abbraccia cosi quello che spetta ai 
sentimenti come ciò che appartiene ai vocaboli. Ma 
tanta è la forza e l'autorità delle voci nello stile, che 
mutate quolle, o le loro l'ormo, il loro ordine ec. tutte 
o ciascuna dello predette qualità si mutano o si per- 
dono, e lo stile di qualsivoglia autore o scritto can- 
gia natura in modo. che più non è quello né si rico- 
nosce. Veggasi la pag. 3397-9. 



70 



pensieri (2907-2908-2909) 



Tutto ciò accade in tutte le lingue, fuorché nella 
francese. Che veramente nella lingua francese lo stile 
è formato quasi tutto dai sentimenti e dalle figure 
che appartengono alle sentonze. E la diversità degli 
stili, e quella delle qualità di uno stilo, non si può 
considerare in essa lingua se non quanto ai sonti- 
timenti, e non appartiene, non dipende, non (2908) 
nasce se non da questi. Perocché, se ben si osserva, 
quanto alle parole, e a tutto ciò che loro appartiene, 
tutti gli stili de'francesi, si di diversi autori e scrit- 
ture, si di una stessa scrittura o scrittore in diver- 
sissime materie sono poco men che conformi. 

E non è maraviglia, perocché dov'è pochissimo 
luogo alla scelta delle parole e dell'ordine e com- 
posizioni loro, quivi pochissima potrà essere la dif- 
ferenza o tra gli stili di vari autori o di varie opere, 
o tra le qualità di un medesimo stile in diverse ma- 
terie e occasioni, per ciò che spetta alle parole. Le 
quali non potendosi scegliere, non possono essere qua 
eleganti, qua nobili, qua efficaci, qua grazioso, ma 
sempre tali, o non mai. Tsé potendosi scegliore gli or- 
dini e collocamenti delle medesime, non può nascere 
dalla composizion do' vocaboli ora una qualità di 
stilo ed ora un'altra, ma sempre una, perché sempre 
una e niente variabile è ella medesima. Dico dalla 
composizion de' vocaboli considerata in se, non in 
quanto ai sentimenti eh' osprimono, perché in quanto 
a questa parte la lingua francese è capace di ricever 
varietà di stile dalla composizione delle pardo, (2909) 
ma ben guardando si sente che questa varietà non 
deriva punto dalla composizione stessa in se, ma dallo 
sentenze e figure loro. 

Onde si può dire che la lingua francese non 
avendo appresso a poco che uno stilo, lo scrittoi' fran- 
cese, quanto alla lingua, non ha mai stile proprio, e 
che, per quanto appartiene alle parole, lo stile di qual- 
sivoglia scrittoi- francese non è suo, ma della lingua. 



(2909-2910) 



PENSIERI 



71 



E posi lo stile di qualsivoglia genere di scrittura non 
è d' caso genere ma della lingua universale, e lo stilo 
della poesia francese non è della poesia ma della lin- 
gua, o lo stilo della prosa è quel della lingua, è quello 
della conversazione, non è neppur proprio della prosa 
più elio della poesia, anzi vedi in proposito la p. 3429. 

Il che si può parimente dire della lingua ebraica, 
nella quale altresì, quanto alle parole, non era luogo 
alla scelta, benché, quanto allo composizioni delle me- 
desime, forse v'avesse luogo un poco più che nella 
francese, essendo ella tutta indigesta e informe, e 
quindi tutta poetica. 

Effettivamente la differenza degli stili e delle 
qualità di mi medesimo stile, quanto alla lingua, è 
cosi minuta e cosi scarsa in francese, die un fore- 
stiere, il quale benissimo la distinguerà negli scrit- 
tori greci e latini, elio sono lingue morte, diffieil- 
anente, anzi appena, secondo me, la distinguerà e 
sentirà mai negli scrittori francesi . Né potrà mai ben 
dire, questo scrittoro o questo passo è elegante, (2910) 
questo dignitoso e magnifico, questo energico, questo 
grazioso quanto alle parole, e questo no. Onde nasce 
che, anche generalmente parlando, la differenza dello 
stile, cioè del modo di esprimere i concotti, ché que- 
sto è ciò che si chiama stile , è poco sensibile al 
forestiere nella lingua francese ; certo assai meno sen- 
sibile che nelle altre. Difficilissimo è ancora al fore- 
stiero il sentir la differenza degli stili (in quanto 
propriamente stili) francesi di diversi tempi (dico dal. 
secolo di Luigi in poi), o comparando uno scrittoi' 
d' un secolo a uno di un altro, o generalmente lo stile 
di im secolo a quel di un altro. Ho dotto dal secolo 
di Luigi, e intendo di quelli che in quel secolo scris- 
sero bone, e che s' hanno ancora per buoni, e in quanto 
siiauno per tali (corno Corneille) nella lingua ec. 
Tanto più che nolla^espressione de' concetti, anche in 
quella parto dello stilo che spetta allo sentenze, il 



72 



PENSIERI 



(2910-291 1-3912) 



modo degli scrittori francesi è più vario bensì che 
nella parte delle parole, ma infinitamente meno vario 
elio negli scrittori delle altre lingue, si per rispetto 
delfinio scrittore e dell' un soeolo air altro, o dell'una 
opera e dell' un genero di scrittura all' altra opera ri 
all'altro genere, si per rispetto alle varie parti di una. 
stessa opera o genere, e alle varie gradazioni o qua- 
lità, di im medesimo stile. E basti dire in prova, che 
la lingua francese non solamente non ha linguaggio, 
ma neppur quasi stile poetico veramente. 

In simil modo nella ebraica non si sonte se non 
poca differenza di stili, o di qualità di un (391 1 ) mede- 
simo stile. licito si attribuisce alla lontananza de' tom- 
pi e de' nostri gusti e costumi, quasi l' uniformità 
dello stilo ebraico non fosse vera, se non relativa- 
mente. Ma io la credo assolutamente vera, e l'attri- 
buisco alle dette ragioni, né erodo che lo scrittore 
ebraico potesse avere stile proprio, né veruna materia 
stile proprio, ma tutti e tutte un solo, quanto alla 
lingua, per la povertà di questa ') ed eziandio quanto 
al modo e alla parte dello stile che spetta- alle 
sentenze, perla niuna arte degli scrittori, e perché 
la lingua li serrava e circoscriveva anche in questa 
parto, dome appunto anche in Francia, fa la mede- 
sima lingua, e l'impero assoluto dell'usanza, il qual 
si esercita colà stillo stile come su d'ogni altra cosa. 
Del resto, come la liijjgua francese non ha che lin- 
guaggio e stile prosaico o manca dol poetico, cosi 
l'ebraico non ha che il poetico e manca del prosaico. 
E ciò perché quella è lingua definitamente ed essen- 
zialmente moderna, questa fu essenzialmonto e moral- 
mente antica e quasi primitiva. (2912) 

,) Kòn solo "jli scrittori ebraiol o le vario materie in lingua ebraica, 
ma nappa; ama Ungo» ha uno stilo , cioè nn moilo determinato , corno 
l'ha, btìto ,' tei tròppo determinato, la frauccae i perocché la lhjgnn 
ebraica è troppo informo per avere uno stile proprio ; e pincisamoiito «Un 
è l'astrano contrarlo della francese quanto all'Informità. Vedi la p. 2853. 
margtite, p; 3564. 



2912-2913) 



PKNS1E1U 



73 



È notabile come da contrarie cause nascano uguali 
effetti. La lingua ebraica non ammetto varietà nello 
stile per esser troppo antica, la lingua francese nem- 
meno, por esser troppo moderna; quolla per eccesso 
d'imperfezione e per povertà che nasce dall' antichità, 
questa per. eccesso di perfezione o per povertà che 
nasce dall'essere squisitamente moderna, si di tempo 
corno d'indole. Neil' una e nell' altra le parole poco va- 
girono, le sentenze tutto, lo stile si riduce ai nudi con- 
cetti (cosa che non ha luogo in venir' altra lingua 
letterata). Ma ciò nella ebraica perché le parole non 
hanno ancor preso vigore, nella francese perché l'hanno 
perduto; in quella perché i concetti non hanno an- 
cora onde farsi un corpo, in questa perché l'hanno 
deposto; in quolla perché la materia è ancora scarsa 
a vestir lo spirito, in questa perché lo spirito ha con- 
sumato la materia, è ricomparso nudo del corpo di cui 
s' era vestito, ha prevaluto alla materia, e tutta l'esi- 
stenza è spiritualizzata, né si vedo o si tocca oramai, 
0 certo non si vuole né vedere né toccare quasi .altro 
che spirito. (2913) Ambedue le lingue dànno noi meta- 
fisico e, si può dire, nell' incorporeo per due cagioni è 
principii dirittamente opposti, come il fanciullo per 
eccessiva semplicità è talvolta cosi sottile nelle sue 
quistioni, come il filosofo por grande dottrina e sa- 
pienza e sagaci tà (7 luglio 1823). Vedi la pag. se- 
guente. 

* Alla p, 2853, margino. Veramente la pretesa forza 
d'imitazione cho ha la lingua tedesca non potrebbe 
perfettamente realizzarsi che sopra una lingua come 
l'ebraica. Perocché una lingua informe corno questa 
può sola esser bene imitata, anzi contraffatta, copiata 
e trasportata tutta intera in una lingua informo come 
è necessario che sia la lingua tedesca se ha la detta 
forza e facoltà che so le attribuisce. E viceversa, solo 
nna lingua informe, come questa, sarebbe atta a con- 



7! 



PENSIERI 



29 13-29 14-29 I 5) 



tratfaro senza far violenza a se stessa o perfettamente, 
una lingua informo uomo l' ebraica o come una lingua 
selvaggia; il che non è possibile alle lingue formato, 
né fu possibile in greco o in latino contraffar nelle 
traduzioni letterali la lingua ebraica, senza violentare 
e snaturare affatto (29 1 4) il greco e il latino, come f n 
fatto, q come accado altresì nelle lingue moderne che 
hanno (se alcuna nella) traduzioni letterali della scrit- 
tura, fatte o sull'ebraico o sul letterale greco o latino 
o d'altra lingua moderna (7 luglio 1823). 

* Alla pagina antecedente. Questa spiritualizzazione 
della società essendo oggidì universale, è altresì uni- 
versale 1' offetto elio ho dotto esserne seguito nella 
lingua francese, cioè che lo stile degli scrittori mo- 
derni di qualsivoglia lingua non differisca oramai se 
non se ne' sentimenti, e consista tutto nelle cose. E in 
verità, quanto allo stile propriamente detto, v'è minor 
divario oggidì fra due scrittori di duo lingue dispa- 
ratissiine e in diversissime materie, che non v'era an- 
ticamente fra due scrittori contemporanei, compatriotti, 
d' una stessa lingua e materia (pongasi per esempio 
Platone e Senofonte). Lascio poi quanto poca varietà di 
stilo si possa trovare in uno stesso scrittore. Gli stili 
de' moderni non si diversificano se non per le sentenze 
Anzi tutti gli scrittori e tutte lo opero escono, quanto 
allo stile, da una stessa scuola, vestono d' uno stesso 
panno, anzi hanno una sola fisonomia, una sola attitu- 
dine, gli stessi gesti e movimenti, le stesse fattezze e 
circostanze esteriori; solo 'si distinguono l' tuie dal- 
l' altre perché dicono diverse coso , benché collo stesso 
tuono e modo di recitazione. Sicché, proporzionatamen- 
te, accade oggi noi mondo civile quel medesimo che ho 
ciotto accadore in Francia; quasi ninno scrittore ha 
stile (2915) proprio, non v'è chetino stilo per tutti, 
e questo consiste assai più nelle sentenze che nelle 
parole; poco oramai si guarda allo stile nelle opere 



(2915-2916) 



PBNSIBR] 



che esuono in luco, o se vi si guarda, ciò è più pei" 
vedere s'egli segue l'uso e la forma di stilo univer- 
salmente accettata o no : se la segue, non si parla 
del suo stile; se non la segue, allora solo il suo stile 
dà nell'occhio, e per lo più è ripreso, e ordinai-ia- 
' mente con ragione. La differenza eh' è in questo par- 
pcolar dello stile fra la lingua francese e l' altre 
moderne, si è elio so in quella lo scrittore non ha 
stilo proprio, egli è perché la lingua n'ha un solo; se 
lil suo stile non è vario, egli è ohe la lingua non ha 
varietà di stile. Ma nelle altro lingue il difetto viene 
dallo scrittore: egli è che manca di varietà di stile, e 
non la lingua , o s' ei non ha stile proprio, egli può 
averlo; almeno la lingua sua non glielo impedisce; 
ma oi non ha stilo proprio, perché un solo stile ha 
non la sua lingua, che molti ne ammette, ma, per 
cosi diro, la lingua europea, ossia l'uso o lo spirito 
univcrsalo della letteratura e della civiltà (29 1 6) pro- 
sente, e del nostro secolo. Vedi p. 3471. 

Del resto, egli è certissimo che quantunque le 
moderne lingue, almeno parecchie di esse, sieno ca- 
pacissime d'ogni sorta di varietà, qualità e perfezion 
di stile, nondimeno niuna delle medesime è, che possa 
mostrare neppur ne' suoi antichi o nel suo secolo 
aureo ne tanta varietà, né di gran lunga tanta per- 
fezione di stile propriamente dotto, quanta ne pos- 
sono mostrare nei loro lo lingue antiche. I moderni 
poi, quanto vincono gli antichi nel fatto delle sen- 
tenze, tanto cedono loro tutti in tutte le parti dello 
stile propriamente detto, e nel culto delle parole preso 
in tutta l' estension del termine. E non solo non met- 
tono né sanno mettere in pratica, ma né pur cono- 
scono perfettamente tutte le squisitezze degli artifizi 
e degli accorgimenti cho gli antichi insegnavano co- 
munente e adoperavano intorno a esso culto, e cho si 
possono vedere negli scritti rettorici di Cicerone e di 
Quintiliano. I moderni non ne conoscono general- 



?6 



pensieri (2916-2917-2918) 



mento neppure i nomi, e neppnr ne hanno tanta idea 
che basti a poter valutare in confuso a olio sseguo 
(2917) arrivasse questa squisitezza, Kei moderni le 
sentenze c la spiritualità del socolo nocciono allo 
parole e allo stile, all' arte del quale niuno di loro si 
applica da senno o ei poro tanto studio o tempo 
quanto bisognerebbe. Negli antichi classici di ciascuna 
lingua moderna, ne' qnali non aveano luogo lo dette 
circostanze, e ciascuno de' quali iacea dell'arte dello 
stile il suo principale studio, e attendeva più alle 
parole che alle cose, ogni volta che si metteva da 
vero a comporre; pure in nessuno o in quasi ninno 
di loro si trovò arte o capacità bastante, né quanto 
si richiedeva a conseguire quell' alto grado di perfe- 
zione, neppur relativamente e limitatamente alle forze, 
indolo, qualità e capacità delle rispettive lingue (8 
luglio 1823). 

* L'argomento con cui altrove dall' aggettivo potila, 
che io chiamo vero participio, e da' sostantivi potus 

' us (fatto da esso participio, secondo la regola da me 
altrove assegnata) e potio onis paragonati con potatio, 
ho dimostrato l'esistenza di un antico verbo poo, ri- 
covo forza dai composti appotus ed epotm, veri par- 
ticipi!, (29 1 8) come di forma cosi di signilicazionc 
(che in quello è attiva. *) in questo passiva); da' quali 
forse si potrebbe anche raccorrò 1' antica esistenza 
de' verbi composti appoo ed epoo diverso da epoto. 
Avvi ancora compotatio, compaio? sostantivo e compo~ 
trix (8 luglio 1823). 

* Da quello cho ho dotto, p. 2789-90, si rileva cho 
il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio 
■raptus, e che questo dovette essere usato dagli anti- 



*) Vedi la iì. 2841, line. Puittiut v* è clA jto, non il» pota, come 
ua e [la movett, non da moto as, e puoi vedere ni questo proposito lit 
p. 2975; princìpio. 



(2918-2919) 



PENSIERI 



77 



olii latini e volgarmente, in senso di veloce, come ratto 
fra noi. Porocchó diro cho quosto sia nato dall' av- 
verino italiano ratto, e quest'avverhio da raptim, onda 
ratto por veloce venga da raptim, è derivazione o for- 
mazione priva d'ogni esempio. E por lo contrario è 
cortissimo cho ratto avverbio viene da ratto aggettivo, 
anzi ò lo stesso aggettivo neutralmente o avvorbial- 
mento posto, il che è proprietà ed uso della no- 
stra lingua di fare, come alto, forte (anello i francesi 
fori avverbio e aggettivo), presto, tosto, piano e mil- 
l' altri, por altamente ec. Anzi ò in libertà dello scrit- 
tore o parlatore italiano di far cosi de'nuovi avverbi 
degli aggettivi, (2919) non già viceversa. Vedi il 
Forcollini in lìapio, col. 1 , fine, Rapto, fine, Eaj>tus, 
V esempio di Claudiano. Gli spagnuoli similmente 
hanno, per esempio, demasiado avverbio e aggettivo ec. 
(8 luglio 1823). 

* Noi usiamo volgarmente il verbo volere appli- 
candolo a coso inanimate o ad esseri immaginari , e 
talvolta iinporsonalmento, in modo eh' egli o sta per 
potere o ridonda e non fa ohe servire a una peri- 
frasi, per idiotismo e per proprietà di lingua. Per 
esempio, La piaga non se gli vuole rammarginare. Cioè, 
Wm si può far che la piaga se gli rammargini, ossia 
La piaga non se gli può ancora rammarginare. Qui vo- 
lere sta per potere. Se il cielo si vorrà serenare, se la 
stagione si vorrà scaldare, se il vento vorrà cessare, se il 
negozio vorrà camminar bene, se la pianta vorrà pigliar 
piede, V erba non ci vuol nascere. Cioè, se 2nglierà piede, 
non ci nasce. Qui volere ridonda. T)a pia mesi non e 
voluto pio-vere. Cioè, non è piovuto Qui volere ridonda 
ed è impersonalo. Aneho in francese: cette machine ne, 
veut pas alter, ce bois ne veut pas brùlcr. Alberti. Cosi, 
m i pare, anche in spagnuolo. 

Ora questo grazioso idiotismo proprio della nostra 
uigua fu proprio altresì della più pura lingua greca 



pensieri (2919-2920-2921) 



{anzi, secondo i grammatici, egli è un atticismo) e f u 
adoperato (2920) dagli scrittori più eleganti, e mas- 
sime da Platone, primo modello dell' atticismo. Xcl 
Convito. Opp., ed. AsfciiJLips., 1819-..., t. Ili, 1821, p. <K50, 
v. 16-17, D. Èàv [xéy za: stì-ÉA-fl saósofrat t, hófi, se ti 
vorrà passare il singhiozzo, invece di èàv uév so: naur,- 
t'v. -/j Wfkf Qui iMbtv ridonda. Vedi lo Scapula in 
?EMX<u e SiXu>. Corinto nepl StaXéwwov. 'Arcuisi xal ti *K- 
\e: &ytl tuo Suvatai, 4>4 i UXàttuv (nel principio dol_Ftfdroì, 
tà /tupta oùòéf fcftìXn StSàcy.eiv. Ma non è vero che stia 
sempre in questo tale idiotismo per potere, come dice 
anche lo Scapula ne 'due citati luoghi. Per potere sta 
assolutamente nel Sofista, t. II, 1820, p. 314, v. 18-19, 
D-E. Kotì jj.TjV ?v •fi "z: to'Jtiov àva.-jv.uìo'j, x[ KÓCVXtt : q |AY]8èv ; r ( 
zà |iè.v l&éXety, ti (tv) £t>jj. (t t-]f v t>.<J^'0t« che altre cose possano 
mescolarsi insieme altre no. *) Ma nel passo del Convìvio, 
e in quello di Omero presso lo Scapula, MHXmv ridonda, 
come sovente in italiano volere, nel detto nostro idio- 
tismo , e malissimo si spiegherebbe por potere. In 
quello del Fedro altresì in sostanza ridonda, perché 
il luogo vale tà;j(tì>p(« oaltv |ie SiSàoxei. Se diremo oùSév u.s 
Stivateti StMaMiv (2921) diremo forse altrettanto, ma non 
lo stesso, e benché diremo il vero, non perciò diremo 
quel medesimo appunto che dice Socrate, In questo e 
in altri molti casi simili, tanto nel greco quanto nel- 
1' italiano, spiegando il verbo volere per potere, l'espres- 
sione riesce vera e giusta, ma nonpertanto V intenzione 
dcllafrase non era di dir' potére. Perché spesso nell'espri- 
merci noi abbiamo due intenzioni, l'ima finale (e que- 
sta nel caso nostro sarà ugualmente bene spiegata 
rendendo volere per potere, che dicendo eh' egli ri- 
donda), l'altra immediata (e questa nel caso nostro 
non si otterrebbe con dir potere, né si spiegherebbe 
con questa voce); da ambedue le quali intenzioni è 



J ) Vedi miche Ivi, p. 318 , vera, pennlt,, B j 326, Ter». 12, ]t ; 3-12, 
vei-3. 13-14, D; 314, ver». 20, E. Syxes., Opp., 1«12, p. 43, (J. 



(2921-2922-2923) 



79 



diversa quella intenzione o significato che ha la lo- 
cuzione letteralmente presa (8 luglio 1823). .Del re- 
sto, noi non usiamo in questo tal senso e modo il 
verbo volere, se non colle particelle nogative o con- 
dizionali, o con interrogazione, come in quel verso di 
Anacroonte (od. 4 'ESóy.ooy wap Hpùyàfciv) ti fliXei ovttp 
vcóò' elvui^ che vorrà essere questo sogno? Ma in locu- 
zione, l'orma e significaziono affermativa non s' usa 
(2922) mai il verbo volere né dagl' italiani né da' fran- 
cesi no' sovresposti sensi , se non se in quella frase 
voler dire o significare ec, che è greca anch' essa, e 
che può riferirsi all' idiotismo di cui ragioniamo. I 
greci ancora usano per lo più questo idiotismo fuori 
di affermazione, benché non sempre. Affermativa- 
mente, e pur di cose inanimate o ideali e intellet- 
tuali e, corno si dice, di ragione, usiamo noi il verbo 
Volere in un senso però differente dai sopraddetti, ed 
equivalente al greco [jiXXeiv, ma con significarla di 
qualche dubitazione : come Questa guerra vuole an- 
dare, in lungo, cioè, Pare che questa guerra sia per 
durar molto: Vuol piovere oc! In questo senso il verbo 
volere equivale al significato che sovente ha in ita- 
liano dovere, il quale talvolta significa assolutamente 
piUetv (come avere a, aver da cogl' infiniti), talvolta 
con qualche dubitazione, come Questa guerra deve an- 
dare in lungo, cioè Pare che ec. Dicesi ancora Questa 
guerra mostra di. voler esser lunga , pare che voglia 
esser ce. E in simili modi : e cosi dovere. In altro 
modo ancora diciamo affermativamente il verbo volere 
per proprietà di lingua, eziandio di cose inanimate, 
con significazione di esser presso a, mancar poeo che 
non ; e in questo senso egli non s'usa se non nel pas- 
sato o piucchó passato, benché in un osompio della 
Crusca, Volere, § 3, trovisi nel gerundio (9 luglio 1823). 
Vedi p. 3000. '(2923) 

* GÌ' italiani non hanno costumi: essi hanno delle 



80 



PENSIERI 



(2923-29241 



usanze. Cosi tutti i popoli civili che non sono nazioni 
(9 luglio 1823). 

* Bisogna (far grande stima) avere una grande idoa 
di se stesso, per esser capace di sacrificar se stesso. 
Chi non ha molta e costante stima di so medesimo 
non è buono all'amor vero, né capace del dévouement 
e del totale sacrifizio ch'egli esige ed ispira (9 lu- 
glio 1823). , 

* Il verbo avere in senso di essere, usato imperso- 
nalmente dag-P italiani, da' francesi, dagli spagnuoli, 
talora eziandio personalmente dagl' italiani (vedi il 
Oorticelli), non è altro che il latino se imbeve (il qual 
parimente vale essere), omesso il pronome. 11 volgo 
latino dovette dire, per osompio. nihil hic se habet, qui 
non si ha nulla,, cioè non v' 'e; poi, lasciato il pro- 
nomo, nihil hic habet, qui non v'ha nulla. Cicerone: 
Attica belle se habet col pronome, e altrove : Terentia 
minus belle habet: ecco lasciato figuratamente il pro- 
nome nella stessa frase (Porcellini in Bella). Bene 
habeo, bene habemus, bene habent Ubi principia sono 
(2924) tutte locuzioni ellittiche per l' omissione del 
pronome se, nos, me. Bene habet, optime habet, sic habet; 
ecco, oltre l'omission del pronome se, anche quella del 
nome res. Ondo avviene cho in queste locuzioni, che 
intere sarebbero bene se res habet, sic se res habet, il 
verbo habere per lo dotto ellissi venga a trovarsi im- 
personale. Ed ecco nel latino il verbo habere in si- 
gnificato di essere, noutro assoluto, cioè senza pro- 
nomo, o impersonale. Quis hit', habet? chi e qui? In 
questo e negli altri luoghi dovo il verbo habere sta 
por abitare in significato noutro, esso verbo non vale 
propriamente altro che essere; e habitare altresì, eh' è 
un frequentativo o continuativo di habere, sempre che 
ha senso neutro, sta per essere. E questa ' forma è 
tutta greca: giacché presso i greci É'/ftv, la metà 



(2924-2925-2926 ì phnsierì 8J 

delle volto non è altro che tm sinonimo di csaore, e 
Busa in queBto sonso anoko impersonalmente, corno 
in italiano, francese e spaglinolo tutto di. ') Cosi anche 
noi greco moderno a ogni tratto (2925) Aèv ìyz:, non 
a è, non ci, ha (d lnglio 1823). 

'■■ Intorno al verbo habitare, che per virtù della sua 
formazione può essere e continuativo e frequentati- 
vo, si considerino gli esempi del Fornellini, in alcuni 
de' quali (corno in quello di Cicerono, de Senect., c. ult.) 
egli ha decisissimamente il primo significato, in altri 
il secondo: o vaio solere Iutiere cioè es.se ec. E vedi 
ancora il primitivo Iutiere nel sonso del continuativo 
habitare (dal qual senso deriva quello di questo verbo) 
nel Porcellini in habeo, col. 3 (!) luglio 1823). 

* E uso della nostra lingua di porro l' avverbio 
mate corno particolla privativa in vece di in avanti 
gli aggettivi, i sostantivi, gli avverbi, i participii ec, 
o facondo di questi tutta una voce con quella, o 
scrivendo quella separatamente. s ) Il qual uso ci è 
cosi proprio, che sta in libertà dolio scrittore di faro 
in questo modo de' nuovi accoppiamenti nel dotto 
senso, sempre ch'oi vuole, siccome n 1 han fatto alcuni 
moderni, (2926) per esompio il Salvini, ad esempio 
dogli antichi, o stanno segnati nella Crusca. I fran- 
cesi similmente: mal-adresse, mal-adroit, mal-adroite- 
ynent, mnl-aisé, mal-grcwieux, mnl-plnisant, mal-habile, 
tnal-honnflte eo. ec. Vedi il dizionario del Richelet in 
>»'<-l. line. Or quest'uso è tutto latino e degli ottimi 
tempi. Vedi Forcollini in male (9 luglio 1823). 

* Maltrattare, maltraiter maltratar, male-tractatìo è 
'J' A niobio, appresso Forcellini voc. Male, fino, in voce 
di che altri dissero mala traditilo. È proprio do' nostri 

') v "'li i>. 3907. 

') Malr jior imn o pneon difficilmente. Vedi h\ Crusca iti mate. 
Lkopaboi. — Penateli, V. (ì 



82 



PENSIERI (2926-2927-2928) 



antichi scrittori e del volgar fiorentino o toscano di 
usar malti in tutti 1 generi o numeri invece dell'ag- 
gettivo mah (9 luglio 1823). 

* Savamo, Bavette de' nostri antichi, per eravamo ora- 
rate, sarebbero elle persone di un imperfetto più re- 
golare, più antico e più vero di mm, sumus. stipi, elio 
non è 1' «sitato eram l'atto forse da un altro toma; 
persone, dico, di un imperfetto sàbam, era, conser- 
vato nel volgar latino iìno ai primi tempi del nostro? 
(9 luglio 1823). 

* Alla p. 2753. Ella è anche cosa certissima ohe, 
in parità di circostanze, 1- uomo ed anche il giova- 
ne, (2927) e altresì il giovano sventurato, è meno 
scontento dell' esser suo, della sua condiziono, della 
sua fortuna durante l'inverno elio durante la state; 
meno impaziento dell' uniformità e della noia, mono 
impaziente delle sventuro, meno renitente alla sorto 
o alla necessità, più rassegnato, meno gravato della 
vita, più sofferente dell'esistenza, e quasi riconciliato 
talvolta con esso lei, quasi lieto; meno incapace di 
concepire come si possa vivere o di trovare il modo 
di passare i suoi giorni: o almono tutto questo di- 
sposizioni sono in lui più frequenti o più durevoli 
noll'inverno che nella state; e spesso abituali in 
quella stagiono , laddove in questa non altro mai 
cho attuali. Ed anche il giovane abitualmente dispe- 
rato di se e della vita si riposa della sua dispera- 
zione durante l'inverno, non elio egli speri più in 
questo tempo cho negli altri, ma non prova o prova 
meno efficace il senso di quolla disperazione cho ra- 
dicalmonto non può abbandonarlo. Cioè intermetto 
(2928) di desiderare o desidera mono vivamento quol- 
le cose eh' ogli è al tutto o nbitualmento o por sem- 
pre disporato di conseguirò. Tutto ciò perché gli 



(2928-2929) 



PENSIEUl 



83 



spiriti vitali sono manco mobili ed agitati e svegli 
nell' inverno che nella state. 

Queste considerazioni vanno applicate al carat- 
tere dolio nazioni elio Vivono in diversi climi, di 
quelle che sogliono passare la più parte dell' anno al 
coperto e nell'uso della vita domestica e casalinga a 
causa del rigore del clima, e viceversa eCi Veggasi la 
|; 3347-9 e 3296. margine ec. (!) luglio 1823), 

* A proposito del verbo vexrtre che io dico esser 
continuativo di vehere ') e fatto da un. antico parti- 
cipio vcxus invece di vecius, del che vedi la p. 2020, 
è da notare che si altrove si particolarmente ne' par- 
ticipi! in us non è raro nella lingua latina lo scambio 
delle lettore s e t. Eccovi da intendo , intensus e in- 
tentust, onde intentare, corno da vecius vectare j.c|{t amjo, 
anxus ed anctiis. Vedi Porcellini ango, in fino ; vedi 
p. 3488; e cosi tenxwt e tt-.ntns da tendo o dagli altri 
suoi composti , del che ho detto altrove in proposito 
d' intentare. Vedi p. 38 1 5. Dico lo scambio, giacché, se- 
condo (2929) me, questi tali participii, corno tensus e 
<'■nl.ua, non sono che un solo pronunciato in due diversi 
modi por proprietà dolla lingua materiale. Ondo vexus, 
cioè veesus , ò lo stesso identicamente che veetus, e 
Pecsare o vexare, per rispetto all' origine, lo stesso che 
nettare. Ma vexus si perdette, restando vecius, o forse 
l'u più antico di questo, come vexare sembra esser più 
antico di -mei, ire. Del resto da vello esci è cosi ragione- 
vole elio venga vexus, conio da npefo in exi, nexus, ondo 
nexfirc, compagno di vexare, e da pedo *s exi pextis (o 
notisi eh' egli ha eziandio pectitm) e da pineta ts exi, 
plexus, ondo amplexarc, fiecto in exi, flexus oc. (vodi 
p. 2814-15, margino) oc. E quanto ai verbi che hanno o 
ebboro de'participii cosi in sus còme in tus, vedi per un 

') U> comprova anello 11 aigulilcato rispettivo , si per V affinità, at 
l'I"' in L'ontinuiU imi. SioHhiietitti liti cello innoverò, aenao analogo a qnel 
III veht>, ai f a procella, «mìo procella, olio ó iiunai uclko, a percello 00. 00 et). 



84 



pensieri (2929-2930) 



altro esempio funde.re , elio liti fusus ed ebbe anche 
futux, pi 2821, o uìtor erte che ha nixus, ondo nixari, ed 
ebbe nietus , onde nictari , il qual esempio (vedi la 
p. 2B86-7) fa particolarmente al caso. Vedi p, 2038. 
Fit/o-Jh-i-fictus a Jkm eli' è più comune ancora. ') E 
di' molti altri verbi la nostra teoria de' continuativi 
dimostra de' doppi participii o supini, (2930) cioè di- 
mostra che ebbero participii o supini diversi da quelli 
che ora hanno, o due, ambo perdut i, o ancor piti di due, 
come fundo-fusus , futus , fnndiius ec. ec. Vedi la 
p. 2826, il pensiero seguente , e la p. 3037. Del resto, 
vernare, rispetto a vehere, potrebbe anche appartenere 
a quella categoria di verbi, della quale p. 2813, segg, 
Ma non lo credo per le suddette ragioni che mi per- 
suadono eh' ei venga da un participio Vexus. Vexus , 
flexMB oc. da vestì, ec. sono forso contrazioni di vexitas eo, 
e altresì veMus oc, il quale però conserva il t, come 
textus da texui. oc. Vedi la p. 3060-1 con tutto quollc 
a cui essa si rifori sce e quello che in essa si citano 
(9 luglio 1828). 

* Fimo, pinti*, pinsi. et pinsui, pinsum et pinsitum 
et pistum. Da pimnut o da pim'dvx, pinsìtare appresso 
Plauto , se questa voco è vera. Da pistus pinture, ap- 
presso il Porcollini e il glossario (vedilo in Pistare 
o Piètatus, onde il nostro pestare che volgarmente si 
dice ancho oggi più spesso pittar», siccome piato per 
pesto (vedi il glossario in pestare). Pitto rimane ezian- 
dio nello spagnuolo, ed è un aggettivo neutro sostan- 
tivato, che vale quello che noi diciamo il pollo pesto. ~) 
Notiamo qui quello elio dico Pesto alla voco pin- 
na (ap. Porcellini in Pisìm).PÌttum a jùnsend') prò vio- 



') Similmente imi figgere-fiito a fitto, ilei elio pnoi vedere i>. 3284 e 
p~ 3203, flojre Imi Jbmre all'ulta Miniagli ili votare. Vuoimi Ift p. 3723, m«. 

•) Tutti tro qncstl participii ili plnsii anno romprnrnti con nsnni]ii, 
e non d» mi» oongetturuM. Vedi ForcetHni i» olwwnuo ili io™, o lo pinta. 



(2930-2931-2932) PENSrEKi ^ 

■ litum antiqui frequentili» usurpabant quam nunc non 
Uiùìmus., (2931) infatti pistilhm, pistor, pistrinum e 
quasi tutti i derivati di pinco vengono dal supino o 
participio pistum o pistus. Ora, secondo Festo, al suo 
tempo questo participio o supino molto visitato dagli 
antichi era poco frequentato. Egli vuol certo dire nel 
linguaggio polito e nella scrittura. Ma eccovi che il 
volgo latino e il parlar familiare conservava l'uso antico 
e conservollo sino all'ultimo, giacché nelle lingue figlie 
della latina non resta quasi (dico quasi per rispetto al 
vorbo pisarec. di cui qui sotto) del vef So pitièere altro 
che quello che appartiene al suo participio pUtu», cioè 
'mesto, piMo, italiano o spaglinolo, pestare, pestdlo ec. E 
il verbo pestare o pistare che sembra ossero sottentrato 
ne' bassi tempi all'originalo pinser», nel luogo del 
quale ci si conserva fra gì' italiani ancho oggidì, fu for- 
mato allora da pishis, o s' ei fu proprio anche degli an- 
tichi latini, certo è eh' egli si conservò nelle bocche del 
volgo o nel parlar familiare, andando in disuso e to- 
tale dimenticanza il verbo pinso, al contrario di quello 
che (2932) sembra dir Festo, o che si potrebbe ragione- 
volmente raccogliere dalle di lui soprascritte parole 
chi non sapesse i fatti. 

fitta» '), ondo pistare, è formato evidentemente dal 
regolare e primitivo pinsitus, toltagli la n, onde pisi- 
tus. e contratto questo in pistus, come posìtus, repo- 
situs oc. in postus, repostus. E vedi lap. 2894. Ora, come 
da pinsitus pisifus e pistus, tolta la n, cosi da pinsus, 
altro participio irregolare di pìnso, del qual participio 
altresì s' hanno parecchi esempi (vedi fornellini in pino- 
so, fine, e pinsus), fu fatto, secondo me, pisus, e da que- 
sto, siccome da pistus pistare, viene il verbo pisare, il 
quale conseguentemente e secondo questo discorso è un 
continuativo di pinsere, appunto come pistare, e come 
forse pinsitare. Se a questo discorso avessero posto mente 
quelli che appresso Varrone e Plinio sostituiscono il 

') Veggasì In p. 3035, aegg. 



pensieri. (2932-2933-2934) 



vorbo pinsere al verbo phuire (o pisere, di cui poscia), 
riconosciuto pur da Diomede, e letto ancora da taluni 
appresso Persio (2933) (vedi Porcellini in pìnso, fine), 
non avrcbboro l'orso pensato a bandire questo verbo. E 
meno ancora lo avrebbero fatto se avossoro osservato 
questo medesimo verbo pisare appresso un anonimo, de 
re archUentonitzt, il quale non ho ora tempo d'investigar 
chi sia, so non è l'epitomatore di Vitruvio, ma c^rto 
al suo stile non par troppo reconte, e vedi il suo passo 
nel glossario in Pisare. E meno so avessero guai-dato 
allo spagnuolo pisare (calcare, cal-pesfore) e all' ita- 
liano pigiare, ch'è il medesimo : o se in quel luogo di 
Vairone Jteum et uvarn passanti cum pisenmt, dov'essi 
ripongono pinserimt, avessero osservato l'evidente con- 
formità con lo solenni frasi vernacolo pittar las uvas, 
pigiar le, uve. E cosi se avossoro posto monte al sostan- 
tivo fiìso onìa, derivante da pisare o certo da pinna per 
pinaua, il qual sostantivo trovasi appresso il Porcel- 
lini e nel citato anonimo appresso il glossario e nello 
spagnuolo pison, onde piaonar ec. Vedi ancora nel 
Porcellini in pinso il luogo di Varrone 1. 1, R. R., c. 63, 
con quel che n' ei dico : e il vocabolo PisaHo , dove 
non lodo quei che leggono spissaUone. (2934) 

In luogo di pisare trovasi, o pili spesso, pisere. 
Intorno a questo veramente avrei i miei dubbi, e 
credo più ragionevoli dì quello de' sopraddetti che 
leggono sempre pinsere. Voglio dire che a me non par 
da nogare l'esistenza di quel verbo derivato da pwi- 
aere, ma mi par da dubitare circa la sua coniuga- 
ziono, e forse da non concedere ch'ei sia della terzo, 
e dovunque si trova pisere da ripor pisare. Il qnale 
ed è più regolare secondo la nostra teoria do' conti- 
nuativi, ed è comprovato dal glossario e dal verna- 
colo spagnuolo e italiano (giacché per puro accidonto 
e vezzo di pronunzia noi diciamo pigiare in luogo 
di piiare. ch'è lo stesso, e che certamente si dice in 
qualche dialetto o provincia d'Italia, come, io credo, 



87 



nel veneziano), ed è confermato dalle altre conside- 
razioni addotte di sopra. 

In ogni modo il verbo pi-vere detto in vece di 
kisare sarebbe un continuativo anomalo di p insere; 
sia che anche pimre esistesse nell'antico latino, e da 
lui por corruzione fosse fatto pisere., come forse nexerc. 
da nexare (vedi p. 2821); sia che pisere fosse fatto 
(2935) a dirittura da pisus-pinsus di pitmre prima 
di pisare e in luogo di questo (come visore per visure, 
da video-visus) e che questo non sia stato mai nel- 
l'antico o nell'illustre ma solo nel basso o nel rustico 
latino (fatto da pisere o a dirittura da pintore) , e 
quindi no' moderni vernacoli; o sia finalmente cho 
hisere e pisare esistessero ambedue quando che sia 
contemporaneamente, ma indipendentemente l'uno dal- 
l' altro per rispetto all'origine. E vedi a questo pro- 
posito di continuativi anomali spettanti alla terza la 
p. 2885. 

Pisare, considerato come appartenente a pìnsere 
(la qualo appartenenza e parentela, qual ch'ella si vo- 
glia che sia, chi la può mettere in dubbio?) potrebbe 
anche riferirsi a quella categoria di cui p. 2813, segg. 
e 2930. Ma lo addotte ragioni mi persuadono piuttosto 
ch'esso appartenga dirittamente alla classe degli or- 
dinarli continuativi. Forse piuttosto alla sopraddetta 
categoria potrebbe appartenere pìnèo as, se questo verbo 
fosse pur vero, del che vedi il Porcellini in pinso 
(IO loglio 1823). 

* Cespicare, incespicare, incespare. Vedi il Porcel- 
lini in Caespiiator e il glossario in Compitare (10 
luglio 1823). (2936) 

* Le cose eh' esistono non sono eertamente per so 
né piccole né vili : né ancho una gran parte di quelle 



') Quantunque il Porcellini non ni rloonosce o non la esprime, e Fa 
derivai' /Uso U od anclio, a quel olio pare, pìso as elnl greco ittictuu. 



i>ensikiu (2936-2937; 

l'atto dall' uomo. Ma osse e la grandezza o le qualità 
loro sono di un altro genere da quollo che l'uomo 
desidererebbe, che sarebbe, o eli' ei pensa esser neces- 
sario alla sua felicità, ch'egli s'immaginava nella sua 
fanciullezza e prima gioventù, e eh' ei s' immagina an- 
cora tutte le volto ch'ei s'abbandona alla fantasia e che 
mira le cose da lungi. Ed essondo di un altro genero, 
benché grandi, e forse talora più grandi di quello che 
il fanciullo o l'uomo s'immaginava, l'uomo né il fan- 
ciullo non ne è giammai contento ogni volta elio 
giunge loro dappresso , che le vede, le tocca., o in 
qualunque modo no fa sperienza. E cosi le cose esi- 
stenti, e niuna opera della natura né dell'uomo, non 
sono atte alla felicità dell' uomo (10 luglio 1823). 
Non oh' olio sieno cose da nulla , ma non sono di 
quella sorta cho l'uomo indeterminatamente vorrebbe, 
e ch'egli confusamente giudica, prima di sperimen- 
tarlo. Cosi elleno son nulla alla felicità doli' uomo, 
non essendo un nulla por so medesime. E chi potrebbe 
chiamare un nulla la (2937) miracolosa e stupenda 
opera della natura, e l'immensa egualmente che arti- 
ficiosissima macchina o mole dei mondi, benché a noi 
por verità ed in sostanza nulla, serva ? poiché non ei 
porta in uhm modo mai alla felicità. Chi potrebbe 
disprezzare l'immensurabile e arcano spettacolo del- 
l'esistenza, di quell'esistenza di cui non possiamo 
nemmeno stabilire né conoscere o sufTìciontomente im- 
maginare né i limiti, né lo ragioni, né le origini ; 
qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo por la 
umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della 
esistenza o della vita delle cose, benché né l' esistenza 
e vita nostra, né quella degli altri esseri giovi ve- 
ramente nulla ìi noi, non valendoci punto ad esser fe- 
lici ? ed essendo per noi 1' esistenza cosi nostra come 
universale scompagnata dalla felicità, eh' è la perfe- 
zione o il fine dell' esistenza, anzi l'unica utilità che 
V esistenza rechi a quello eh' esiste ? o quindi esi- 



88 



(2937-2938-2939) t'BNSffitU 

stendo noi o facendo parte della università della osi- 
itenga, senza niun frutto per noi ? Ma con tutto ciò 
come possiamo chiamar vile e nulla quell'opera di cui 
non vediamo (2938) né potremo mai vedere nemmeno 
i limiti? né arrivar mai ad intendere né anche a suf- 
liciontemente ammirare l'artifizio e il modo? anzi nep- 
pur la qualità della massima parte di lei? cioè la 
qualità dell'esistenza della più parte delle cose com- 
prese in essa opera; o vogliamo dirla massima parte 
di esse cose, cioè dogli esseri eh' esistono. Pochissimi 
de' quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, 
son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo, 
anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e 
maniere occulto dell'esistenza che noi non conosciamo 
né intendiamo punto, noppur quanto agli esseri che 
meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra spe- 
cie e al nostro proprio individuo (10 luglio 1823). 

* Questo eh' io dico dolio opere della natura dicasi 
oziandio proporzionatamonte di molto o grandi o bello 
o per qualunque cagione notabili e maravigliose opere 
dogli uomini, o siono materiali, o appartengano pura- 
mente alla ragione; o di mano o d'intelletto o d'im- 
maginativa; scoperte, invenzioni, scienze, specula- 
zioni ec. ce; (2939) discipline pratiche o teoriche; 
navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni d'ogni 
genere, opere d'arte ec. ec. (11 luglio 1823). 

* Dalle 1 unglie considerazioni da me fatte circa 
quello che voglia significare nella Genesi l'albero 
dolla scienza ec, dalla favola di Psiche dolla quale 
lio parlato altrove, e da altre o favole o dogmi ec. 
antichissimi, elio mi pare avere accennato in diversi 
luoghi, si può raccogliere non solo quello che gene- 
ralmente si dice, che la corruzione e decadenza del 
genere umano da uno stato miglioro sia comprovata 
da una remotissima, universale, costante c continua 



90 



rjiNsiEiu 



tradizione, ma ohe eziandio sia comprovato ,d& mia 
tal tradizione e dai monumenti della più antioa storia 
o sapienza, olle questa corruttela e decadimento del 
genere umano da uno stato l'olioo sia nato da] sapore 
e dal troppo conoscere, e che l'origina della sua in- 
iblioità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, 
e il troppo uso della ragiono. E pare che questa ve- 
rità fosse nota ai più antichi sapienti, e una (2940) 
delle principali e capitali fra quelle che essi, forse 
come pericoloso a sapersi, ominziavano sotto il velo 
dell'allegoria e coprivano di mistero e vestivano di 
finzioni, o si contentavano di accennare confusamente 
al popolo; il quale ora in quei tempi assai pili di- 
viso per ogni rispetto dalla classe do ! sapienti, ohe 
oggi non è: onde nasoova l'arcano in cui dovevano 
restare quei dogmi eh' essondo sempre proprii do' soli 
sapienti , non erano allora quasi por niun modo co- 
municati al popolo, separato affatto dai saggi. Oltre- 
ché in quei tempi l'immaginazione influiva e dominava 
cosi nel popolo, come anche noi sapionti medesimi, 
onde nasceva che questi, eziandio senz'aldina inten- 
zione di misteriosità, e sonz' alcun secondo line, ve- 
stissero lo verità di figure, e le rappresentassero altrui 
con sombianza di favole. E infatti i primi sapienti fu- 
rono i poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si ser- 
virono dolla poesia, e le prime verità furono annun- 
ziate in versi, non, cred' io, con espressa intenzione 
di velarlo e farle poco intelligibili, ma perché esso 
si presentavano (2941) alla inente stessa dei saggi 
in un abito lavorato dall' immaginazione, e in gran 
parte erano trovato da questa anzi che dalla ragione, 
anzi avevano eziandio gran parte d' immaginario, spe- 
cialmente riguardo allo cagioni ec, benché di buona 
fede credute dai sapienti cho lo concepivano o annun- 
ziavano. E inoltro per propria inclinazione e per se- 
condar quolla degli uditori, cioè de' popoli a cui par- 
lavano, i saggi si servivano della poesia e della 



Sii 

(2941-2942) pensieri __• J1 

favola per annunziar le verità, benché ninna inten- 
sione avessero di renderle méomnaiasabkn (11 Mgiio 
1823), 

*11 principal difetto della ragione non ò, come si 
àicé, di essere impotente. In verità ella può inolta- 
Umo e basta per accertarsene il paragonare 1 amino 
o V intelletto di un gran filosofo con quello di un 
Llvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo filo- 
sofo avanti il suo primo uso della ragione: e cosi il 
paragonare il mondo civile presente s, materiale ohe 
morale, col mondo selvaggio presente, e più col pn- 
! mitivo. Ohe cosa non può la ragione umana nella spe- 
culazione? Non penetra ella fino all' essenza delle cose 
che esistono, ed anche di se medesima V non ascende 
fino al trono di Dio, e non (2942) giunge ad analiz- 
zare fino ad un corto segno la natura del sommo Ls- 
Lre 9 (vedi quello che ho detto altrove in questo pro- 
posito). La ragione dunque per se, e come ragione 
non è impotente né debole, anzi, per facoltà di un 
ente finito, è potentissima; ma ella e dannosa, ci a 
rende impotente colui che l'usa, e tanto P iu quanto 
maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il 
suo potere scema quello di chi l' esercita e la possiede, 
e più ella si perfeziona, più l'essere ragionante di- 
viene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nu a 
tutti eli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla 
il K rande, il hello, e per cosi .dir la stessa esistenza, 
è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto pru 
impiccoliscono quanto ella cresce; e quanto e mag- 
giore la sua esistenza in intensità e in estensione, 
tanto V essere dello coso si scema e restringe od ac- 
costa verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede 
poco. In effetto la sua vista si stonde quasi m infi- 
nito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto ma essa 
vista ha questa proprietà, che lo spazio e gli oggetti 
lo appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stendo 



VKXKIKHJ 



(2943) e quanto meglio o più finamente redo. Ook| 
oh' ella, vede sempre poco, e in ultimo nulla, non por- 
eli' olla sia grossa o corta, ina perché gli oggotti e lo 
spazio tanto più le mancano quanto olla più n'ab- 
lìraccia, e più minutamente gli scorge. Cosi ohe il 
poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione, 
(benché gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualun- 
qu' altra posa, eccetto solamente ch'alia ragione). Per- 
ciocch'ella per se può vedere assaissimo, ma in atto 
ella tanto meno vedo quanto pili vede. Vede però 
tutto il visibile, e in tanto in quanto osso è e può 
mai esser visibile a qualsivoglia vista (11 luglio 1823). 

* Come gli antichi riponessero la consolazione, an- 
che della morto, non in altro che nella vita (del che 
lio detto altrove), e giudicassero la morte una sven- 
tura appunto in quanto privazion della vita, e che il 
morto fosse avido della vite o dell' azione, e prendesse 
assai più parte, almeno col desiderio e coll'interosse, 
alle cose di questo mondo che di quello nel quale 
stimavano pure eh' egli abitasse e dovesse eterna- 
mente abitare, e di cui lo stimavano divenuto per 
sempre un membro, si può vedere ancora in quell'an- 
tichissimo costumo di onorar V esequie e gli anniver- 
sarii ec. di (2944) un morto coi giuochi" funebri. I 
quali giuochi erano le opere più vivaci, più forti, più 
energiche, più solenni, più giovanili, più vigoroso, 
più vitali che si potessero fare. Quasi volessero in- 
trattenero il morto collo spettacolo più energico della 
più energica o florida e vivida vita, o credossero che 
poich'egli non poteva più prender parte attiva in 
essa vita, si dilottasse e disannoiasse a contemplarne 
gli effetti o l'esercizio in altrui (11 luglio 1823). 

:,: Ondano che la poesia dobba esserci contempo- 
ranea, cioè adoperaro il linguaggio e lo idee e dipin- 
gere ì costumi, e fors' anche gli accidenti de' nostri 



(2944-2945-2946) ^pensieri _ 

tempi. Onde condannano l'uso delle antiche finzioni, 
opinioni, costumi, avvenimenti. Puoi vedere la p. 3 1 52. 
la io dico ohe tattf altro potrà esser contempora- 
neo a questo secolo, fuorché la poesia, (-omo può il 
poeta adoperare il linguaggio o seguir le idee e mo- 
strare i costumi d'ima generazione d' uomini por cui 
la gloria è un fantasma, la libertà, la patria 1 amor 
patrio non esistono, l'amor vero o una (2945) fan- 
ciullaetrine, e insomma le illusioni son tutte svanite, 
?«2K non solo grandi e nobili e belle, ma u te 
lo passioni estinte? Come può, dico, ciò fare, ed es- 
ser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni, senza 
passioni, sono termini che reggano m logica Un 
poeta in quanto poeta può egli essere egoista e me- 
tafisico? e il nostro secolo non ò tale caratteristica- 
mente? come dunque può il poeta essere caratteristi- 
camente contemporaneo in quanto poetai 

Osservisi ohe gli antichi poetavano al popolo o 
almeno a gente per la più parte non dotta non filo- 
sofa I moderni all'opposto; perche i poeti Oggidì 
non hanno altri lettori che la gente colta e istruita, 
e al linguaggio e all' idee di questa gente vuota che 
U poeta si conformi, quando si dice eh' ei debba es- 
ser contemporaneo, non già al linguaggio e alle ulte 
del popolo presente, il quale delle presenti ne de, c 
antiche poesie non sa nulla nó partecipa in conto al- 
cuno Ora ogni uomo cólto e istruito oggidì o im- 
mancabilmente egoista e filosofo, privo d'ogni nota- 
rlo illusione, spoglio di vive passioni; e ogni donna 
altresì. Come può il poeta essere per (2946) carattere 
e, ner ispirito contemporaneo e conlorme a tali pel- 
sene in quanto poeta? che v'ha di poetico in esso, 
nel loro linguaggio, pensieri, opinioni, inclinazioni, 
affezioni, costumi, usi e fatti? che ha o ebbe o po- 
trà inai aver di comune la poesia con esso loro? 

Perdóno dunque so il poeta moderno soglie le cose 
antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la ma- 



™ PKKsram (2946-2947) 

niera antica, so usa eziandio ]e antiche favolo eci se 
mostra di accostarsi allo antiche opinioni, se prefe- 
risce gli antichi costumi, usi. avvenimenti, so im- 
primo alla sua poesia un carattere d'altro secolo, so 
cerca insomma o di essere, quanto allo spirito o' al- 
l' indole, o di parere antico. Perdóno so il poeta, so 
la poesia moderila non si mostrano, non sono contem- 
poranei a questo secolo, poiché esser contemporaneo 
a questo secolo è, o inchiude cssenzialniento, non es- 
ser poeta, non esser poesia. Ed ei non si può ossero 
insieme e non essere (11 luglio 1823). E non è con- 
veniente a filosofi e ad un secolo filosofo il richieder 
cosa impossibile di natura sua, e contraddittoria in 
se stossa e ne' suoi propri termini (12 luglio 1828) 
(2947) 

* Intentare latino da intendo, onde il francese in- 
terrier e quello cho noi pur diciamo intentare, un'ac- 
cusa, un processo e simili. Vedi il glossario Gang. Par- 
ticipio ìntentatus. Intentare do' nostri antichi (vedi la 
Crusca in intentare e intentatone) e intentar spaglinolo, 
da tento colla preposizione in e vaio lo stesso cho ten- 
tare. Questo composto, tutto alla latina, ma tutto di- 
vorso dall'altro intentare, sopraddetto, io lo credo ve- 
nuto, se non altro, dal latino volgare, poiché m' ha 
sapor di vera latinità, o non mi riesce verisimile cho 
sia stato croato nolle lingue vornacolo, pochissimo 
usate a crear nuovi composti con preposizioni, il qual 
uso è tutto greco e latino. Participio intentato, ìntmi- 
tado o ìntentatus, cioè tentata» (similmente Mento, 
so questa voco è vera, Viene da ób-tineo, laddovo 
ostento da ost-tendo, anticamente ohs-lendo |vedi la 
p. 299G|). Diverso da questo è l'altro participio in- 
tentatm che significa il contrario, cioè non tentati/», 
fatto non colla proposizione in, ma colla particella 
privativa del medesimo suono in, il quale participio 
noi pure l' abbiamo e viene ad essere un terzo parti- 



(2947-2948-2949) pessiriu ___ ^ 

Sio W diverso por origine e per significo 
feènohé di suono m ogni cosa conforme ed uguale 
dei duo sopraddotti. Similmente inavMus, ed 

2948Ì alt» tali, vagliene non ««.dito, non metus, ed 
SS l'òppoV, cioè sue**, auWà* da « « od 

itó/dio (12 luglio 1823). 

.Quanto nnrabile sia stata l'invenzione delFalfe- 
beto, oltre tutti gli altri rispetti e modi, Si può anc he 
X questa via facilmente considerare E cosa osscr- 
lE n « non pensa se non parlando fra se o col 
STo d, una lingua; che le idee sono attori 
parole: che quasi ninna idea sarebbe o mW» « 
chiara se l'uomo non avesse, o quando e 
parola da poterla esprimere non mono a se stesso ohe 
S altri, l che insomma l'uomo non concepisce «« 
idea chiara e durevole se non per messo dell* parola 
eerrispondonte, né arriva mai a perfettamente e d - 
stintamente concepire un'idea, ansi neppure , a deter- 
minarla «ella sua mente in modo ch' ella Sia divisa 
dall'altre, e divenga idea, oscura o chiara che s a ne 
i fissarla in modo eh' ei possa richiamarla, npren 
«lerla. raffigurarla nella sua mente e seco stesso quando 
che sia- non arriva, dico, a far questo mai, finch'ogh 
ZI (2949) ha trovato il vocabolo con cui possa si- 
non . n* legandola e incastonandola; 

enificar questa idea, quasi ìegauuui» .«.'j 

l 9itt vocabolo nuovo o nuovamente WBj^^" 
è nuova, o s'egli non conosce la parola con un g i 
STa eBpri 0 ' 0 sia questo medesimo vocabolo 
cho gli altri usano a significarla. 

Tutto ciò La luogo in ordin a, suoni .^ff" 
della favella, per rispetto all'alfabeto. L'alfabeto e la 
Wua col cui messo noi concepiamo o determiniamo 
pres o no medesimi l'idea di ciascuno dei detti suoni 
Queg che non conosce l'alfabeto, parla, ma non ha 
veruna idea degli elementi che ,«™W£v et ma 
da lui profferito. Egli ha ben l'idea della favella, ma 



m PEKStìSHi (29+9-2950-295 lì 

non ha per niun conto le idee degli elementi che la 
compongono: siccome infinite altre idee hanno gli 
uomini, degli elementi e parti dello quali non hanno 
veruna idea né chiara né oscura che sia separata 
dalla massa dell'altre: o questo appunto è il pro- 
gresso dello spirito umano; suddivider lo idee, e con- 
cepir l'idea delle parti e degli elementi delle mede- 
simo, conoscere (2950) che quella tale idea eh' egli 
teneva por semplice, era composta, o scompor quella 
idea oh' era stata semplice per lui finallora, o scom- 
postala concepir l'ideo delle parti di essa, sia di tutte 
lo parti, sia d'alcuna. Me altro è por l'ordinario una 
nuova idea, ') elio una porzione d' idea già posseduta, 
nuovamente separata dalle altre porzioni della mede- 
sima, e nuovamente determinata in modo eh' ella sus- 
sista da se, e sia idea da so, o da so si concepisca. 

Or questa determinazione si fa col mezzo della 
lingua, cioè con un vocabolo nuovo o nuovamente ap- 
plicato. E non è difficilissimo il farlo, perocché la 
lingua è già trovata e posseduta, e l'uomo ha chiaro 
idoe degli elementi elio la compongono, cioè de' vo- 
caboli, e facilmento si aggiunge alle cose trovato. 

Ma por determinare gli elomenti della voce umana 
articolata, l'unica lingua, come ho detto, è l'alfabeto. 
Or questa lingua non era trovata ancora, e niuna 
idea so ne aveva. Quindi niun mozzo (2951) di deter- 
minare presso se stesso lo idee degli elementi di 
dotta voce: o quindi infinita difficoltà di concepir 

') Parlo di quollft ideo elio avanzano decisamente lo spli ito ninnilo 
l' Intelletto. Avvi molte idee nuovo ohe non non tali se noli porcile nuo- 
Ito oomposta «'altro iiloo già noto (al contrario aeljo ideo nuovo «li 
«ni qui Sl parlo), Ma queste appartengono 1 jt piti parto all' immagjiiajiio- 
no.o spetta ni poeta di procurarcele. K I' intelletto non ci guadagno Altro 

nuovo idi» vengono dirittamente dui sensi , quando vedlnm nllamo ec 

0080 non p.ii veduto o udito, le quali idee non si l>"" ora determinare 

' siano più aempllel e quando più composte delle gin postini-' Mn 

questo nuove ideò non derivano dall' Intelletto, del quale adesso r lo- 

iiiauto. 



,2951-2952-2953) vmm:M 



07 



Ài fissarle nella pròpria mento; cioè <ti 

suono CU noswa vu^, istruito 
■ Ma Buppon.hia.no corno ho detto - , 

dell'alfabeto, ^^J^X^ veruna idea 

f ?f 1 Se I ne FO ente stato di cose un uomo, 
(B 1 e possibile ohe ne P con {'„ sa idea possegga 

lanche ignorante, niu. a lontana e ew U 

ititi .ifabetoì comandiamogli eh egli aa. &e vm 

tali parti 81 1' una dall' altra. A. ogni modo 

concepire distintamente 1 una . ^ 

dopo tutto questo ideo ^^f^^, B i 
prandio diffidi! passi ve.so 1 >JW»JJ modo rin . 
|oò q- S i certamente credere eh eg m ^ ^ 

.eira né a trovare e OO^P^.^ ^ uando anche 
compongano il «nono della ^^"MgJ ^ 
trovasse e ^ - gjj**. q for _ 

vele di questi j^gRl di loro, non ' 

mare appo se stesso 1 * « rappresentarli di- 
avendo i ^^^SSfeS sue proprie 
stintamente a se stesso e miel - 0 che siccome 

idee, né formerà per nini, modo ! pei W)oli 
P^eidee si ^^^SX-i vocaboli si 



LBWAMM. - 7'ffimwri, V. 



98 



>BNS1E»1 



(2953-2954) 



colla monto. Imperciocché questo appunto è quello che 
noi facciamo, senz'avvedercene: rapportiamo ciascun 
suono elementare al corrispondonte carattere dell'alfa- 
beto e por questo mezzo no concepiamo chiaramente e 
determinatamente l' idea distinta e separata, sempre 
che ci occorra, e la richiamiamo e riprendiamo u pia- 
cer nostro. Cosi facciamo dell'altre idee rispetto alle 
parole. 

Ed è notabile che in questo secondo caso noi 
rapportiamo 1' oggetto della nostra idea alla parola 
che lo signìlica, o pronunciata o scritta. Gli uomini 
avvezzi alla lettura sogliono per lo più rapportarsi al 
vocabolo scritto, e concepir tutt' insieme l'idea di cia- 
scuna cosa, dol vocabolo che lo significa e della for- 
ma materiale in eh' egli si scrive. Vedi pag. 3008. 
Ma gì' illettorati e i fanciulli si rapportano semplice- 
mente al vocabolo pronunziato, e ciò basta a concepire 
1 ! idea determinata e chiara di qualsivoglia cosa il cui 
vocabolo si conosca, o di qualsivoglia vocabolo il cui si- 
gnificato l)on s'intenda. Perocché ciascun vocabolo anche 
(2954) semplicemente considerato nella sua profferenza. 
nella qual solamente possono considerarlo gl' illetterati j 
ha tanto corpo, epor cosi dire persona, e tanta consistenza, 
che basta a ferire i sensi, e quindi essere ritenuto nella 
memoria, e distinto col pensiero dagli altri vocaboli. 

Il che non accade circa i suoni della voce. Pe- 
rocché osso suono ò il vocabolo di se medesimo; e 
quindi 3' idea del suono e del vocabolo che lo significa 
essendo una cosa stessa e non potendosi l'uno riferire 
all' altro, la mente non è in vcrun modo aiutata dal 
linguaggio a concopire determinata monte e ritenere e 
richiamare a suo talento le ideo d' essi suoni distinte 
1' una dall' altra. Vero è che non potendosi profferir 
da sé se non le vocali, tutti gli altri suoni hanno presso 
noi una sorta di nome, che non è propriamente esso 
suono nudo ; come hi ci sono nomi di h e. E nello 
antiche lingue ciascun suono, ancho vocale, portava un 



(2954-2955-2956) pensieri 



99 



suo pi'oprio nome arbitrario o di convenzione (come 
son le parole, o vogliam dire come i nomi d' ogni al- 
tra (2955) cosa), il qnal nome ora più distinto clie tra 
noi da esso suono nudo, onde si può dir ohe in quelle 
lingue i suoni della favella avessero i loro vocaboli di- 
versi dall' oggetto, siccome 1' avevano gli altri oggetti ; 
che il linguaggio aiutasse il pensiero anche circa i 
dotti suoni, o che la nuda idea de ? medesimi avesse 
dove appoggiarsi e a che riferirsi anche fuori della 
scrittura c dell'alfabeto scritto, cioè i nomi conventizi 
ed imposti dei detti suoni, e l'alfabeto pronunziato. Per 
esempio, àtkf, beth, ghimM, alfa, beta, gamma, iota, età 
erano nell'ebraico e noi greco i uomi proprii de' suoni, 
diversi da' medesimi suoni. 

Contuttociò, se non agli antichi, certo ai moderni si 
può considerar come quasi impossibile di concepir chia- 
ramente e precisamente , ritener costantemente e ri- 
chiamar facilmente lo idee di ciascun suono elementare 
della favella, delle qualità proprie di ciascuno e della 
loro scambievole diversità, senza la cognizione doli' al- 
fabeto scritto. (2956) Né credo che si possa allegare 
esempio di chi possegga o abbia posseduto distinta- 
mente e perfettamente queste tali idee nel modo e 
colle condizioni eh' io dico, senza conoscere i caratteri 
che le significano e rappresentano. Vale a dire non 
credo che alcuno abbia mai avuto e ritenuto, abbia e 
ri l unga la chiara, determinata e distinta idea di cia- 
scun suono, senza poterlo riferire al rispettivo cai-at- 
tero dell' alfabeto, ma rapportandolo solamente al suo 
vocabolo, e non rapportandolo a cosa alcuna, ma 
considerandolo col pensiero solamente in se stosso, e 
tenondolo semplicomente per se stesso. Non lo credo, 
dico, di alcuno, e neppur degli antichi, i quali tengo 
per fermo che nel!' imporre i nomi che imposero ai 
suoni, avessero tu t,t' altro intento e motivo, ') che quello 

') Notisi elio i nomi Halle lettoni imrniclio (onde derivano quoi 
Mio Jireulie, die in greco non significano niente) hanno tulli nnasignifli 



100 



l'KNSlKILl 



(.2956-2957-2958) 



di aiutai- con ossi nomi il pensiero, e di far oh' ossi 
suoni si potessero insegnare separata monte dall' alfa- 
beto scritto, ed esser saputi, conosciuti distiri tamonto 
e costantemonto ritenuti da quelli che non conosces- 
sero i caratteri né potessero in uhm modo Wgtìr©. 
Certo i fanciulli (2957) oggidì non prima imparano a 
distinguerò i suoni del proprio lor favellare che ad 
intendere i caratteri che li significano, ne la distilli a 
cognizione e idea di quelli è nolle nienti loro por alcun 
tempo scompagnata dalla cognizione e dalla idea di 
questi. 

Per le quali ragioni io dissi di sopra (p. f!953j 
che noi colla nostra mente rapportiamo sempre cia- 
scun suono elementare della favella al corrispondente 
carattere dell'alfabeto, quante volto concepiamo nella 
monte nostra la distinta idea di qualsivoglia dei detti 
suoni; e non dissi al nome o vocabolo de' medesimi. 

Con queste considerazioni fra l'altre, e per questa 
via, si può facilmente comprendere e sentire die l'in- 
venzione dell'alfabeto fu. si può diro, cosi difficile ed 
è cosi maravigliosa come fu od è l'invenzione della 
lingua. Perocché quel medesimo clic dee farci maravi- 
gliare intomo alla lingua, cioè conto sionosi potute 
Avere idee chiare e distinte senza 1' uso delle parole, 
e come inventar (2958) le parole senza avere idee 
chiare e distinte alle quali applicarle, questa mede- 
sima meraviglia ha luogo in proposito dell'alfabeto. 
Potendosi appena concepire corno questo abbia potuto 
preceder lo ideo chiare e distinte do' wuoiii elemen- 
tari, o come tali ideo abbiano potuto essere innanzi 
alla cognizione de' segni cho li figurano. Ondo si può 
applicare all' alfa boto quel detto di Rousseau, il quale 



idiomi Uidlpbadoiite allatto ilul animo dulia rlspottiva lotterà e son pa- 
nila Julia lingua, nò lanino religione alcuna tra loro, nò oolhi rispetliTJI 
lettoni altio elio H cbmlnolnre appunto per orna, conio tiììf dottrina, brth 



101 



confessava che nella considerazione della lingua e 
nello investigare e spiegare l' invenzione della mede- 
sima, trovavaai in grandissimo imbarazzo, perché non 
sembra possibile una lingua formata innanzi a una 
società perfetta, né una società quasi perfetta innanzi 
all'uso d'una lingua già formata e matura. 

Anzi, a rispetto doll'alfaboto, cresce sotto un certo 
riguardo la meraviglia. Porche ideo chiare e distinte 
d'oggetti sensibili o sensibilmente distinti gli uni 
dagli altri si poterono avere anche senza l'uso dolle 
parole, e trovate lo parole a signilicar questi oggetti 
si potè col mozzo dello similitudini e dolle metafore 
(principale (2959) strada per cui tutte le lingue si 
accrebbero) nominare eziandio gli oggetti meno sen- 
sibilmente distinti fra loro, e quindi i meno sensibili, 
i meno chiaramente concoputi, e finalmente gì' insell- 
ai l>i li o gli oscnrissiini; e trovare il modo di signifi- 
carli. Ma questa scala non ebbo luogo in ordino al- 
l'alfabeto, che ó, come ho detto la lingua significante 
i suoni elementari. Tutti questi, benché cadano sotto 
i sensi, sono tuttavia cosi confusi, legati, stretti, in- 
corporati gli uni cogli altri nella pronunzia della fa- 
vella, cosi lontani dall'essere in modo alcuno sensi- 
bilmente, distìnti, e la loro diversità scambievole è 
Cosi difficile a notare, eh' ella è quasi fuor del domi- 
nio de' sensi, e la difficoltà di concepire l' idea chiara 
e distinta di ciascuno di loro senza i sogni, e di tro- 
varne i scoili senz'averne concepii to lo chiare e distinto 
idoo, non è qnasi aiutata da verun rispetto, né fu po- 
tuta vi ncoro gradatamente, ma quanto alla parte prin- 
cipale e alla somma dell'invenzione, essa difficoltà 
tu dovuta necessariamente vincere tutta in un tratto. 
Questa (2960) invenzione, por dirlo brevemente, ap- 
parteneva tutta ali 1 analisi ; è di natura sua tutta 
Opera ed ottetto di questa; richiedeva essenzialmente 
la risoluzione negli ultimi e semplicissimi elementi, 
le quali cose sono appunto le più difficili all'umano 



102 



PENSIERI 



(296Q-29G 1-2962) 



intelletto e le ultime operazioni eli' egli soglia giun- 
gere li l'aro (12-14 luglio 1823). 

* Supponete un cieco nato al quale una felice ope- 
razione nella sua età già matura o adulta, doni im- 
provvisamente la vista. Domandategli o considerate i 
suoi giudizi (dico giudizi e non sensazioni, lo quali 
non appartengono alla considerazione del bello esat- 
tamente e filosoficamente inteso) circa il hello mate- 
riale o il brutto materiale degli oggetti visibili che si 
presentano &' suoi occhi. E voi vedrete se quosti giu- 
dieii sono conformi al giudizio ohe generalmente si 
suol fare di quegli oggetti sotto il rapporto del bollo; 
o so piuttosto essi non sono difformissimi o contraris- 
simi, non solo nelle minuzie e nelle finezze o delica- 
tezze, ma nollo parti e nelle cose più sostanziali. Di 
ciò non mancano esperienze (2961) effettive e prove 
di fatto, perché la circostanza eh' io ho supposta non 
manca di esempi reali. 

E il cieco nato, restando cicco, quali idee conce- 
pisce egli della forma umana e di quella degli altri 
oggetti ch ! ei può pur conoscere per mezzo dol tatto? 
quali idee circa la loro bellezza o bruttezza? crediamo 
noi che queste idee, questi giudizi eh' ei forma con- 
vengano collo ideo e co' giudizi degli uomini elio veg- 
gono? e che sovente non sieno contrarissime a que- 
sto ? Ma se esistesse un bello ideale o assoluto, non 
dovrebbe il cieco nato conoscerlo, come si protende 
ch'oi conosca naturalmente e che tutti gli nomini co- 
noscano il bello morale che si crede essere assoluto, 
il qual bello inoralo niuno lo vedo, come il cieco non 
vede il bello materiale? U nollo qualità che si cre- 
dono assolutamente belle o brutte in questa o quolla 
specie d'oggetti; e massimo in quello qualità che ap- 
partengono agli oggetti che il cieco nato conosce per 
mozzo degli altri sensi fuor della vista; o più in 
qUello che appartengono alla specie umana, della (2962) 



(29G2-2963) h«sietii _ 

Lak esso medesimo cieco fa parte, non dovrebbero 
le idee ed i giudizi del cieco, in quanto egli può com- 
prenderle, convenire col giudizio e colle idee di quelli 
che veggono, circa il bello e il bratto che ne deriva 
o elio n'è composto? non dovrebbero, dico, convenire, 
almeno per ciò che spetta al so sten zi alo e al princi- 
pale'-» Laddove ciascuno di noi é persuaso eh' esse idee 
e Sriudizinon convengono eoi nostri, so non forse ac- 
cidentalmente, anzi per lo più no sono remotissimi e 
contrarissimi (14 luglio 1823). 

* [1 fanciullo, il cieco nato che abbia improvvisa- 
mente acquistato la vista, e tutti gli uomini di qua- 
lunque nazione, tempo, costume, gusto opinione, con- 
sidera la gioventù come bella in so più della vecchiezza. 
La gioventù quanto a se par bella a tatti assoluta- 
mele Kssa è por tutti una qualità bella (si considerata 
negli uomini che negli animali per la più parte, o cosi 
nelle piante e nel più deUe specie che ne sono par- 
tecipi) ec. Questo consenso universale non prova punto 
I che v'abbia una qualità essenzialmente e assoluta- 
mente bella per se medesima, o necessaria al la com- 
posizione del bello in nessun (2963) genero di cose 
giacché la convenienza non è una qualità che com- 
ponga il bello, una parte che entri nella composizione 
del bello, ma il bello consiste in ossa, essa e il bello, 
o viceversa il bello è convenienza e non altro). 

1° La gioventù si chiama bella, come si chia- 
ma bello' un color vivo. Né l'ima né l'altro mon- 
tano questo nome filosoficamente. La bellezza oro non 
è convenienza: ma il bello filosofico non e altro che 
convenienza. Quello che ci porta a chiamar bella la 
gioventù non è giudizio ma inclinatone. TI piacere 
ohe deriva dalla vista della gioventù non si perce- 
pisce per via del giudizio ma della inclinazione, e 
quindi non spetta alla bellezza. Altrimenti gli uomini 
diranno che l'esser donna assolutamente è bellezza, 



104 



MfflSimi (2963-2964-2965) 



pèrca' essi veggono con più piacore una donna elio 
nn uomo. Ma le donne diranno al contrario. Queste 
qualità non hanno a far niente col bello filosofica- 
mente definito. Esse spettano alla ennsideraziono del 
piacere che nasce dall'inclinazione, (2964) la quale 
ptìò ben essere universale in una specie, ed anche in 
tutte le speeio, perché può esser naturale e innata.. Lo 
idee son quelle che non possono essero innate. JS il 
piacore che reca la vista della gioventù è una sen- 
sazione pura, non- un' idea, né deriva da un'idea. Che 
lia dunque che faro col bello ideale? Questo non può 
essere che un'idea. Il caldo, il freddo, l' amaro, il 
dolco, che niuno chiama belli né brutti, appartengo- 
no alla categoria della gioventù. L' effetto eh' essi 
producono noli' uomo o nell' animale, in quanto esso 
effotto è attualmente piacovolo o dispiacevole, non è 
idoa ma sensazione. Dunque non è né bello né brutto. 
Cosi né più né manco 1' offetto che produce nell'uomo 
o nell' animale la vista della gioventù. Il cieco nato, 
adunque, che vedo per la prima volta una persona 
giovane e trova la gioventù piacevole a vedero, non 
prova I' effotto di niuna bellezza, ma di una qualità 
olio la natura ba fatto ossor piacevole a vedere (2965) 
come il dolce a gustare. Egli non giudica allora, ma 
sonte. Se dipoi sopra questa sensazione egli fonda e 
forma un giudizio c un' idea, come gli uomini sem- 
pre fanno, questa è venuta dalla sensazione, e non 
da un' idea innata, cioè da quella del bello elio si 
suppone ideale. Bensì quella sensazione, in quanto 
piacevole, è venuta da una qualità innata e naturale 
in quel cieco, ma questa qualità non e un'idea; essa 
e un'inclinazione e disposizione, né deriva né risiede 
né spetta punto por se all' intelletto. Nel quale, o non 
altrove, dovrebbe esistere o risiodore il bello idealo, 
s' egli osistesse. E noli' intelletto quindi debbono ac- 
cadere gli effetti del vero bello veduto, o non altro- 
ve; e da esso derivarno lo sensazioni. Ma nel caso 



105 



(2965-2966-2967) pensieri 

nostro accade il contrario. L' idoa è cagionata nel- 
l'intelletto dalla sensazione.. 

0osi discorrete del fanciullo. 11 quale neanche si 
può cosi semplicemente dire che trovi piacevole a vo- 
doro la gioventù , appena e la prima volta eli' oi la 
vede ; che gli paia, come si dice, bella assolutamen- 
te e per se, e più bella della vecchiezza, al primo 
vederla. (2966) Ho notato altrove quanto spesso una 
persona giovane gli paia e sia da Ini espressamente 
ìjivMcata bruttissima, e una persona vecchia bellis- 
sima (ancorché ella sia a tutti gli altri brutta, ezian- 
dio per vecchiaie ciò per varie circostanze. E ì soprad- 
detti effetti non hanno luogo nel fanciullo, o non 
v' hanno luogo costantemente e sicuramente, né m 
modo che non sia accidentale e di circostanza, se 
non dopo essersi sviluppata in lui la inclinazione 
naturale verso la gioventù, massime in ordine agl'in- 
dividui della propria specie; il quale sviluppo, spe- 
zialmente ne' paesi meridionali, accade noi fanciullo 
assai presto, e molto prima eh' egli sìa in grado ce. 

' Vedi l'Alfieri nella sua Vita. Accade, dico, almeno m 
parte. E audio circa il cieco nato che acquisti im- 
provvisamente il vedere, dubito molto che egli 
ne' primi momenti, e anche no' primi giorni, trovi 
assolutamente bello, come si dice, 1' aspetto della gio- 
vanezza per so medesimo, e più bello che quello della 
vecchiezza ec. Del resto, il cicco nato, restando pur 
cieco, troverà certo più piacevole, (2967) per esempio, la 
voce giovanile che la sonilo, e tutte le altro sensazioni 
che gli verranno da persone giovani, in parità di cir- 
costanze, lo troverà più piacevoli di quello che gli ver- 
ranno da persono vecchie; e l'idea eh' ogli eoncopirà 
della giovanezza, qualunque ella sia, sarà per Ini più 
piacevole e, corno si dice, più bolla che la contraria, o 
piacevole e bolla per so medesima. Ma tutto ciò sarà 
effetto della inclinazione, e non derivato originalmente 
dall'intelletto ec. 



106 l'ENSiEiu (2967-2968-2969) 

2", La gioventù non è necessaria alla composi- 
zione del bello, neppur nelle specie nollo quali essa 
ha luogo. Essa ancora è una qualità relativa, ezian- 
dio considerandola dentro i termini d' una inodosima 
specie di coso. Per esempio, parlando della specie 
umana, egli si dà un bel vecchio, nionto mono che un 
bel giovane. V'è la bellezza propria del bambino, del 
fanciullo, della età matura, dell'età senile, della de- 
crepita ancora, niente manco che quella propria del- 
l'età giovanile (vedi Senofonte, cap. IV, § 17 del Con- 
vito), in molti (2968) casi la giovinezza, ripugnando 
alle altre qualità dell'oggetto, ovvero a talo o tal 
altra circostanza estrinseca a lui relativa, ella non 
solamente non servirebbe a comporre il bollo, ma gli 
nuocerebbe, lo distruggerebbe e produrrebbe addirit- 
tura il brutto, appunto in quanto giovanezza; di modo 
che quell'oggetto sarebbe brutto ospressainontc por- 
che giovane, quel composto sarebbe brutto preeisa- 
monto in tanto in quanto la giovanezza v'avrebbe 
parte. Per esempio, gli antichi rappresentavano gli Dei 
giovani. Tali erano le loro idee, e bene stava. Ma 
oggi chi rappresentasso il DÌO Padre coli' aspetto 
della giovontù , invece della vecchiezza , questa effi- 
gie, in quanto giovanilo. sarebbe ella bella ? No, anzi 
brutta, appunto in quanto giovanilo e in quanto al- 
l'aspetto della giovanézza, perché le nostre idee e 
l'uso nostro e le qualità che la nostra immaginazione 
attribuisce a Dio Padro , ripugnano a questa qualità. 
Ancho fra gli antichi una immagine, una statua gio- 
vanile di CHove rognante e fulminante, sarebbo stata 
brutta in quanto giovanile. L forse che l'aspetto di 
Giove nelle anticlio immagini è brutto ? Anzi bellis- 
simo, ma non giovane. (2969) Nó perciò mon bollo di 
Apollo giovano, né di Mercurio pili giovano ancora, 
né di Amore fanciullo. La giovanezza in questi tali 
casi cagionerebbe la bruttezza, perché sarobbo scon- 
veniente Cosi fanno tutto 1' altro qualità nello stesso 



(2969-2970-2971) SSWSIBM 



107 



caso por la stessa ragione. Dunque la giovanezza, 
come tutte 1' altre qualità, e può essere sconve- 
niente, ed essendo, cagiona I .rutto»». Dunque ella, 
come tutte l'altre, non cagiona bellezza so non quando 
conviene. Dunque la gioventù non è cagione ne parte 
di bellezza assolutamente né per se, ma relativamen- 
te e solo in quanto olla conviene, e ciò consideran- 
dola eziandio in quelle solo spezie di cose che possono 
partecipare, e di più dentro i termini d'una medesima 
specie. Dunque la gioventù, filosoficamente ed esat- 
tamente parlando, non appartiene per se alla bellezza 
più di qualsivoglia altra qualità; e, come tatto fal- 
tre, è resa propria a formar la bellezza, non da altro 
che da una cagione a lei estrinseca e diversa, e per 
se variabilissima e incostante, cioè dalla (2970) con- 
venienza. La quale ora, ammettendo la gioventù, la 
ronde propria al detto uffizio, ora. escludendola, ve la 
rendo al tutto inabile. 

Potrà dirsi che, se non altro, la bellezza giova- 
nile è maggiore, per esempio, della senile. Potrei ri- 
sponderò ch'ella è più piacevole, ma non già maggior 
bellezza per so, non essendo maggior convenienza. Il 
fatto però è questo. L'ordine universale della natura, 
indipendentemente affatto dalla bellezza, porta che lo 
forme e le facoltà dello specie capaci di gioventù e 
di vocchiozza si trovino nella maggior pienezza con- 
veniente alla rispettiva specie e nella maggior perfe- 
zione relativa ad essa specie, nel tempo della gioventù 
perfetta di ciascun individuo. Quindi non assoluta- 
mente, ma relativamente all'ordine attuale della na- 
tura, si può dir che, per esempio, la forma dell' uomo 
perfettamente giovane è più perfetta di quella del 
vecchio, e la più perfetta di tutto quelle dello quali 
l'uomo è capace Laonde la bellezza della sua forma 
giovanile si potrà dir maggiore di quella della sonile. 
(2971) Ma questo maggioro è accidentale, e propria- 
mente non appartiene alla bellezza, ma a quel soggetto 



108 



pensieri 1.297 1 -297 2-2973Ì 



in cui eliti si colisi doni. Perocché la forma giovanile a 
cui essa bellezza appartiene è, per rispetto alla natura 
dell'uomo, e non por rispetto al hello, più perfetta 
della senile. E quindi, a parlare esattamente, nasco 
che la bellézza giovanilo dell'uomo non sia bellezza 
maggioro della senile, ma appartenente ad una forma 
elio è la più perfetta di cui l'uomo sia capace, cioè 
alla giovanile. Onde la perfezione e la maggior per- 
fezione non è qui propria della bellezza, ma del sog- 
getto a cui ella appartiene accidentalmente, cioè della 
forma giovanile dell'uomo. E però la forma giovanilo 
non può per so entrare nella composizione di quel 
che si chiama bello ideale: giacché essa forma può 
ben ossero il soggetto del bello (siccome può anche 
non essere, e spessissimo non è), ma non è già esso 
bello, e la bellezza non gli appartiene, elio accidental- 
mente od è del tatto (2972) estrinseca e diversa alla 
di lei natura. E concbiudesi che la bellezza giovanilo 
è bellezza relativamente alla forma giovanile, ma non 
assolutamente, né in quanto giovanile, dandosi bel- 
lezza scompagnata dalla gioventù, anche nella mede- 
sima specie. Sicché la bellezza giovanile è come tutte 
l'altro relativa, e non assoluta. Eelativa cioè alla 
forma giovanile. Tanto è lungi che la gioventù sia 
per se si essa una qualità bella, quando non ò che il 
soggetto della bellezza, e può esserlo e non esserlo, e 
la bellezza, può stare iu una medesima specie con e 
senza la giovanezza (14-15 luglio 1823). 

* Il toma di poto rlov' esser pò (fatto da r.r'im-mh , 
come do da iómrhiè , no da véoo-v/ù), di cui poius, come 
il toma di vaio è no, di cui natili (15 luglio lfS2ìi). 

* Prisciano riconosco il verbo Icgito da Irgo, invece 
di ledo o di lectito che pur sussistono. Questo legito 
conforma quello ch'io ho detto altrove in proposito 
di (2973) agito, cioè che gli antichi, anzi originali, 



10!> 

(2973-2974) pbnsikbi 

Copri o regolari partioipii di questi tali verbi fos- 
sero, por esempio, ayitm, legitus, docitus, onde per sin- 
cope agtus, kgtùt, e in ultimo aclus, lectus, docius. JL 
ci dimostra evidentemente l'originalo, primitivo e 
perduto participio di Ugo, cioè legitus. E non Ini elio 
fera* Cogito, come dice il Porcellini o Pnsciano 
' stesso appo lui, il quale non viene da rogUm, ma da 
Lnatus come mussito da mussatus, e come ho provato 
largamente altrove. Giacché il toma di rogito, cioè 
roao, appartiene alla prima coniugazione, e non alla 
terza corno lego, né alla seconda come > doceo , o poi o 
la formazione del suo continuativo o frequentalo e 
.soggetta a un'altra regola, da me altrove stabilita. 
Eccetto se rogo non avesse anticamente avuto un 
participio anomalo rogitus (come domo domdus), del 
olio mi pavé aver detto altrove, inducendom, in que- 
sto sospetto la voce rogito, cioè rogato (quasi un ag- 
gettivo neutro sostantivato), la qual voce e latino- 
barbara (vedi il glossario cang.) (2974) e italiana (15 
luglio 1823). 

* Urito presso Plauto, se questa voce e vera, di- 
mostra il perduto e regolare participio «ritusài uro, 
invece di ustus, ondo ustulo ee. (16 luglio 182.3). Vedi 
p. 2991. 

*AUa p 28B4. Noi abbiamo anche i positivi 
frate e suora, cioè fiatar e soror. I francesi non hanno 
che i positivi. Frogie spagnuolo, cioè frale religioso 
sembra essere un diminutivo di frater, cioè non che 
sia diminutivo in ispagnuolo, ma che sia venuto da 
fratelli o dall'italiano fratello (16 luglio 1823). "Vedi 
p. 2983, fine. 

* So la voce eruetus appresso Gelilo è vera, essa 
non si potrebbo considerare so non come mi partici- 
pio d'un verbo anteriore ad crucio, e ruoto, dai quali 



(2974-2975-2976) 



si fa ruotatila ed eructatus, conio da polo ' potatiti), e 
non potus, il qual potus dimostra un verbo originario 
di poto. Euctus un eziandio par che dimostri un vorbo 
originario di ruoto 6 di eriwto, l'ormandosi, come al- 
trove ho notato, questi sostantivi verbali della quarta 
declinazione da' participi in US (2975) de 1 loro verbi 
originali, sicché da nido si farebbe ructatvs us, non 
ructus. Cosi molus us viene da moveo, non da moto 
as f potus us da po, non da poto ec. Queste conside- 
razioni mi portano a sospettare che ruoto ed eruoto 
siano continuativi d' un tema perduto, a cui spettino 
wuctus a «m appo (rollio, e ructus US, ondo ruetuo e 
ructuoxus. Anche eructuo vedi nel Porcellini in EructQi 
Al qual sospetto mi spinge massimamente la forma 
propria e materiale di ruotare ed eruotare tutta conti- 
nuativa (1G luglio 1823). 

* Alla p. 2786, margine. Anche «jmws potrebb'os- 
ser preterito medio o di Spiuu , come èì&d»< di elòm 
da oiw., o di àpxó.tu contratto, come éoti'd? da isto&g 
di otaui, Pt^tìi? da fkfìaib; di pam ec. Non si direbbe 
però Éatoìtt né ps^uìa ec, come e ; .v.uia, titola., àpKDÌa, ina 
i<JW)xoto oc. attivo, o attivi o medii che siono iorioc., 
$*$à>i ec. die non si trovano, eh' io sappia, se non 
mascolini o neutri. I quali participii molti li chia- 
mano attivi e contratti nel modo che ho dotto alla 
p. 2786 e 2788, margine (e vedi Sclirevel. in B*3ù>«) 
ma altri, e credo con più ragione, li chiamano medii 
e contratti nel modo dotto qui di sopra. L'attivo par- 
ticipio perfetto di àpKw sarebbe non àpmu;, ma fyfùi o 
&ffàs4 conio tropee di -ilpnu). Di àpitàw però sarebbe 
àptnjuin o ^piti|x«i«i conio (2976) ho dotto a pag. 2776, 
ovvero anche &pitax£>{ o ^pitqtxùij, come àpirt/.Liu né più 
né meno, il quale fa %ita*a (16 luglio 1823). Vedi 
p, 2987. 



* Benché materiale, non sarà perciò vana 1' osser- 



2976-2977-2978) PtìNSJBRi 



yazione «Lo i poemi d' Omero, massime V Iliade, avuto 
rispetto alla qualità della lingua greca, la quale in 
un dato nunioro di parole o di versi dice molto più 
elio le lingue moderne naturalmente e ordinariamente 
non dicono, i poemi d'Omero, ripeto, sono i più lunghi 
di tutti i poemi epici conosciuti nelle letterature eu- 
ropee. Paragonati all' Eneide, ch'è pooma scritto nella 
lingua più di tutte vicina alla detta facoltà della lin- 
gua groca, oltre eli' essi sono composti di vontiquattro 
libri ciascuno, laddove 1' Eneide di soli dodici, si trova 
elio avendo I' Eneide 9896 versi, V Odissea n'ha 12096 e 
l' Iliade 15703 , il qual computo l'ho fatto-io mede- 
simo. Notisi che i versi di Virgilio sono della stessa 
misura che quelli di Omero. Questo parallelo cosi 
osatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle 
lingue moderno, si per la differente misura (2977) 
de' versi o quantità delle sillabo che questi conten- 
gono, ai molto maggiormente perché lo lingue mo- 
derno hanno bisogno d' assai più parole che non In. 
lingua greca e latina per significare una stessa cosa. 
Onde quando anche v' avesse qualcho poema epico 
moderno che di parole eccedesse quelli d' Omero, credo 
però che tutti debbano consentire che nel numero, 
por cosi dire, o nella quantità delle cose niuno ve 
n' ha elio non sia notabilmente minore di questi, o 
certo dell'uno d'essi, cioè dell' Iliade. 

Ora ella ò pur cosa mirabile ad osservare che lo 
spirito e la vena di Omero, l'uno tanto vivido, ga- 
gliardo o fervido e l' altra cosi ricca o feconda in 
ciascheduna parte, abbiano potuto reggerò, lascio 
stare in due poemi, ma in un poema medesimo, per 
cosi lungo tratto. Perciocché tutti gli altri poeti epici, 
avendo tolto, qual più qual meno, quale direttamente 
e qualo indirettamente, qual più visibilmente e qual 
pili copertamente da lui, o successivamente gli uni 
dagli altri di mano in mano, si vede tuttavia che 
non hanno (2978) potuto roggore a un corso cosi 



112 



(2978-2979) 



lungo, per vigorosi u vivaci che fossero, e sonasi coli- 
teli tati d'una carriera assai più breve o bene spesso 
prima di giungere a) termine di questa medesima, 
hanno pur lasciato cliiaramonto vedere che si trova- 
vano affaticati, o che la lena e 1' alacrità veniva lor 
manco, tanto più quanto più s'avvicinavano alla meta '). 
E Virgilio, il quale che cosa non ha tolto ad Ome- 
ro?, nolla seconda metà della sua Eneide riesco cvi- 
dentemento languido e stanco, e diverso da so medesi- 
mo, so non nella invenzione 2 ) certo però nell'esecuzione, 
cioè nello immagini, nella espansione o vivacità de- 
gli affotti e nello stile, il elio non può esser negato 
da veruno che ben conosca la maniera, la poesia, la 
lingua, la versificazione di Virgilio, anzi a questi 
tali la differenza si fa immediatamente sentire: e ve- 
desi che 1' immaginazione di Virgilio era por la lunga 
fatica illanguidita , raffreddata e sfruttata; non ri- 
spondeva all'intenzione del poeta; non (2979) gli ub- 
bidiva; egli poetava già per instituto e quasi doluto, 
per arto o per abitudine, arto e abitudine clic in lui 
orano eccellentissimo, e possono ai meno esporti sem- 
brare impeto od ópjvij poetica, ma non sono o non 
paiono tali ai più accorti, i quali in quegli ultimi 
libri desiderano la vena la Rpo^oiuiz, l'alacrità di Vir- 
gilio. JV invenzione doveva esser stata da lui tutta 
concepita e disposta fin dal principio, com' è natu- 
rale in ogni buon poeta, e massimo in un poeta di 
tant' arte e maestria. Quindi s'ella nel fine non è in- 
feriore al principio, mima maraviglia. L' immagi- 
nazione ora cosi fresca quando inventava, il fino del 
poema, come quando inventava il principio. Ma non 
minor t'orza, vivezza, attività, prontezza, fecondità 

') 1M questo ofiserv-imimii ai rieduco quanto In, nsiliiiji n l'intuglio 
non pttì L'ItóoUl flell'arte ci oome l'imitatore e soniiu'e più povero dell'imitato. 
V'odi AlgttrottJ, Pentiert, Opp., Cwunon», I. Vili, j>. 7!Ì. 

*) Vedi Olintcntibriniiu, nènie. Parte, IW, J'iir. II, 1.8, oli; 10, Due, 
t, n, p. 106-8, 



(2979-2980-2981) 



113 



ci' immaginativa si richiede allo stile, ossia all'ese- 
cuzione che all' invenzione. Anzi si può dire elio lo 
stile poetico, e nominatamente quello di Virgilio, sia 
un composto di continue, in numerabili e successive 
invenzioni. Ogni metafora, ogni aggiunto che abbia 
()uolla mirabilo (2980) o novità ed efficacia eh' e' so- 
gliono avere in Virgilio, sono tante particolari e 
distinte invenzioni poetiche, come sono invenzioni 
le similitudini, c richiedono una continua energia, 
freschezza, mobilità, ricchezza d' immaginazione, e un 
concepir sempre vivamente e quasi sentire e vedere 
qualsivoglia menoma cosa che occorra di nominare o 
di esprimere eziandio ili passaggio e per accidente. 
Anche in ogni altra parte dell'esecuzione, cioè nelle 
immagini ec. e nella vena degli affetti, anche in si- 
tuazioni elio per la invenzione sono patotichissime ec. 
Virgilio ne' sei ultimi libri è inferiore a se stesso, che 
che ne dica Chateaubriand. Vedi p. 3717. 

In verità questo aftievolimento e spossamento 
dell' immaginazione, del calore, dell' entusiasmo in un 
poema di lungo spirito, non solo ci dee parer perdo- 
nabile, ma cosi naturale ch : egli sia quasi inevitabile 
anche ai più grandi e veri poeti. Massime conside- 
rando quella continuità d'azione che si richiede al- 
l' immaginativa, nel modo spiegato di sopra. Ma 
Omero, da ni uno attingendo, non avendo esemplari 
coli' uso o meditazione de' quali, se non altro, risto- 
rasse le sue forze, si rinfrescasse e ripigliasse animo 
(come accado ai phi originali poeti), senz'altro né fonte, 
aé (298 1 ) soccorso, né modello, né sprone che se me- 
desimo, la sua propria immaginativa e la natura, in 
uno, anzi in due in tori poemi più lunghi di tutti 
quelli eh' essi poscia hanno prodotti, non mostra mai 
né quanto all'invenzione né quanto allo stilo il 
incuoino langnoro o isterilimento, ma dura fino al- 
l' ultimo colla stessa freschezza, vivacità, efficacia, 
fiochezza, copia, impoto, cosi intero di forze, cosi 

LlSOPAKUl. — l'e.mieri, V. 8 



114 



vensieri (298 I -2982-2983) 



abbondante di novità, cosi fervido, cosi veemente, cosi 
mosso ed affetto dalla natura o dagli oggetti che se 
gli presentano o eh' egli immagina, come nel princi- 
pio. Massimamente nella Iliade.. Nella quale anzi la 
ricchezza, varietà, bellezza, originalità e forza dell'in- 
venzione tanto ph'i s'accrescono, quanto più si avanza 
ed è maggiore nel fine che nel principio. 

E veramente si può dire elio Omoro fu molto più 
ricco del suo solo, elio tutti gli altri poscia non fu- 
rono del loro proprio e dell' altrui accumulato insieme. 
Ne certo, secondo le addotte considerazioni, doo pa- 
rer poco maraviglioso e notabile, benché materiale, il 
dire che i poemi epici d'Omero sono più lunghi di 
(2982) tutti quelli, che da essi in uno o altro modo 
derivarono (poiché anche il Paradiso perduto e la 
Messiade derivano pur di là), o che di essi in una o 
altra guisa si alimentarono. Massime aggiungendo 
che in tutta la loro estensione essi sono i medesimi, 
cioè sempro veri poemi, e sompre uguali a so stessi, 
il cho non si può neppur sempre diro di tutti gli al- 
tri sopraddetti. 

Par che l'immaginazione al tempo di Omero fosso 
come quei campi fertilissimi per natura, ma non mai 
lavorati, i quali, sottoposti che sono all'industria 
umana, rendono ne'primi anni due e tre volto pili, c 
producono messi molto più rigoglioso e vivide che non 
fanno negli anni susseguenti, malgrado di qualsivoglia 
studio, diligenza ed efficacia di coltura. 0 come quei 
cavalli indomiti, lungamente ritenuti nello stalle, cho, 
abbandonati al corso, si trovano molto più freschi e 
gagliardi do' cavalli esercitati e addestrati, dopo aver 
fatto un doppio spazio. Tanto cho, considerando la 
freschezza dello stile, delle immagini, della invenzione 
di Omero nolla lino della Iliade, par eh' oi non lasci 
di poetare (2983) e non chiuda il poema, so non per- 
eh'oi vuol cosi, o per esser giunto alla meta eh' ei 
s'era prefisso, o perché ogni Opera umana doo pure 



(2983-2984) 



l'BNSIWU 



115 



aver qualche ime, ma che, fuori di questo caso, egli 
avrebbe ancora e spirito o Iona per seguire, senza pur 
posarsi, a correre ancora non intenottamente altret- 
tanto e maggiore, anzi non determinahilo spazio; o 
cho l' opera sua riceva il suo termine, ma la ricchezza 
e copia della sua immaginativa non sia di gran lunga 
esaurita, anzi sia poco meno cho intatta; e che il suo 
corso finisca, ma non il suo impeto. 

E par che la natura ancor vergine dalla poesia 
(siccome vergino dallo scienze e dalla, filosofia ec, che 
distruggono l'immaginazione e l'illusione ch'essa na- 
tura ispira) le somministrasse in quel tempo tanta 
copia d'immagini e sentimenti che non avesse quasi 
alcun fondo, e a rispetto di cui sembri povera e scarsa 
quella che i più grandi poeti trassero poscia in qua- 
lunque tempo dalia natura già molto studiata e imi- 
« tata (16-17 luglio 1823). 

* Alla p. 2974. Cervello (eerebellum), evrveau, cervello 
da eerebrmn '). Crivello (cribellwm, come flabellum da 
yftabrum) diminutivo di eribrum. I francesi crible, gli 
; spagnuoli (2984) crina. Ccrebro, celabro, cribro, cribra- 
re, oc. per crivellare oc., non sono voci volgari, ma tolte 
dal latino dagli scrittori. Cosi lo spaglinolo celebro, 
invoce di cui volgarmente dicono sesso. Cosi pure il 
nostro moderno e tecnico cerebello. Trivello o trivella 
(Porcellini in tcrebra) voci nostre volgari, onde nella 
Crusca trivellare, sono quasi terebellum o terebella di- 
minutivo dol latino tcrebra, come ccrebellum e cervello 
di cerebrum. Vecchio, viejo, vieìl sono indubitatamente 
diminutivi di vcf.us , come pecchia , avcja , abeille da 
apertila, l'orse da netulus o da veculus volgarmente 
contratto da vetuseulus. Vienne forse ò lo stesso elio il 
positivo vetus. Vedi por tutte le soprascritte voci il 



') V,Mi i>. 3610. 



no 



PKNK1EKI 



(2984-2985-2986) 



Porcellini o il glossario, se hanno nulla a proposito 
(17 luglio 1823). Vedi p.' 3514, 3557. 

* Trapano, trapanare, trépan, trépaner Tpriiwov oc. 
(17 luglio 1823). 

* Usitari e altri tali frequentativi o diminutivi da 
me notati poscia qua e là, sono da aggiungersi a 
quelli che io notai già tutti insieme poi' dimostrare 
ohe molti verbi hanno il frequentativo in itare senza 
avere il continuativo in tara, contro il porcellini che 
spesso dice quello esser derivato da questo (2985) (17 
luglio 182S). 

* Se molti continuativi latini non hanno una si- 
gnificazione continuativa del verbo originale, ma uguale 
o poco diversa da quosto, ciò non toglio che la virtù 
della loro formazione non sia veramente continuativa, 
e die la proprietà loro non sia tale; benché non sempre 
osservata e custodita dagli scrittori latini, o in al- 
cuni verbi non mai, per lo ragioni dette altrove. Che 
se questa obbiezione valesse, ella varrebbe né più 
né mono contro coloro che chiamano quei verbi fre- 
quentativi, non trovandosi eh' essi abbiano sempre o 
tutti un significato diverso da' verbi originali, e var- 
rebbe anche circa quei medesimi verbi in tiare ch'io 
dico ossor voramonte frequentativi di formazione. Per 
esempio, il Porcellini in parito dice ch'egli è frequen- 
tativo di paro (e per formazione può infatti esser non 
meno frequentativo che continuativo), soggiungendo 
et eiusdem fera tigni jicatvmis. Cosi in haetito, e spes- 
sissimo. Dunque la detta obbiezione farebbe tante 
contro i passati grammatici o lo passata denominazioni 
e teorie de' verbi formati (2986) da' participi! in us, 
quanto contro di me o delle mie denominazioni, di- 
stinzioni e teorie Ho tali verbi non hanno senso con- 
tinuativo, neanche l'hanno frequentativo. Dunque l'oli- 



(2986-2987) rBKfilEta 11 < 

biezione non è più per me die per gli altri (17 
luglio 1823). 

* È notabile che tutte le maniero di verbi frequen- 
tativi o diminutivi italiani da me altrove enumerati, 
come saltellare, salterellare ec, sono immancabilmente 
e solamente della prima coniugazione, aneorclic U 
verbo originale e positivo sia d' alba coniugatone, 
come smVere, onde scrivacchiare ec; nò più ne manco 
che in latino tutti i continuativi e frequentativi o 
diminutivi (se non forse pochi anomali) del genere 
ch'io ho preso ad esaminare, da qualunque coniuga- 
zione essi vengano; ed anche altri verbi derivativi, 
si eno diminutivi sieno frequentativi sieno 1 uno e 
l'altro insieme ce, di verbi originali ec. con diverse 
formazioni, che non spettano alla mia teoria ed isti- 
tuto, come miniare, miseulare, di cui altrove ec., pan- 
mcularì, vellicare (vedi p. 2996, margine), serbili», Can- 
tillo consertbiUo ec., cavillar, miMiculo , claudico ec. 
, Ancìio in francese tali verbi diminutivi ec. e cosi m 
ispagnuolo mi par che sieno della prima coniugazione 
(17 luglio 1823), 

* Scambio del v in g, del quale ho detto altrove. 
Nuvolo (dal latino mAilum)-nu<,olo. Pafohjsr Pavolo 
e Paulo (spagnuolo Pablo) (18 luglio 1823). 

* Dico che nella formazione dei continuativi da' verbi 
della prima, l'ultima a del participio si cambia in ». 
Da mLatus multare. Ed aggiungo che i verbi della 
prima non hanno se non questo o continuativo o fre- 
quentativo, e non un altro frequentativo che verrebbe 
a essere in mare. Si eccettuino (2987) i verbi il cm 
participio è dissillabo, come do, fio, no-datus, flatw 
natus, i quali non mutano Va in i, ma la conservano. 
Datare, fiatare, nettare. E da questi participi! si potrà 
anche fare un distinto frequentativo in itare, sebbene 



118 pensikkì (2987-2988) 

ora non mi sovvonga esempio al proposito (18 lu- 
glio 1823). 

*Alla p. 2677. Anche il volgo e il discorso fami- 
liare spagnnolo usa quosto idiotismo del singolare dice 
per lo plurale dicono. Nella Historia dal famoso l're- 
dicador Frny-Oerundio de, Òemvpazds s' introduce un 
Contadino chiamato Bastimi Bori-ego a usar queste frasi 
plebeo disquc, disque per dicen que (18 luglio 1823). 

• Alla p. 2976, TsìKvjv.m.: ; teftvsnuù^ , tv)ì)-v7)<ì>«, ts )}■ ve :.mc , 
t«*v«(HS . Teftyjàj e «»vi»« sono tutti chiamati dai Gram- 
matici participi! perfetti della vooo attiva- di 9y^mw>, 
o »yaó) ce, e non della inedia, ma contratti dai due 
primi (18 luglio 1823). 

* La gioventù non era fra gli antichi un liono mu- 
tilo e un vantaggio da cui niun frutto si potesse ca- 
vare, né la vecchiezza era uno incomodo o uno (2988) 
svantaggio che niun bene, niun comodo, niun godi- 
mento togliesse, e niuna privazione recasso seco. Quindi 
e molto mono frequente che a' tempi nostri era il nu- 
mero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti 
più vecchi suicidi si trovano commemorati nell'anti- 
chità che non si veggono al presente. Come dire 
Pomponio Attico e molti filosofi greci e romani. Pe- 
rocché al presente le contrarie cagioni producono ef- 
fetto contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla 
ha, neppure ha come distrarre, divertire, ingannare 
il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale, ado- 
perarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì 
che fra gli antichi non pur giovani solamente, ma 
giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde pol- 
la vecehiozza, e poco, o mono ferventemente e im- 
petuosamente e smaniosamente desidera. Quindi è 
cosi raro un vecchio suicida oggidi, che parrebbe 
quasi miracolo. E pure il giovane elio si uccide pri- 



11 9 

(2988-2989-2990) pensieri ^lì l-. ' ' '- r ' ' ■ ' . 

Li' dèlia gioventù e rinunzia a ima vita oWi si 
pu6 ancora promettere, (2989) di am». D V«V 

E ri privì della vecoHe^a (qual prvva. ne^o 

hnono) Ì rinunzia a pool, «j^.g. 
pertanto per mille giovani su cidi appe ? 
neanche si troverà ^ oggi ™ ^ 
i questo, se pur si troverà, sarà iois i 

estrema disgrazia, in qualche caso ove a Vita tosse 
già disperata, e ^«f J é £ 
i^^^it 1 ^ volonturiamonte 
r ^ Applicate- queste considera^ a <mo 
ho eletto altrove circa l'amor della vita nei vecw , 
della vita crescenti in palone 
die per l'aumento dell'età scema il valore d 
vita (18 luglio |828). 

* àlla p. 2870. Comelanasaòn francese è tra tutte 
.nello europee che si chiamano meridionali quella d e 

struttura ee. E si può dire che per Inno « iJJ 

■ i „ ì;-™,, siccome la nazione che la pai*», 
rispetto essa lingua, siccome ie n 0 f ra 

ten-a il mezzo e sia quasi un grado e un a nello , ira 
Meridionali e lo settentrionali europee .cult e, D co 
per 1' uno e per 1' altro rispetto, cioè pei li suon e 
"per l'indole. Le quali duo ^^*^*£g& 
e corrispondenti fra loro, cioè tale e sempre ind le 
di una lingua perfetta qual e quel a de suona mate 
riali oh' eira adopera. E la varietà medesima che « 
■ ■ jwIha linone d'nna medesima cubhe, 
trova fra ì suoni di due lingue 

<) Si ^ votor» la P- 82W, 4, 3*0" ■» 



120 



L'BHSrtoii (2990-2991-2992) 



o di duo lingue di classi diverso, o delle lingue di 
due classi (come settentrionale e meridionale), si tro- 
verà sempro fra i caratteri e i geni delle medesimo 
lingue o classi, puroh' olio sieno perfette e bori cor- 
rispondenti all' indole della nazione, il clic sempro 
accado quando una lingua è perfettamente sviluppata, 
e senza di cho non può essere che una lingua, an- 
corché (2991) cólta, abbia perfettamente sviluppato, 
o conservi, il suo vero, conveniente, naturale e pro- 
prio carattere (19 luglio 1823). 

* Alla pag. 2974. Intorno a questo verbo urito, e al 
verbo quaerì.to, di cui diffusamente altrove, e ad altri 
simili, è da discorrere come segue. *) Gli antichi la- 
tini dissero frequentissimamente s por j», Veggasi il 
Porcellini in S od li e in Qiiacso. Quindi, dicendo 
ossi uso per uro, dissero eziandio imi per uri, prete- 
rito perfetto (raddoppiando la s dopo vocale lunga, 
del qual uso vedi Quintiliano, ap. Porcellini in 8), ed 
mitum per uritum che sarebbe stato il vero supino di 
uro. 0 quando anche non iscambiassero la s e la r 
nelle altre voci di uro, le scambiarono certo nel per- 
fetto, nel supino e nel participio in u$. por modo 
cho mancando il perfetto, il supino e il participio 
regolare, non restò in uso so non il detto usti ed 
usitus o usitum, contratto però questo in ustus e ustum, 
corno positus-poatus e come quaestus m e chiesto qui- 
nto oc. da quaesitns (del che vedi la pag. 2894-5). 
(2992) Similmente da hacreo, haurio, sia che dicessero 
anticamente haeseo, hausio, o sia corno si voglia, certo 
è che in luogo dei regolari haeri o kaeriti, haeritum 
haerìtus, Jumri o haurii o haurivì, hauritum, hauriUis, 
fecero haesi, hauti, hausitum, hautitw, cho oggi ri- 
mangono in luogo di quelli, contratto però hauti* 



') Tuoi veder» la v , 3060-1 e le nate grwn malica li del Mai a Cin.. do 
Jlep. I, 5, p. JS. 



(2992-2993-29941 



.121 



tum ed hawtMs in hanéum od haustw, coinè ap- 
punto «rifu* in E fecer0 similmente kaesitus, 
il quale oggi non rimane, ma è dimostrato da 7t«eri- 
tfare. clic regolarmente dovrebb' essere haeritare. Ilaa- 
sum, onde haesurus oc. o è contratto diversamente o 
anomalo , come haetd per hamd (o ftaentó) , il qnale 
però fu trovato da Diomede in non so quale antico 
(Fornellini Baereó, fine). Cosi dite di hausumeà ha/Uèus. 
Ma in conferma di questo mio discorso e di tutto 
quanto io dico circa questi tali continuativi, come 
urito, quaestio, ed anche legìtó, agito e tanti altri che 
non sembrano poter derivare da participi, e in con- 
ferma di quanto altrove ho ragionato dogli antichi o 
regolari participii e supini ora perduti, ma dimostrati 
in parte da continuativi e frequentativi, eccovi ap- 
punto (2993) haurivi o hanrii, hauritv; haiiriturm, 
hauritus (come appunto uritus perduto, onde untare, ; 
quaeritus perduto, onde quaeritare, querido, chéri ec.) 
usati anch' essi invece di hausi, hemstu, hausturus (o, 
conio Virgilio hausuru»), hausttts ; bensì da autori,- la 
più parte," recenti, perché, come ho detto, l' antica 
pronunzia preferiva la s. Ma la regolare era pur que- 
sta, e il vederla usata da' più moderni o più rozzi, e 
il vederla convenire coi continuativi antichi (come 
urito, quaeritó), i quali da essa o non d'altronde de- 
rivano, persuade ch'ella fosse conservata continua- 
mente nelle bocche del volgo, fino a passare nello 
lingue moderne, giacché, per esempio, querido, chéri ec. 
non sono altro' che il regolare e originario quaeritus 
per quaesitus, onde 1' antico quaerttare proprio de' co- 
mici Plauto e Terenzio, il qual verbo fa fede al detto 
participio, ohe, conservatosi nelle lingue moderno, è 
perduto nel latino. 

Del resto, io non so, come ho detto, se gli antichi 
dicossero anche uso, hae$eo,hausio oc. per (2994) uro ec, 
come dissero assi, hauti, haesi ec per uri perfetto, hauri. 
0 haurii ec. Ben so elio siccome dissero quaesti, qnae- 



122 pensieri (2994-2995-2996 ) 

sfai, quaesitm, quaesitum per quaerii, quadrivi, qttac- 
ritiis, quaeriium che sono affatto perduti, cosi disserti 
quaeso per quaero, e tutto questo verbo profferirono 
colla 8 siccome colla r, benché questa in molte voci 
di quaero non sia perduta, anzi col tempo sia rimasta 
in esse voci la sola pronunzia della r e non quella 
dell' ». Dallo quali coso e seguito che di quaero o 
quaeso si facciano dai lessicografi ec. due verbi, es- 
sondo un solo, c che quaero si faccia anomalo (quaero 
is, zìi o sivì, 8Ìtum), e quae.no difettivo (quaeso is, iì o 
ivi), quando in realtà, il primo (volendoli distinguere, 
che non si dee) sarebbe difettivo, e il secondo intero 
« regolarissimo. Ma tornando al proposito, questo 
quaeso mi persuade che si dicesse anche haeseo. liauxio 
e cosi in ogni altra voce ; o cosi pure in molti altri verbi 
de'quali si dee discorrere nel (2995) modo stesso che si 
è fatto di uro. haereo, haurio, quaero (19 luglio 1823). 

* Alla pag. 2893. Chiedere vien da quaerere ed è 
propriamonte (benché con diverso significato) lo stesso 
che il nostro chierere, siccome fedire verbo difettivo 
italiano, onde Jtedo, jìade ec. vien dal latin» ferire,, 
od è propriamente lo stosso che il nostro jierere o fé- 
rare, onde fièro, fiere, fere (colla e larga) ec. usato 
dagli antichi nostri in alcune voci in cambio del- 
l' italiano ferire. Tedi la Crusca e il Buoniniattei ec. 
(20 luglio 1823). 

* Alla pag. 289 1 . Il Fischer nella prefazione alla 
grammatica groca del Weller, edizione Lipsia, 1750, 
dice che i pleonasmi d' Omero derivano dalla lingua 
ebraica. Che che sia di questa proposizione, certo è 
che quel pleonasmo di yoott|Aoy f^w.p e simili, da ino 
notato altrove, e non osservato dal Fischer, può ser- 
vire a spiegar molti piassi della Scrittura noi quali 
la parola giorno non serve che ad una perifrasi, onde, 
(2996) por esempio, in die irne, tuae, non vale altro 



(2996-2997) ramuBR i * 23 

ohe in ira tua; cosa finora, ch'io sappia, non veduta, 
dagl'interpreti, i quali, per esempio, pensano che quel 
dies significhi il giorno del giudizio ec. (20 luglio 

* Alla pag. 2815. A questa categoria di verbi (che 
forse si potrebbero chiamare continuativi irregolari, 
tutti, come viso U) spettano senza dubbio i seguenti ): 
Occupo da oh e capto. Obstino da oh e temo, interposta 
la s come in attendo che anticamente dovette dirsi 
obitmdo ed esser lo stesso che il più moderno verbo 
obi&ndo. Né è maraviglia che la prepostone oh sia 
fatta seguire da una s nella composizione per pro- 
prietà di lingua, 0 ch'esistesse anche anticamente una 
preposiziono obi per oh ; giacché vediamo appunto ah 
e ahi), e nella composiziono preporsi sempre alle voci 
comincianti per f la preposiziono abs e non ah. Cosi 
anche fuor di composizione, quando non s' usi la pre- 
posizione a : perocché convien dire, per esempio, o a 
te, o abs te, non ab te. Vedi Porcellini in A. ab, abs, 
6 in Abs. Vedi p. 3001, line, 3696. Tornando al pro- 
posito, è manifesto (2997) ohe obstino, obsUnatus yien 
da tentiti come ne viene pertinax, pertinacia ec. che 
spettano alla stessa significazione. La e è cangiata 
iu i conio appunto in pertinax e ne' composti ordi- 
nari contmto , ohtineo ec. Ed è notabile che laddove 
gli altri verbi di questa categoria son fatti, come ho 
detto, da verbi della terza, questo che indubitata- 
mente appartiene a essa categoria, e non può esser di 
senso più continuativo, è fatto da un verbo della se- 
conda Vedi pag. 3020. Auffupo ed aucupor da avts e 
capio, come occupo, e come -Nuncupo da nomen e cupio, 
se però non si vuole che vengano da auctps aucu- 

i) YelUco il Forcellltì lo chiama fteqpsntattvo fli ««Sa. E b» ™- 
»i>„<, Cosi fùdieo Ai rodiote, albico, nlfineo (hiOMChtautani, A» al- 
*" Ml V° 1ad ™ i iZuroare 6 Qn frequentativo « oontìnnutìvo dz 

utor-nsus. Medino e> meaum. 1 , nn . 

«rtrft i»; •«•(«*>, cawttca. Y«U p. 3695 « 1». i». 4004. 



PENSIERI 



(2997-2998-2999) 



■pi» quanto alla derivazione immediata. Anticipo da ante 
e copio. Partirìpo da pars e capto, corno anticipo, se non 
si vuol che venga da particeps cipis. Vociferar arti 
(forse anche vocifero as) da vox e fero fers. Opitulo e 
opitulnr da ops e tuli di fero o di Mio di cui forse è 
propriaménte questo perfetto (vedi Porcellini in Tollo, 
fine) o piuttosto dall' antico tulo, tuli* , tettili, latum, 
verbo della terza, di cui vedi Porcellini in tulo. (2998) 

In caso eh' opitulo fosse fatto da tuli perfetto, 
ciò non sarobbo sonza osempio in questa categoria 
di verbi. Accubo ec. è dal perfetto accubiti di ac- 
éumbo. Pois' anche participio, anticipo e cosi sigili* 
fico, aedifico, e gli altri di cui a pag. 2903, seguenti 
vengono dai perfetti cepi e feci di cupio c facio, mu- 
tato 1' e in i por virtù della composizione (come, por 
esempio, in colligo, cor-rigo, conspicio ec. ec. da lego, 
rego, spedo) e mutata la desinenza; ondo da ciò venga 
che in essi vorbi manchi la i radicale de' loro temi, 
siccome manca in molte voci formate dai detti per- 
fetti, per esempio, caperò, fcceram ec. Ma non lo erodo, 
perocché auspico e auspico che sono della stessa forma 
di significo, participoec. non possono venire dal perfetto 
di spedo, il quale è spexi, se pur non si volesso suppor- 
re un antico e ignoto speci, analogo a feci, jeci ec. 

Del resto i verbi da cui derivano i soprascritti 
hanno ancho i loro continuativi fatti da participii, 
cioè capto e tento. 

Aspernor aris e asperno as (giacché aspemor si 
trova anche in senso passivo) da ad e sperno is, 
(20 luglio 1823). Costerno as, avi, atum (il Porcellini 
per errore di stampa slravi atum, come apparisce da- 
gli esempi) da sterno is e cum, ovvero da consterno is. 
Crepo as, l'orso da crepo is. "V'odi Porcellini in Crepo, 
fine. Vedi p, 3234. (2999) 

* Alla p. 2906. Bell'effetto fanno nell' Aminta e nel 
PoMor fido, e massime in questo, i cori, benché troppo 



(2999-3000) venshbki 125 

lambiccati e peccanti di secentismo, e benché non vi 
siano introdotti «e non alla fine e per chiusa di cia- 
scun atto. Ma essi fanno quivi l'offizio che i con ta- 
cevano anticamente, cioè riflettere sugli avvenimenti 
rappresentati, veri o falsi, lodar la virtù, biasimare 
il vizio, o lasciar l'animo dello spettatore rivolto alla 
meditazione e a considerare in grande quelle cose e quei 
successi che gli attori e il resto del dramma non può e 
non dee rappresentare se non come particolari e indivi- 
due, .senza sentenze espresse e senza quella filosofia che 
molti scioccamente pongono in hocca degli stessi personag- 
gi. Quest'uffizio è del coro; esso, serve con ciò ed al- 
l'utile e profitto degli spettatori che dee risultare dai 
drammi, od al diletto che nasce dal vago della rifles- 
sione e dalle circostanze e cagioni spiegato di sopra 
(21 luglio 1823). (300Q.) 

* Delle cose veramente ridicole nella società o 
negl' individui è ben raro trovar chi ne rida. E 
s' alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che 
l'aiuti a farlo, o che gli dia ragione, o che pur senta 
la causa del suo riso. Gli uomini per lo più ridono 
di cose che in effetto son tutt'altro che ridicole, e 
spesso no ridono per questo appunto che non sono ri- 
dicole. E tanto phi no ridono quanto meno elle sun 
tali (21 luglio 1828). 

* Alla p. 2922, line. Alcune volte noi diciamo vo- 
/r-iv anche di cose animato, anche degli uomini, ma 
relativamente a ciò che non dipende dalla lor volon- 
tà, o che non può dipender da volontà o che anche 
è 'contrario affatto alla lor volontà, e lo diciamo 
non solo per ischerzo, ma eziandio seriamente, in 
virtù doli' idiotismo cho ho preso a illustrare. Per 
esempio, il tale non vuole ancora guarire, cioè, ancor 
non guarisco: e il verbo volere ridonda. Qua si dee 
riferire un luoiro di Platone nel Sofista, edizione Astii, 



12(1 pensieri (3000-3001-3002) 

tomo II, p. 246, (3001) v«d. 7 A. dove o&SéW 5v 
èfl-sXsti/ (ta-^stv è Io stesso cho QÒ^énot' 3v n-tudeìv, e ben 
lo rende l'Astio nec numquam. fore ut discat, ridondando 
elegantemente ìWiiù. Se però non si vuol diro che 
in questo luogo equivalga n \U\Uvj, appunto come il 
nostro volere noi casi specificati di sopra, c in ciò 
pure sarà notabile la conformità del nostro idiotismo 
coli' attico (21 luglio 1823). 

:f: Alla p. 2864. Stipula da stipa voce inusitata, re- 
stando il diminutivo, dal quale noi stoppia, i francesi 
esteuble onde étenle. Vedi Eorcollini in stipula, stipa, 
stipular oo. o il glossario se ha nulla (21 luglio 1823). 

* Continuativi barbari. Dilatar spaglinolo da differì)* 
ditalns. Vedi la Crusca. I francesi dilayer. Trovo nel 
moderno spagnuolo dilatar ancho per denunziare, 
accusare, da defero-delatus. Decretare, decretar dt'eré- 
ter da decerno-decreius. Divinar francese da divido- 
divisas. Libertar spagnuolo quasi liheritare o liberatore, 
Tal contrazione non è maravigli osa in questo caso, e 
iors'ó antica. Libertus a non sembra che contrazione 
di Uheraius a. Vedi Porcellini e glossario se hanno nulla 
(21 luglio 1823). 

f Alla p. 2996, fine. Che obsihw venga da obs e 
teneo vedi Porcellini in obsiinatus, principio e in oh- 
seeìius, principio. Se ancho obscenus viene da obs, no- 
tisi l'analogia. Perocché nella composizione, alle pa- 
role. (3002) cominciatiti por c, q, t non si premette mai 
la preposizione a o ab, ma sempre abs. Cosi dunque so 
obscenus viene da cano o da caenum, beno sta elio non 
si dica obeenus ma obscenus. Oscillo, secondo me, è da 
obs e cillo, as e vale quasi obeiere, obmovere, obeire. 
Dico poi cillo as, non etto 1 is, .come il Porcellini, per- 
ché è chiaro ohe nel luogo di Pesto cilleni (optativo) 
è voco della prima; perché cillo dev'essere stato un 
diminutivo di ciò o di eleo, corno conscribillo oc. (vedi 



(3002-3003) ^ fknsieui V*\ 

k p 2986) che sono della prima, benché conscriha ce 
sieno della terza; perché veggo osdlUms, oscMatw e il 
nostro oscillar, ec. e lo stosso Forcellim dice oscillo 
aa, non fc Vedi in Forcellini tutte queste voci o art- 
lùm e cilho. Se oècitfo as t'osse fatto da allo ts o oUta 
& esso apparterrebbe a questa nostra categoria, come 
optino a», da ienéo es ce. Non pare che il Force] Uni 
si sia accorto che cUko o eiUo spetta indubitatamente a 
rio o cjeo E cosi dunque altresì ben si dice offendo 
cioè offendo. otóo non oblino. I più moderni trascu- 
rarono questa regola e dissero obimdo, obtineo ec. In 
Wo del guai ultimo verbo pare che gli antichi di- 
cessero obstineo, in significato però di attendo. Vedi 
Porcellini in obsUnet. E forse molti verbi o voci la- 
tine composte cominciaci per os, le quali si dicono 
formate dal nome os, non lo sono infatti che da oh* 
come, per esempio, asceti ìnis che si dice fatto da o 
amo (quasi si cantasse mai con altro che con la boc- 
ca) viene forse veramente da obs o cano. Infatti oc 
mere, cioè obeimre (che secondo 1» antica regola sa- 
rebbe stato ohscìnere, e quindi oscinere, come estendere, 
il quale anch'esso da taluno è scioccamente derivato 
da os, in manifesto dispetto del significato), BX diceva 
degli uccelli d'augurio, e dal modo in cui Livio 1 ado- 
pra par che questa voce fosse solenne in tal (3003, 
proposito. Vedi Porcellini in oecino, accento, ocuntm 
ocLo, obeantatus, obcanU, Io dubito anche molto che 
quello voci die si dicono derivate da sursum contralto 
in sw (eccetto susque) come smtimo, satollo, suspef^- 
do, mmipio ec. oc, vengano infatti da sub (terza pre- 
posizione terminata in b, come oh ed ab) e f^o ori- 
ginariamente «ufetf»», sMlo ec, introdotta la * 
per proprietà di lingua; e vagliano tener di sotto m- 
nalzar di sotto, cioè esprimano l'azione che si fa di 
sotto in su, come in ispagnuolo subir non vale già 
scendere o andar sotto, ma salire, cioè andare di sotto 
i» su. Uosi sposso il latino subire. Vedi lorcelhm, noi 



_ 



128 



(3 00 3-3004) 



quale troverai ancora subvenio per sùpàrvénio. Vedi 
p. 3558. Subreperé nel luogo di Plinio citato dal Por- 
cellini, voc. Sauroctonus, non è propriamente altro che 
repere di sotto in su, poiché questo è (s'io ben mi ri- 
cordo) quel che fa la lucerta nell'Apollo Sanrottono dol 
museo pio-clementino, la quale non r'epìt clam, ma sco- 
pertamente, e non iscende ma salisce su per un albero. 
Plinio poi usò il tema repere come appropriato alla 
lucerta, clr è quasi un repiìlè. Il dotto Apollo è certo 
una copia di quel di Pressitele, di cui Plinio. Del 
resto, l'inserimento della s trovasi ancora dopo altre 
preposizioni, ed appunto al caso nostro fanno destino 
e praesli.no fratelli carnali di obstino, fatti da de o 
prae e da tcneo (vedi Porcellini in Destino e Praesti- 
no) e non già da un sognato stino, come vogliono al- 
cuni. E questi due verbi eziandio spettano alla cate- 
goria di cui parliamo, massimo che essi, e (3004) 
specialmente destino, hanno forza tutta continuativa 
(21 luglio 1823). 

* Frequentissimo nell'italiano scritto, e più nello 
spagnuolo scritto e pai-lato, si ò l'uso del verbo an- 
dare,, andar (non ir), in senso di essere. Ecco Seneca 
tragico (ap. Porcellini in eo is i col. 3, principio), Non ilo 
inulta. Notate che noi abbiam preso indubitatamente 
quest'uso dagli spagnuoli (infatti r esso ó frequentis- 
simo nei nostri socontisti, con cento altri spagnoli- 
smi; noi cinquecentisti o trecentisti non si trova, 
eh' io mi ricordi, o mai o quasi 'mai). E Seneca ap- 
punto ò spagnuolo. La frase dell'egizio Claudiano qui 
vindieet ibit, cioè erit, è d'altro genere, perché né gli 
spagnuoli né gì' italiani non usano andare por essere, 
se non seguito effottivamente o potenzialmente da un 
aggotti vo che ha forza di predicato. ') Qua si deono 



1 ) Appo Orazio, S/U.- II, I, v. ultimo, tu missus allibili i lo stoss» 
elio missns, oiotì ahsoìutus erta, dui- miUlri» o obtoh><irit, l (rapi oix"- 
3at cojj participio : oso analogo al nostro eo-, èdi 



(3004-3005-3006) PENSIERI ™* 



forse riferire le frasi, andar la Insogna, la rosa ec. cosi . 
andò il fatto, còsi va per cosi è, va bene, come va la 
salate oc. ec. Vedi i dizionari francesi e spagnuoh 
(21 luglio 1823). Vedi p. 3008. (3005) 

* Alla p. 2844. Cosi lo spagnuolo avUtàr. A questo 
discorso appartengono il francese viser, deviser, fran- 
cese antico, per s'enlretenir familièrement eo. (vedi il 
glossario cang. in Visorcs, 2), e 1' italiano divisare, il 
quale però ancora, almeno in alcuni sensi, può esser 
continuativo barbaro di divido-divisus e lo stesso che 
il francese diviser. Vedi la Crusca e il Forcelhm e 
glossario e' hanno nulla. 

A questo proposito è da notare circa La voce guisa,, 
francese guise, di cui altrove ho parlato, eh' ella non 
è altro che come dir visa, e dovette da principio si- 
gnificare aspetto, quel eh' apparisce e si vede, forma 
onde poi modo, maniera, facon, Del primo significato 
e della forma eh' ebbe primieramente questa voce ne 
fanno fede il nostro divisa sustantivo 4 ) (il quale non 
credo che venga da divisare per variare); il francese 
devise; divisato per dc-f ormato, contraffatto, déguise, 
travestilo, che il Salvini disse barbaramente dìgui- 
sato' 1 ); divisamento per assisa; Guisar in ispagnuolo e 
vestire ec. Ma vedi i dizionari spagnuoli. Travisare, 
travisato, travisamento, traviso vagliono travestire, quasi 
traguwar. Svisare vedilo nella Crusca. Vegga» il glos- 
sario se ha nulla (21 luglio 1823). (3006) 

* Suso, giuso. Cosi i più antichi latini per surmm 
deorsum. Vedi Porcellini in susum oc. e il glossario 
so lia nulla. 

* Alla p. 2814. Vindicare, indicare che risponderebbe 
forse a indicere coni' educare a educere. Ma si può pur 

') Si può Tederò la p. 3036. 
! ) Ditgulsarc mi («ir nostro antl o. Vedi Crusca. 
tEOi'Aiiw, — Pensieri, V , ^ 



180 



pensieri (3006-3007) 



dubitare che quello venga da vindcx ici.it, questo da 
index iti*; ') e cosi indicare da .index ieit, educare, da 
un e-dux ucis (in senso reciproco, come redux da re- 
duco), jugare da jux o junx jugis, oh' esiste oggidì 
ne' composti coniux, ec. come ho detto altrove. E cosi 
si può molto dubitare che tutta questa categoria di 
verbi venga da nomi verbali o noti o ignoti, non 
da' verbi originami a dirittura. In ogni modo, posto 
quello che ho congetturato altrove, che tali nomi, 
come dux, dm (iu-dex, in-dex ec.), ceps, {jparti-ceps, 
avreep* ec), fax {arti-fax oc), spex (arttspex ec), 
fer (laci-fer ec.]. e simili, sieno anteriori ai rispettivi 
verbi, seguirebbe da ciò che i verbi di questa cate- 
goria formati da tali nomi fossero fratelli e non figli 
di quo' della terza corrispondenti, e sempre sarebbe 
importante e a proposito nostro il notare come di due 
verbi fatti da una radico, quello (3007) che ha o che 
da principio ebbe senso continuativo, sia della pri- 
ma coniugazione, e 1' altro della terza ec. Si può 
anche discorrere in questo modo. Educare, può venire 
da dux, aggiunta la preposiziono al solo verbo, e non 
al nome; onde non è necessario supporre un nome com- 
posto editx.. Basta il nome semplice. Cosi sacrificare 
(p. 2903) può venir da un «acrifex, ed anche dal sem- 
plice fex. ! ) Cosi occupare (p. 2996) può venire da mi 
occeps occupi» (come auuepn aucapis onde aiicupare), 
ovvero occeps weipis che sarebbe il medesimo (giac- 
ché la imitarono scambievole dell' i ed u in quosti 
tali nomi è ordinarissima siccome in ogni altro caso; 
e quindi mancipivin e manmphm ec), può venir, dico, 
da questo nome composto, ovvero dal semplice ceps. 
Mancipo o mancupo, secondo questo discorso, non 
verrà da «Minti* e capio, ma da manceps ipis, che 



«) Como /anfeo» ila /ora**' /orato*», «1 altri Mwl : duplico «a du- 
plex, triplico co., fruttatili frittene, rueticor <ln nuticu*. Vengasi lo pa- 
nini) 3752-*. 

s ) Profugo «.« ila pongo it. Vudi la p. 3752- J. 



131 



«liticamente si dovette anche dir manceps cupi*, Vedi 
|. 3019, fine. Opitularc (p, 2997) verrà da opitulùs, E 
cosi, kc non tutti, almeno una gran parto do' verbi di 
questa categoria (22 luglio 1823). (3008) 

* Alla p. 3004. fine. Congiunto coi participi! passivi 
il verbo andare appo gli spagnuoli fa quasi l'officio di 
verbo ausiliare e le veci di essere, corno appo noi il 
verbo venire (venire ucciso ec. per essere ucciso, ed è 
anello dell'Ariosto: o vedi la Crusca): ma quello si- 
gnifica ordinariamente una passione più continua o du- 
revole. Non so se si direbbe fidano andò innario o ma- 
tado per fui matado (22 luglio 1823). 

* Alla p. 2953. Cosi ci accade nello apprendere o 
appresa che abbiamo alcuna lingua straniera; cosi ci 
accade, dico, in ordine a riportare al corrispondente 
carattere del suo alfabeto l'idea di quo' suoni che non 
si trovano nella nostra lingua, o che non sono espressi 
nel nostro alfabeto distintamente dagli altri, o oh' es- 
sendo composti sono però espressi nell'alfabeto di 
quella lingua straniera con un cai-attero particolare, 
sia porche tal composizione di suoni non s'usi nella 
nostra lingua, o molto s'usi in quell'altra, sia che la 
nostra scrittura la significhi con più d'un carattere, e 
quella straniera con un solo (come la greca il p ed s 
con 4). Del che potete vedere la p. 2740, segg., 2745. 
fine-46. e (3009) segg. (22 luglio 1823). Vedi p. 3024. 

* Alla p. 2841. Lo stile e il linguaggio poetico in 
una letteratura già formata, e che n' abbia uno, non 
si distinguo solamente dal prosaico né si divido e 
allontana solamente dal volgo per l' uso di voci e frasi 
che, sebbene inteso, non sono però adoperate nel di- 
scorso familiare né nella prosa, le quali voci o frasi 
non sono per lo più altro che dizioni e locuzioni an- 
tiche, andate, fuor che ne' poonii, in disuso; ma esso 



i'knsikiìi (3009-30 1 0-30 1 1 1 



linguaggio si distingue eziandio grandemente dal pro- 
saico o volgare por la divora» inflessione materiale 
di quelle atesse voci e frasi che il volgo e la prosa 
adoprano ancora. Ond'è che spessissimo una tal voce 
0 frase è poetica pronunziata o scritta in un tal modo, 
o prosaica, anzi talora affatto impoetica, anzi pure 
ignobilissima e volgarissima, in un altro modo. F< in 
quello è tutta elegante, in questo affatto triviale, 
eziandio talvolta per li prosatori. Questo mozzo di di- 
stinguere e separare il linguaggio d' un poema da 
quello della prosa o del volgo inflettendo o condizio- 
nando diversamento (30(0) dall'uso la forma estrin- 
seca d' una voce o frase prosaica o familiare, è fre- 
quentissimamente adoperato in ogni lingua che ha 
linguaggio poetico distinto, lo fu da' greci sempre, lo 
è dagl'italiani: anzi, parlando puramente dol linguag- 
gio, e non. dello stile, poetico, il dotto mezzo è l'uno 
de' più frequenti elio s'adoprino a conseguire il detto 
line, c più frequente forse di quello dello voci o frasi 
inusitate. 

Or questa diversa e poetica inflessione e pro- 
nunzia de' vocaboli correnti che altro è per l' ordi- 
nario, se non inllcssiono e pronunzia antica, usi tata 
dagli antichi prosatori, nell'antico discorso, ecl ora 
andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare? 
di modo che quelle parole cosi pronunziato e scritto 
non altro sono veramente elio parole antiche e arcai- 
smi, in quanto cosi sono scritte e pronunziate? né 
altro è ordinariamente dire inflessioni, licenze, voci 
poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito 
una bella riflessione di Pcrtioari, Apologie^ capo XIV, 
fine, p. 131-2. Certo questa diversità d'inflossione per 
la più parto non è se (3011) non quello ch'io dico: 
cosi ne' poeti greci, cosi ne' latini (più schivi però 
dell'antico, e quindi il loro linguaggio poetico è assai 
meno distinto dalla lor prosa quanto a' vocaboli, che 
i| greco), cosi negl'italiani. Perocché non è da ere- 



(3011-3012) 



PTCK Slatti 



133 



doro elio la inilossion d'ima voce sia stimata, e quindi 
veramente aia più elegante o per la prosa o pel verso, 
perché o quanto ella è più conformo all'etimologia, ma 
solamente porche e quanto olla ò meno trita dall'uno 
familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo 
ricercata (anzi bone spesso è trivialissima 1' infles- 
sione regolare ed etimologica, ed elegantissima e tutta 
poetica la medesima voce storpiata, come dichiaro in 
altro luogo). E questo non esser trita, né anche ri- 
cercata, ma pur bene intesa, come può accadere a una 
voce, o ad una cotale inflessione della medesima? Il 
pigliarla da un particolar dialetto o 1' infletterla se- 
condo questo fa ch'ella non riesca trita all'universale, 
ina difficilmente può far ch'ella e non paia ricorcata 
e sia bene intesa da tutti. Oltre ch'ella riesco anche 
trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto 
è proprio. In verità i dialetti particolari sono scarso 
sussidio e fonte al linguaggio pootico e all'eleganza 
qualunque. Lo vediamo noi italiani in Dante, dove lo 
(3012) voci e inflessioni veramente proprio di dia- 
letti particolari d' Italia fanno molto mala riuscita, 
né la poesia nostra, né verun savio tra'nostri o poeti 
o prosatori ha mai voluto imitar Dante noll'uso cle'dia- 
letti, non solo generalmente, ma neppure in ordino a 
quello medesime voci e pronunzie o inflessioni da lui 
adoperate. Circa 1' uso e mescolanza dc'dialetti greci 
nolla inflessione dolio parole appresso Omero, non vo- 
lendo rinnovare le infinito discussioni già fatte da 
tanti e tanti in questo proposito, solamente dirò elio 
o le circostanze della Grecia o d' Omero erano diverso 
da quelle che noi possiamo considerare, e quindi per 
l'antichità od oscurità della materia non potendo nulla 
giudicarne di certo e di chiaro, ninno argomento no 
possiamo dedurre; ovvero (e cosi ponsò) quelle infles- 
sioni che in Omero s'attribuiscono a'dialotti, e da'dia- 
letti si stima che Omero le prendesse, o tutte o gran 
parie erano in verità proprie della lingua greca co- 



i;>i 



PENSiRUi (3012-30(3-3014) 



mimo del suo tempo, o d'una lingua, o vogliamo dir 
d'un ubo più 3013) antico ancora di lui; dalla qua] 
lingua comune, o fosse più antioa, o allora nsitata, 
Omero tolso quelle miicsyioni eh' egli si stima aver 
pigliato da questo o da quel dialetto indifferente- 
ìnonto e confusamente. Non volondo ammetter nulla 
di questo, dirò che in Omero la mescolanza de' dia- 
letti dovè riuscir cosi male corno in Danto. Oirca i 
poeti greci posteriori, i quali tutti (fuor di quelli che 
scrissero in dialetti privati, come Saffo, Teocrito ec.) 
seguirono intoramoiito Omero, corno in ogni altra cosa, 
cosi nella lingua, o da lui tolsero quanto il loro lin- 
guaggio ha di poetico, cioè della sua lingua formarono 
quella che si chiama dialetto poetico greco, ossia lin- 
guaggio poetico comune, la questione non è difficile a 
sciogliere. Perocché quelle inflessioni oh' ossi adope- 
ravano, benché proprie di particolari dialetti, essi 
non le toglievano da'dialotti, ma dal dialetto o lin- 
guaggio omerico, di modo ch'elle riuscivano doganti 
e pooticho, non in quanto proprio di privati dialetti, 
ma in quanto antiche ed omeriche; od erano bene in- 
tese (3014) dall'universale della nazione, né parevano 
ricorcate, perché tutta la nazione, benché non usasse 
familiarmente né in iscrittimi prosaica le inflessioni 
e voci omoricho, lo conosceva poro o v'aveva 1' orec- 
chio assuefatto per lo gran divulgamento de' versi 
d' Omero cantati da'rapsodi per lo piaaze e le taverne, 
e saputi a memoria fino da' fanciulli. Vedi p. 3041. 
Il che non accadde a'poemi di Danto, il quale non fu 
mai in Italia neppur poeta di scuola, come Omero in 
Oreeia presso i grammatisti medesimi, o certo presso 
i grammatici (vedi il Laorzio del Wetstonio, toni. II, 
p. 583, noi. 5); né il dialetto o linguaggio poetico 
italiano è o fu mai quello di Danto. Dico general- 
mente parlando, e non d' alcuni pochi e particolari 
poeti, suoi decisi imitatori, come Sazio dogli Uborti, 
l'autore dol Quadriregio .Federico Prezzi, ed alcuni 



(30 14-30! 5-30 IG) rtttfgffifil 



135 



gl'ultimo secolo, come il Varano. Neppur la lingua 
del Petrarca è quella di Dante, né da lui fu presa, 
né punto si serve de'partioolari dialetti. 

Non potendo dunque i dialetti somministrare in- 
flessioni rimote dall'uso covrente (3015) che siano 
adattato al linguaggio poetico, resterebbe per allon- 
tanar le voci comuni dalla prosa e dall' uso, ohe il 
poeta le ravvicinasse alla etimologia ed alla forma 
ch'elle hanno nella lingua madre, qualvolta nell' uso 
comune e prosaico elle ne sono lontane. Questo mezzo 
è possibile e buono e spesso adoperato da'poeti quando 
la nazione è già cólta e dotta, e la letteratura nazio- 
nale già formata. Ma ne'prinoipii ciò è ben difficile 
e pericoloso, prima perché dalla nazione ignorante 
quelle voci in tal modo rimutate corrono rischio di 
non essere intese; poi. porche presso la nazione non 
avvezza un tal rimutamento corro rischio di saper di 
pedanteria (il qual rischio dura eziandio proporziona- 
timi onte nel séguito) e di riuscire affettato. Onde la 
«tessa difficoltà che in quei prinoipii si opponeva, 
corno ho detto (p. 2836-7) al dedur piti che tante voci 
o frasi nuove dalla lingua madre, quella medesima si 
opponeva a dedur da essa lingua inusitate infusioni 
e diverse dalle correnti. (3016) 

Resta dunque per allontanar dall'uso volgare lo 
voci e frasi comuni 1' infletterle e condizionarle in 
maniere inusitato al presente, ma dagli antichi na- 
' zionali. parlatori, prosatori o poeti usitato, e dalla 
nazione ancor conosciuto e conservate di mano in 
mano negli scritti di quelli che, cercando l'eleganza, 
procurarono di scostarsi mediocremente dal volgo. Pel- 
le quali cose tali inflessioni non producono né oscu- 
rità né ricercatezza, benché riescano pellegrine e ri- 
.mote dall' uso, e perciò producano eleganza. Questo 
mezzo è usitatissimo da' poeti quando la nazione è 
Cólta, formata la letteratura, e quando la lingua scritta 
ha un' antichità. Con esso principalmente si forma, si 



136 



pensieri (30 (6-301 7-301 8) 



compone, sì stabilisce a grado a grado un linguaggio 
poetico che tuttavia più ai va differenziando dal pro- 
saico o dal familiare, finché giunge a quel punto di 
differenza, oltre il quale non è bene eh' egli trapassi, 
ftla questo mozzo necessario all'eleganza, necessaris- 
simo a potere avere o formare un linguaggio distin- 
tamente poetico e proprio della poesia, manca (3017) 
affatto ai primi scrittori e poeti di qualsivoglia na- 
zione, i quali non trovano antichità di lingua scritta, 
non ponno se non debolmente, confusamente e scar- 
samente conoscere le antichità della lingua parlata, e 
conoscendole ancora, o in quanto lo conoscono, non 
ponno se non molto parcamente adoperarla per non 
riuscire oscuri e affettati alla naziono ignorante e 
non assuefatta ad altro linguaggio nazionale mai se 
non solo al suo corrente e giornaliero. Quindi è che 
quei primi pooti e scrittori debbono necessariamente 
rivolgersi al linguaggio por la pili parto, e in genero, 
familiare, o conseguentemente eziandio pigliare uno 
stile che sappia sempre più o meno di familiare, in 
qualsivoglia materia eh' ei trattino e genere di scrit- 
tura ch'eglino esercitino (28 luglio 18213). 

* Come la lingua sascrita, prodigiosamente ricca, 
tragga e formi la sua ricchezza da sole pochissime 
radici, col mezzo del grand' uso ch'ella fa della com- 
posiziono e derivazione de' vocaboli, vodi YKneydopé- 
die. méthodique, G rammaire et Mttérature, artiete Sam- 
éttret, particolarmente il passo (3018) di M. Dow. 

A questo proposito è notabile un luogo cho si 
leggo nella Orazione delle lodi di Filippo bassetti 
(viaggiatore fiorentino morto nel 1589) dello nell'Ac- 
cademia degli Alterati V Assetato di Luigi Alamanni 
(diverso dal poeta) cho sta nello Prme fiorentine, par. 1, 
voi. TV, ediz. venez., 1730-43, p.46-7, dove puoi veder- 
lo, ed ò non molto prima del mezzo della Orazione. Di 
Filippo bassotti puoi vedere il Tirabosolii nella /Storia 



13? 



della letteratura italiana e quelle lettere del medesimo 
Sassetti eh' ei quivi accenna (ed. roman., t. VII, 
par. T, p. 240-1). Dal detto luogo si raccoglie che que- 
gli, so non erro, il primo diede notizia all' Europa 
della lingua sascrita, e molto veridica e giusta; della 
qual lingua trattò poi diffusamente un altro nostro 
italiano, il P. Paolino da S. Bartolommoo, Biblioteca 
Italiana, n° 23, novembre 1817, p. 20G (23 luglio 1823). 

* Fatum da far faris. — Dicha spngnnolo (cioè detta) 
per fortuna (come desdicha sfortuna, dichoso, desdi- 
ehada oc.) da dieta (f'emmin.. come -r, tl|iapj)iyYj, "?) (3019) 
xtcpmiiiy-rj, la d'istinto) o da dictum, come da suspeetvs 
o suspectum (gloss. cang.) sospetto , gli spagnuoli in 
femminino sospecka, invece di sospecJw (2.3 luglio 1823), 

*Àlla p, 284-5. Si vuol notare che avvinare e altri 
verbi da ma segnati alla p. 3005, i quali vengono da 
videre, serbano la forma regolare e ordinaria della loro 
derivazione dal participio in us t mentre il continua- 
tivo di video, che trovasi nel buon latino, non serba 
questa forma, o non è visore ma visere, coi composti 
invisere, revisere ec. Frattanto il francese viser, anche 
per significato, è vero continuativo di videre, ed è fatto 
da questo, non dal verbo francese che gli risponde, 
cioè voir il quale non ha mai la sillaba vis. Se però 
viser non viene da visac/e o dalla parola Vis che pro- 
priamente significa viso, benché ora non s'adopri che 
nella dizione vìs-à-vis (24 luglio 1823). 

*Alla p. 3007. Ohe tali verbi vengano da cotali 
nomi piuttosto che da' verbi corrispondenti della terza, 
si può anche dedurre dal vedere che praeeepti, (3020) 
il quale sembra venir dalla stessa radice di m/meeps 
aitcùps ec. (siccome anceps à|i!p'.Xa(p'?]<; ) il quale fa puro 
ancipitis e non ancipis o ancupis), secondo qnello che 
altrove no ho ragionato, avendo por suo genitivo prue- 



138 



l'KNSJLERi 



(3020-3021) 



cipiiis e non praecipis o pfaecupis, troviamo elio il 
verbo della prima coniugassi one che a lui corrisponde 
non è praeeiparn, né praecupare, ma praecipitare. Lad- 
dove manceps particaps ec, facendo mancipi», partici- 
pus, troviamo che si dice appunto mancipare, partiev* 
pwe,e non maneipitare, participitare oc. (24 luglio 1823). 

* Il canto fermo ò come la prosa della musica : il 
figurato la poesia (24 luglio 1823). 

*Alla p. 2997. Similmente da un verbo della se- 
conda è fatto sedaro, il quale spetta indubitatamente a 
questa categoria, o vione da sedeo,- e por significato 
n' è un continuativo. Sodare si trova ancora in signi- 
ficato neutro comò sedeo, e questo dev' essere il suo 
primitivo, Anche miserar aris, misereor eris della se- 
conda, se quello però non viene da miser. Ora parago- 
nate quel passo di Stazio: his (3021) dictix sedere minae, 
cioè, dice il Porcellini (in Sedeo, col. ult.) sedatae 
«uni, ossia cessarono o si mitigarono, con quell'altro 
antico postquam tempesta* sedavit, cioè cessò o .si mi-- 
tigò. Sedare palverem ap. Fedro è sedere, vel considero, 
vel residere faeio. Sedare curriculum è sedere faeio in 
quanto sedere significa talora consistere, fermarsi. Il 
Porcellini stesso spiega sedo per faeio ut alirptid resi- 
dat. Vedilo in Sedeo e Sedo e paragona insieme gli 
esempi e i significati dell' uno e dell'altro, od anche 
dei composti di sedeo ec. Nota che sedeo ha anche 
il suo verbo formato dal participio in ìw, cioè sessiture 
(24 luglio 1823). 

* Alle molto cose da me dette altrove per mostrare 
come la lingua greca non ha bisogno clic di poche 
radici por essere ricchissima, stante l' infinito uso 
eh' ella fa dello derivazioni e composizioni ec, o co- 
in' olla moltiplichi in infinito i suoi vocaboli primi- 
tivi ec, aggiungi la voce media ch'ella lui. a il bel- 1 



(302 1 -3022-3023) pensustii 



189 



lissimo uso oh' olla fa delle (3022) voci passive de' suoi 
verbi. Perocché di moltissimi verbi greci si può dire 
che ciascuno di essi non è uno, ma tre, e serve per 
tre; avendo l'attivo, il medio e il passivo de'mede- 
simi ciascuno un significato diverso proprio, oltre ai 
metaforici che ha per ciascuno di loro, e questi anche 
diversi, cioè 1! attivo diverso dal medio ec. 0 vogliamo 
dire che ciascuno di tali verbi ha tre bon distinti si- 
gnificati propri, oltre ai metaforici. Né questi signi- 
ficati si possono confondere insieme, perocché ciascuno 
di loro corrispondo a ima diversa e distinta infles- 
sione. Onde non si accumulano i significati in una 
stessa parola, e non ne segue 1' oscurità e ambiguità) 
né la povertà e uniformità che da tale accumulamento 
deriva nella lingua ebraica. E pur quei tre non sono 
in sostanza che un verbo, e non hanno che un tema. 
L' uso che i latini fanno del passivo non è parago- 
nabile a quello elio ne fanno i greci (oltre che il pas- 
sivo latino è difettivo e scarso, avendo bisogno in gran 
parte doli' ausiliare sum). Appresso i quali il passivo 
(3023) ha sovente una significazione propria attiva o 
neutra, diversa però da quella dell' attivo e da quolla 
del medio ec. ec. (24 luglio 1823). 

* Kecesso as è verbo di Venanzio Fortunato. Vedi 
Forcellini e glossario cang. Si potrebbe però credere 
che fosse antico, e che necessus a um antico addiottivo 
fosse originariamente participio di qualche verbo di 
cui necesso fosse continuativo. In tal caso necessitare 
latino-barbaro e italiano, neccsailar spagnuolo, nécessi- 
ter francese sarebbe un frequentativo di questo tale 
ignoto verbo. In caso diverso, se non vorremo eh' ei 
venga da necessitas, necessità, necessiti ec., diremo 
eh' egli ò fatto da neceseatxts di necesso, colla solita 
mutazione doli' a in i. Notisi che nell'esempio di Ve- 
nanzio Fortunato non è chiaro so necesso sia attivo, 
e vaglia cago, corno affermano il Forcellini e il glos- 



140 



HBNSJEB1 (3023-3024-3025) 



sai-io, ovvero neutro, e vaglia abbisognare, aver mestieri, 
Ìndie/ere, -poscere, corno in. ispagnuolo necessitar ohe si 
costruisce col genitivo (24 loglio 1828). (3024) 

* Alla p. 3009. Altresì qualunque suono o qua- 
lunque vocabolo di una lingua straniera che adoperi 
caratteri diversi da' nostri, se noi conoscendo qnolla 
lingua, non por sola favella orale, ma per iscrittati, 
ed essendo atti ed avvezzi a leggerla, concepiamo detto 
suono o vocabolo espressamente col pensiero, osso ci 
si rappresenta sotto la forma e no' caratteri ch'egli 
ha nella lingua a cui appartiene, ancorché quel tal 
suono elementare sia comune anche alla nostra ed 
espresso nel nostro alfabeto con un proprio carattere. 
Cosi sempre ci accade, fuori di qualche circostanza 
particolare, in cui la mente voglia o debba concopire, 
per esempio un vocabolo greco in caratteri latini eo. ec. 
(24 luglio 1823). 

* Alla p. 2828, fine. Notato che anche la vera pro- 
nunzia e quindi la vera armonia della lingua latina 
è da gran tempo e perduta o ignota. Oontuttociò, quan- 
tunque sia certissimo che questo ronde assai ditìicile ai 
moderni di scrivere secondo la vera indole della lin- 
gua, del giro, del periodo, della costruzione latina oc, 
nondimeno, siccome la lingua latina è morta, cosi lo 
scrittore che oggi vuole scrivere in (30251 latino le 
cosi quelli che scrissero in latino dal trecento in poi) 
può trascurare affatto la pronunzia moderna., può anche 
fino a un corto segno dimenticarsela, può astrarre af- 
fatto dall'armonia, e non considerando negli antichi 
scrittori so non lo puro costruzioni, i puri periodi ec. 
indipendentemente si dal ritmo che no risultava, si 
da quello che oggi ne risulta, seguirli e imitarli cie- 
camente tali quali sono essi, non facendo caso della 
moderna pronunzia. Ma hi lingua greca era ancor viva, 
benché la pronunzia fosso cambiata, e agli scrittori 



1 1 1 



doii ora né facile il dimenticare e astergersi dagli orec- 
chi il suono quotidiano o corrente della loro propria 
favella, né, volendo ancora seguire (come molti volle- 
ro) strettamente e imitare esattamente gli antichi, era 
loro possibile negare affatto ai loro periodi un numero 
che l'osse sentito dall'universale de' greci a quel tempo. 
Poiché questi periodi avevano pure ad esser letti e 
pronunziati da nazionali cho, quantunque non pronun- 
ziassero come una volta, intendevano però e parlavano 
tuttavia quella lingua, come (3026) materna. Onde non 
era quasi possibile dare nello scritture alla lingua, 
eli' ora pur nazionale c volgare, un ritmo al tutto, si 
può dir, forestiero e ignoto a tutti, fino allo stesso 
scrittore: eh' è quanto dire non darle insomma alcun 
ritmo (24 luglio 1823), cioè niun ritmo che alla na-, 
z-ìone a cui si scriveva, né pure allo stesso scrittore, 
riuscisse tale (24 luglio 182i)). 

* Occulto as, da oceulo-ocaultus. Notisi che peóultvs 
a um, adoperandosi sempre o quasi sempre aggetti- 
vamente (siccome fra noi occulto oc), se noi non 
conoscessimo il verbo occulo, lo terremmo certo per 
un aggettivo proprio e radicalo, e non por un participio. 
Quindi si può far ragione quanto verisimilmente io 
Subiti e talora sostenga elio altri tali aggettivi, i quali 
hanno tutta 1' estrinseca sembianza di participii, an- 
corché non usati mai come participii , e benché non 
si conósca verbo a cui spettino, tuttavoltn non sieno 
originariamente altro che participii di verbi o per- 
duti o non conosciuti per loro radice (25 luglio, di di 
San Giacomo, 1823). (3027) 

* Alla pagina 2895, fine. Da Sutùs ancora si potè 
faro do, poiché anche l'w por contrazione, nomi- 
natamente ne' participii, è solito a sparire, siccome 
l' ì. Da solutw: gli spagnuoli xoUar, noi sciolto, omesso 
l'w. Da volutus o vohitare noi voltare, e voltò, e cosi 
ne' composti involto , rivolto ec. Cosi gli spagnuoli 



142 



l'Xirsimu (3027-3028-3029) 



bacilo o vuelto; i francesi vofitc (cioè volta sostantivo) 
e quindi votìier, dove la sillaba ou equivale al nostro 
ol, come in ccOiier asr.oLtare, Volta 'per itata vieno al- 
tresì da volvtiì'e ed è contrazione di voluta. Cosi il so- 
stantivo spagnuolo inietta, cioè, voltata, ritorno 60. 
(25 luglio 1823). 

*• Ho discorso altrove di quel luogo di Cicerone 
nella Yceekkzza , dove dice che 1' animo nostro, non 
si sa come, sempre mira alla posterità ec. e ne de- 
duce eli' egli abbia un sentimento naturale della sua 
propria eternità o indestrnttibilità. Ho mostrato come 
questo effetto viene dal dosidcrio dell'infinito, eh' è 
una conseguenza dell'amor proprio, e dal continuo 
ricorrer die l'uomo fa colla speranza (3028) al futuro, 
non potendo esser mai soddisfatto del presente, né 
trovandovi piacerò alcuno, e d'altronde non rinun- 
ziando mai alla speranza, fino a trapassar con essa 
di là dalla morte, non trovando più in questa vita 
dovo ragionovolmente fermarla. Ma il suddetto effetto 
non è naturale. Esso viene dall' esperienza già fatta, 
che la memoria degli uomini insigni si conserva, dal 
veder noi medesimi conservata presentemente e cele- 
brata la memoria di tali uomini, o dal conservarla e 
celebrarla noi stessi. Ondo, introdotta nel mondo que- 
sta fama superstite alla morte, essa è stata ed è bra- 
mata o cercata, come tanti altri beni, o di opinione o 
qualunque, di cui la natura niun desiderio ci aveva 
ispirato, e clie sono comparsi nel mondo di mano in 
mano per varie circostanze, non da principio, né creati 
dalla natura. Noi primissimi principii della società, 
quando ancor non v'era esempio di rammemorazioni 
e di lodi tributate ai morti, neppur gli uomini corag- 
giosi o magnanimi, quando anche desiderassero la 
stima de' loro compagni e contemporanei, pensarono 
mai (3029) a travagliare per la posterità, né, molto 
meno, a trascurare il giudizio de' presonti per procu* 



(3029-30301 pensieri 148 

jfju'si quello de' futuri, o rimetlorsi alla stima de' fu- 
turi. Che so il tempo ohe ho dotto, colle circostanze elio 
ho supposte, uon v'è mai stato, supponendo però ch'egli 
sia stato o sia mai per essere in alcun luogo, certa- 
mente ne verrebbe l'effetto elio lio ragionato, cioè che 
ninno, benché magnanimo, benché insigne tra'suoi pon- 
ti azionali o compagni, avrebbe o concepirebbe alcuna 
cura o pensiero della posterità (25 luglio, di di San 
Giacomo, 1823). 

* La vita umana non fu mai più felice elio quando 
fn stimato poter esser bella e dolce anche la morte, 
né mai gli uomini vissero più volentieri che quando 
furono apparecchiati e desiderosi di morire per la pa- 
tria e por la gloria (25 luglio, di di San Giacomo, 1823). 

* In molte altre cose l'andamento, il progresso, lo 
vicende, la storia del genero umano è simile a quella 
di ciascuno individuo poco meno che ima figura in 
grande somigli alla medesima figura fatta (3030) in 
piccolo; ma ira l'altro cose, in questa. Quando gli 
uomini avevano pur qualcho mezzo di felicità o di 
minore infelicità eh' al presente,, quando, perdendo la 
vita, pordovano pur qualcho cosa, essi l'avventura- 
vano spesso e facilmente e di buona voglia, non te- 
mevano, anzi cercavano i pericoli, non si spaventa- 
vano della morte, anzi l'affrontavano tutto di o coi 
nomici o tra loro, e godevano sopra ogni cosa e sti- 
mavano il sommo bono, di morire gloriosamente. Ora 
il timor dei pericoli è tanto maggiore quanto mag- 
giore è l'infelicità e il fastidio di cui la morteci li- 
bererebbe, o so non altro, quanto è più nullo quello 
che morendo abbiamo a perdere. E l'amor della vita e 
il timor delfa morte è cresciuto noi genere umano e 
cresce in ciascuna nazione secondo che la vita vai 
meno. Il coraggio è tanto minore quanto minori beni 
egli avventura, e quanto mono ei dovrebbe costare, 



pensieri (3030-3031-3032) 



La morte elio por gli antichi cosi attivi e di vita, so 
non altro, cosi piena, era talora il sommo bene, 
è stimata e chiamata più comunemente il sommo 
malo quanto la vita è più misera. E ben (3031) mito 
che le nazioni più oppresse, e similmente le classi 
più deboli e misere e schiave nella società, sono lo 
meno coraggioso e le più timide della morto, e lo più 
sollecite e gelose di quella vita eh' è pur loro un si 
gran poso. E quanto più altri le opprimo e rende in- 
felice la vita loro, tanto ne le fa più studiose. E in- 
somma si può diro ohe gli antichi vivendo non tome- 
vano il morire, e i moderni, non vivendo, lo temono ; 
e che quanto più la vita dell'uomo ò simile alla morte, 
tanto più la morto sia temuta o fuggita, quasi ce no 
spaventasse quolla continua immagino clic nella vita 
medesima ne abbiamo e contempliamo, e quegli effetti, 
anni quella parte, olio pur vivendo ne .sperimentiamo. 
E viceversa. 

Or si applichi quol eh' io dico degli antichi e dei 
moderni agl'individui giovani o vecchi, in qualunque 
età dello nazioni e del genere umano, e troverassi pro- 
porzionatamente la modosima differenza e di circo- 
stanze e di effetti (25 luglio 1828). (3032) 

* Visto italiano e spaglinolo participio di vedere, è 
manifesta contrazione di visitai;, come quinto, chie- 
sto ec. di qicaesìtus (vedi p. 2893, sgg.). Cosi vista so- 
stantivo verbale italiano e spagnuolo è contrazione 
di visita, voce latino-barbara per visitati us cioè visus 
us. Cosi i composti di vedere hanno, per esempio, av- 
visto, rivisto, provvisto co. La voce vista pei' veduta, e 
con altri sensi simili, eh' ella ha pure appresso di 
noi, è latino-barbara. Vedila noi glossario. E ch'olla 
sia contrazione di visita, com' io dico, e quindi visto 
sia contraziono di visitus, vedi il glossario medesimo in 
vista, 4°. Ora consideriamo. 

1°, Il latino video, da cui viono il nostro vedere e 



(3032-3033-3034) frnrikrj 



lo spagnuolo ver fa nel participio, non visitila, ma vi- 
sus. Similmente viso is anomalo, elio no deriva. Ma 
(secondo i principii da me posti e dimostrati altrove, 
igh è certissimo che l'antico participio di video do- 
vette esser visitila (anomalo invece di vìdittuì), come di 
doreo fu docitus. Quindi il nostro italiano e spagnuolo 
vinto ò contrazione (usitatissima anche nell'antico e 
buon (3033) latino: vedi p. 2894 e sog.) dell'antico 
visitus; egli è un latinissimo vistus anteriore a visun 
e più regolare. Or come mai questo participio, porduto 
affatto nel latino conosciuto, questo participio anti- 
chissimo, pivi antico e più regolare dell'usato dagli 
scrittori latini, comparisce per la prima volta noi. la- 
tino-barbaro, e quindi si trova usitatissimo e comu- 
nissimo in due lingue moderne figlio della latina, e 
trovasi in luogo del visus dol latino conosciuto, il qual 
liisus nello detto lingue non trovasi V Porse questo par- 
ticipio, indipendentemente dal latino, è stato fatto in 
dette lingue dal verbo vedere secondo le regolo di 
Coniugazione proprie, non del latino, ma di esse lin- 
gue? Anzi, secondo queste regole, egli è in esso lingue 
affatto anomalo e irregolare e fuori d'ogni ordine; ei 
non ha in esse lingue veruna origine; e in luogo di 
esso, la lingua italiana, secondo le regole delle sue 
coniuga/ioni, doe dire veduto ') (lo spagnuolo dovrebbe 
dir veido o vi.do), e lo dico infatti ancor esso. Ma que- 
sto secondo participio (3034) italiano, regolare e mo- 
derno è molto meno volgare e più nobile, e qtiell' altro 
irregolare, antico o latino è più pilebeo, e forse, almeno 
in vari luoghi, il solo che la plebe adoperi, siccomo 
in ispagnuolo egli è unico si per la plebe ohe per la 
gente cólta e por la scrittura. Dondo pertanto questo 
participio nel latino-barbaro, e nelle lingue moderno, 



J ) Veduto sarebbe appunto il regolairisaìmo vìdilufi, sepoudo il flètto 
;i pag. 3074, segg, 3362-8. Cosi da fundo regolarmente fnndilm dimo- 
strato A* f mutilare, t da medeo, mtdUui dimostrai» d» vuotare, come al- 
trove dico, cìih'i p. 3352-60. 

Lkoi>ahi)i. — Pensieri, V. li) 



làG 



pensieri (3034-3035-3036) 



s' ei non viene dal latino conosciuto, né dallo radici 
e regole d'esso lingne? Qual altro mezzo ce lo può 
aver conservato, se non il volgare latino, consorvatore 
dèli'. antichità pivi che il latino scritto, e in questo 
prosente caso più regolare eziandio? 

2°, Visito os si fii frequentativo di viso is. La- 
sciamo stare «'egli sia di vino is, o piuttosto di video. 
il cui participio è lo stesso, cioè visus. Ma se l'antico 
participio dell'uno e dell'altro o d'ambedue, fu visi- 
tus, il verbo visito potrà eziandio esser continuativo 
di qual de' due si creda meglio, e venire non da visus 
o supino visum, ma da visitus, o supino visifum. Da 
visus altresì nacquero parecchi verbi di cui vedi la 
(3035) p. 284-3, seg., 3005, 3019. Se visito viene da vi- 
situs di video, egli non sarà né figlio di viso is, né 
diverso da esso per formazione o per significato origi- 
nario (cioè esso frequentativo, e viso continuativo), anzi 
sarà fratello di viso is, formato nello stesso modo, cioè 
dal participio in U8 di video, continuativo coni' osso 
viscre; ma sarà fratello maggiore, porche formato da 
un participio più antico e più regolare di visus, o 
piuttosto sarà originalmente tutt'un verbo con viso is, 
perdio formato da un medesimo participio, cioè visir' 
tus detto anche vism per contrazione e anomalia. 

3°, Ho sostenuto, p. 2932, segg., 1' esistenza del 
verbo pisare o pisere (tutt'nno con pigiare e pìsar) fatto 
da un pisus participio di pinsere. Ora coli' esempio di 
visto, e coli' aiuto delle considerazioni ch'esso ci sommi- 
nistra, confermeremo quel nostro discorso; e all'in- 
contro con esso discorso confermeremo il presento. TI 
participio regolare di pinso è pinsitus che tuttavia 
sussiste. Ecco un gemello di visitus. Da jrinsitus si 
fece per contrazione (3036) o anomalia pinsus che al- 
tresì sussiste. Ecco da visitus, visus che solo sussiste 
nel latino conosciuto. Altresì da pinsitus si fece pistus 
elio parimente sussiste. Questa formazione suppone o 
dimostra duo cangiamenti; primo, la detrazione della 



147 

(303G-3037) pensieri _ 

E onde pisitus che non subiste, ma si prova, come ve- 
ilete. Ed eccoci di nuovo a visito*- Secondo, la solita 
detrazione dell'i (come in postos per po.nt.us), onde 
tistug oh' è il solo participio conservato nelle lingue 
moderne (pesto italiano, pista italiano volgare o spa- 
gnolo), da cui pistare. Ed eccovi appunto il visius 
conservato nelle lingue moderne in luogo e di msdus 
■ e di visus '), ondo avvistare ec. (vedi la p. 2844, 3005). 
Ma siccome da pìnsitus si fece pinsm, detratte 
le lottere it, cosi appunto da pùitus pmis, non altri- 
menti che pisius. E ciò né più né meno che da vi- 
tto* visus, non altrimenti che visto*. E siccome 
da visus, anomala contrazione di visitus, si fece 1 ano- 
malo viso is in cambio di visó as (qui si può vedere 
la n 3005, circa il verbo viser , avvitare ec), cosi e 
curioso a notare che anche da pism anomala contra- 
zione di pinato* o visito* si trovi o si creda fatto, ol- 
tre (3037) a pino as, e fora' anche in luogo di questo, 
l'anomalo continuativo pko is. , 

E qui possiamo considerare quanti particrpu in 
us abbia uno stesso verbo, cioè pinso, o piuttosto quanti 
no sieno nati da un solo, cioè pinsitv*, parte esistenti, 
parte dimostrati per ragione, e alcuno di questi da la 
nostra teoria de' continuativi. E bone il considerarlo, 
perché ciò serva d'esempio, e quindi si f uccia ragione 
quanto giustamente io dica che moltissimi verbi della 
prima, che sembrano tutt' altro, sono veri continua- 
tivi di verbi o noti o ignoti (e vedi a questo propo- 
sito p. 2928-30), e quanti che si credono puri agget- 
tivi sono veri participi! di verbi talora anche no i, 
ina non riconosciuti por loro padri (del che vedi la 
p. 3026). 



*) L'insto, censitila » emms a 
alone dn me latta eircn tali verbali 
Intero negli scrittovi lutini è pili 
cenali». Cosa simile ali» presento ili 



iim, mulo centi» U*, BBOonfiO l'osserva- 
della quarta. HotftbUe è ohe censitus 
raro o pirt moderno olio 11 contratto 
vita» per visitus. Vedi p. 3815, Bne. 



1*8 p^uaiHW (3037-3038-3039) 

Dunquo da pinso 

PÌnsUua 1 



l "1 

Pinsus 8 Pisitus 3 



r 1 

Pistus 4 Pisus " 

1, 2, 4, esistenti nói buon latino; 3, dimostrato por 
ragiono grammaticale da pisttis; 5, dimostrato da'eon- 
tinuativi pisare o pisére, pigiare, pisare. (3038) Chi 
volesse che pista non fosso da pisitus ina da pinsus, 
detrattane la n, come da pinsitus in pisitus, poco motte 
terebbo. Avremmo sempre e in pinsus e in pisus la 
detrazione dell' it a dimostrare la derivazione di vi- 
sita da visitùs, e 1' anteriorità di questo, come anche 
di visius ohe ha sola una lettora meno di visitile, e 
non dne (25 luglio, di di S. Giacomo, 1823). Vedi la 
pag. seguente. 



* Alla p. 2929. Cosi da vivo-vixi-victum, si dovette 
faro anche vixum o vixus. Lo deduco dal nostro an- 
tico visso, il quale non è contrazione di vissuto, per- 
ché tal contrazione non è doli' indolo e uso della nostra 
lingua. Bensì vissuto (che molti dicono e dissero più 
regolarmente vivido, anello trecentisti, corno ho tro- 
vato io medesimo , non altrimenti che da ricevuiUB 
rkevvro) sombra venire da un altro, od anche più 
antico e regolare participio latino vixitus, cambiato 
1'/ in u, comò in latino a ogni tratto (vedi p. 2824-5, 
principio e 2895), e come particolarmente in italiano 
ne' participii passivi por proprietà, costume c regola 
della lingua (venditus-venduto, redditus-renduto, per- 
ditus-purduto, seditus, antico (3039) e regolare-secZjt^, 
debitus, da altra coniugazione - devido, tenitus, antico 
e regolali! - tenuto, ct-dilu», antico e regolare - ceduto) * 



(3039-3040) ì-KNSim ti ^ 

E qui è da. osservare la conservazione nel nostro 
volgare, di questo antichissimo vkms ignoto nel la- 
tino, simile a quella di vistus, di cui veggasi p. 3032-4 
(25 luglio 1823). Sia che v'isso sia fatto dal supino 
vixwn ignoto, o dall' ignoto participio neutro vixus, 
in luogo del quale non si trova seppur 'victus a wm 
(trovandosi vioiim supino), sebbene dovette esservi, 
secondo quello che di tali participii neutri ec. ho dotto 
altrove. E infiniti ne consorvano le lingue tìglio, che 
non si trovano nel latino scritto (25 luglio, di di S. Gia- 
como, 1823). 

* Alla pag. antecedente. Chi poi volesse che pisarv 
non venisse^da pi$us (benché pur se n'abbia un bol- 
lissimo esempio in visere da visus, siccome ho detto), 
ma che (s' ei veramente esistè) fosse lo stesso che 
pinsere, detratta la n comò in pistus, mi darebbe 
altresì' poca noia. In tal caso pisare non sarebbe fra- 
tello ma figlio di pìsere; e corto esso e pisar e pi- 
giara verrebbero da pisus, come dimostrano gì' infiniti 
(3040) esempi che della formazione di tali verbi della 
prima maniera da' participii in us d'altri verbi, rac- 
coglie la mia teoria do' continuativi ec. ec. (26 luglio, 
di di Sant'Anna, 1823). Vedi p. 3052. 

* L' uomo in cui concorressero grande e cólto in- 
gegno, e risolutezza, si può affermare sena' alcun dub- 
bio che farebbe e otterrebbe gran cose nel mondo, e 
che corto non potrebbe restaro oscuro, in qualunque 
condizione l'avesse posto la fortuna dolla nascita. Ma 
l'abito della prudenza nel deliberare esclude ordina- 
riamente la facilità e prontezza del risolverò, ed anche 
la fermezza n eli' operare. Pi qui è che gli uomini d'in- 
gegno graudo od esercitato sono per lo più, anzi quasi 
sempre, prigionieri, per cosi diro, dell' irresolutezza, 
difficili' a risolvere, timidi, sospesi, incerti, delicati, 
deboli nell'eseguire. Altrimenti essi dominerebbero il 



i :>( ' 



i-KKSiKRi (3040-3041-3042) 



mondo, il quale, perché la risolutezza por so può sem- 
pro pivi elio la prudonza sola, fu ed è e sarà sempre 
in balia degli uomini mediocri (26 luglio, di di San- 
t'Anna, 1823). 

* Alla p. 2864. Avolo, cibitelo, ayeul da avulus. Noi 
abbiamo anche il positivo avo (20 luglio 182B). Tedi 
p. 3054, 3063. (3041) 

* Alla p. 30 1 4. Io credo por certo che in qua- 
lunque modo quelle inflessioni, voci, frasi ec. che in 
Omero si credono proprie di tale o tal altro dialetto 
fossero al suo tempo per qualsivoglia cagione cono- 
sciute ed intese da tutte le nazioni greche o, so non 
altro, da una tal nazione (come forso la ionica), alla 
guai sola, in questo caso, egli avrà avuto in animo 
di cantare e di scrivore, e avrà probabilmente can- 
tato e scritto. Quanto agli altri poeti, se le ragioni 
ohe ho addotto por, ispiegaro come , malgrado 1' uso 
de' dialotti, essi fossero universalmente intesi, non 
paressero bastanti, si osservi che effettivamente in 
Grècia, siccomo altrove, i poeti cessarono ben presto 
di cantare al popolo (e cosi pur gli altri scrittori), e 
il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligi- 
bile al volgo, dal cui idioma esso era anche più sepa- 
rato che non è la lingua poetica italiana dalla volgare 
e familiare. Scrissero dunque i poeti per le persone 
cólte, le quali, intendendo e studiando tuttodì e sa- 
pendo a memoria i versi d'Omero, e citandoli, paro- 
diandoli, alludendovi a ogni tratto (3042) nolla cólta 
conversazione e nella scrittura, intendevano anche fa- 
cilmente gli altri poeti o il linguaggio pootico greco, 
benché composto delle proprietà di varii dialetti. Pe- 
rocché esso era tutto omerico, coinè ho detto , sia in 
ispecie sia in genere; cioè lo inflessioni, le frasi le 
voci che lo componevano o erano le identiche ome- 
riche (e tali erano in fatti forse la più gran parte), 
o erano di quo] tenore, di quella origine, derivate o 



(3042-3043-3044) i-kn sieki 151 

l'ormate da quelle di Omero, o tolte dai fonti e dai 
luoghi ond' egli le trasse, e dò secondo i modi e le 
leggi da lui seguite. Quei poeti che scrissero dopo 
Omero al popolo, o per il popolo composero, come 1 
drammatici, poco o nulla mescolarono i dialetti, c 
no segue effettivamente che se talvolta il loro stile e 
omerico . come quello di Sofocle, il loro linguaggio 
però non è tale. Esso è attico veramente, siccome fatto 
per gli ateniesi, se non forse nei pezzi lirici, i quali 
anche per la natura del soggetto e del genere sa- 
rebbero stati poco alla portata degl'ignoranti. In ef- 
fetto Frinico appresso l'ozio (cod. 158) conta fra' mo- 
delli, regole, (3043) norme del puro e schietto sermone 
attico i tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici 
in quanto sono attici, perocché questi talora per 
ischerzo o per contraffazione mescolarono qualche cosa 
d'altri dialetti, e ciò non appartiene al nostro pro- 
posito, ed alcuni tragici, forse, avendo rispetto al 
gran concorso de' forestieri che d' ogni parto della 
(Uccia accorrevano alla rappresentazione dei drammi 
in Atene, non avranno avuto riguardo di usare al- 
cuna cosa d' altri dialetti. Ma generalmente si vedo 
che il dialetto de' drammatici greci è un solo. E 
del resto, siccome tra noi o ne' teatri di tutte le 
cólte nazioni, benché la più parto dell' uditorio sia 
popolo , nondimeno i drammi che s' espongono non 
sono scritti né in istile né in lingua popolare, ma 
sempre cólta, e bene spesso anzi poetichissima e di- 
versissima dalla corrente e familiare ed oziandio dalla 
prosaica cólta: cosi si deve stimare che accadesse ap- 
presso a poco più o meno anche in Grecia o in Ateno, 
dove i giudici de' drammi cho concorrevano al premio 
(3044) non era filialmente il popolo, ma uno scelto 
e piccol numero d'intelligenti, o dove le persone cólte 
fra quelle che componevano 1' uditorio erano per lo 
meno in tanto numero come fra noi. Vedi il Viaggio 
di Allocarsi) cap. 70, 



152 



l'HNSlKItl 



(3044-3045-3046) 



Altri pooti non drammatici si ristrinsero pure 
a tale o tal dialetto particolare, e per conseguenza 
scrissero a una sola nazione o parto della Grecia e 
q uosta si proposero por uditorio (com* è verisimilis* 
simo che facesse anche Omero), ué questi furono po- 
chi, anzi fra gli antichi furono i piti. E si può dir 
che la totale, confusa, indifferente, copiosa mescolanza, 
de' dialetti nel linguaggio poetico greco, c il seguir 
ciecamente la lingua e l'uso di Omero non sia pro- 
prio so non de' poeti greci più moderni, e nella deca- 
denza della poesia, come Apollonio ttodio, Arato, Calli- 
maco e tali altri dei tempi de' Tolomei, quando già la 
baso della letteratura greca era l'imitazione de' suoi 
antichi classici. Porocché di Esiodo contemporaneo di 
Omero, o poco anterioro o posteriore, non è maraviglia 
so il suo linguaggio si trova omèrico: spieghisi l'uso 
di (3045) questo linguaggio in lui colle ragioni e con- 
sirier, zioni stesse con cui si spiega in Omero. In Ana- 
creonte v' ha pochissima mescolanza di dialetti (vedi 
Fabricius, BiUiotheca Graeca, in Atiacr.). Certo il suo 
Unguaggw è tutf altro da quello di Omero. Esso è io- 
nico. Saffo scrisse in oolico. Empedocle, benché sici- 
liano e pitagorico, adoperò invece del dorico l'ionico 
(vedi Eabricius in Empedocle, Giordani snW Empedo- 
cle di Scinà, fine dell' articolo secondo). Eorse che il 
dialetto ionico era allora il più comune della Grecia? 
Probabile, poi gran commercio di quella nazione tutta 
marittima e mercantile. Eorso quello che noi chia- 
miamo ionico non ora in quel tempo elio il linguag- 
gio comune della Grecia, siccome poi lo fu con corte 
restrizioni l'attico, che nacque pur dall' ionico? Pro- 
babile ancora; o in tal caso sarebbe risoluta anche la 
quistione intorno ad Omero, il quale da tutti ò rico- 
nosciuto por poeta principalmente ionico di linguag- 
gio; e si confermerebbe la mia opinione, che il lin- 
guaggio da Ini seguito non fosso allora che l' idioma 
comune di tutta la Grecia, siccome V italiano (3046) 



(3046-3047) r-EKsmti 153 

[del Tasso è l' italiano comune di tutta V Italia. 0 fotte 
L Grecia era ancor troppo poco cólta universalmente 
per aver un linguaggio comune già regolato e perfetto, 
e in mancanza di questo serviva l' ionico, corno il pm 
Ivulgato, perché proprio della nazione più commer- 
ciante? 0 finalmente Empedocle scelse l' ionico per 
imitare e seguire Omero? Molto probabile. In Pindaro 
e in altri lirici del suo o di simil genere la mescolanza 
de' dialetti non fa maraviglia. Essa è licenza piutto- 
sto che istituto (kw^Kiw); e questa licenza è naturale 
in quel gonere licenziosissimo in ogni altra cosa, come 
stile immagini, concetti, transizioni, sentenze ec 

Questa mia sentenza che il creduto moltiplico 
dialetto di Omero non fosso che il greco cflinune di 
allora, o non fosse che un dialetto solo al quale ap- 
partenessero tutte quello proprietà che ora a molti e 
diversi si attribuiscono, credo che sia sentenza già 
sostenuta e (3047) anche generalmente ricevuta og- 
gidi appresso gli eruditi stranieri (2G luglio 1823, di 
di S. Anna). 

* La forza, l'originalità, l' abbondanza, la sublimità 
ed anche la nobiltà dello stilo, possono, certo in gran 
parte, venire dalla natura, dall'ingegno, dall'educa- 
zione, o col favore di queste acquistarsene m breve 
l'abito, ed acquistato, senza grandissima fatica met- 
terlo in opera. La chiarezza e (massime a' di nostri) 
la semplicità (intondo quella eh' è quasi uno colla 
naturalezza o il contrario dell' affettazione sensibile 
di qualunque genere ella sia, ed in qualsivoglia ma- 
teria e stile o composizione, conio ho spiegato altrove), 
La chiarezza e la semplicità (e quindi eziandio la gra- 
zia che senza di queste non può stare, e che in esse 
por gran parte o ben sovente consiste), la chiarezza, 
dico, e la semplicità, quei pregi fondamentali d'ogni 
qualunque scrittura, quelle qualità indispensabili, anzi 
di primissima necessità, senza cui gli altri pregi a 



154 



pensieri (3047-3048-3049) 



nulla, valgono e collo quali ninna, scrittura, benché 
ni un' altra dote abbia, ó mai disprogevole, sono tutta 
e per tutto opera, dono ed effetto dell'arte. (3048) Le 
qualità dove l'arte dee meno apparire, che paiono le 
più naturali, che debbono infatti parere le più sponta- 
nee, che paiono le più facili, che debbono altresì pa- 
rer conseguite con somma facilità, l'ima delle quali 
si può dir che appunto consiste nel nascondere in- 
tieramente l'arto, e nella niuna apparenza d'artificioso 
e di travagliato; esse sono appunto le figlie dell'arto 
sola, quelle che non si conseguono mai se non collo 
studio, le più difficili ad acquistarne l'abito, le ul- 
time che si conseguiscano, e tali che acquistatone 
l'abito, non si può tuttavia mai senza grandissima 
fatica metterlo in atto. Ogni minima negligenza dello 
scrittore noi comporre toglie al suo scrivere, in quanto 
ella si estende, la semplicità e la chiai-ezza, perché 
queste non sono mai altro che il frutto dell'arte, sic- 
come abitualo, cosi ancora attuale; porche la natura 
non le insogna mai, non le dona ad alcuno ; perché 
non è possibile eh' elle vongano mai da so, chi non le 
cerca, né che veruna parte (3049) di veruna scrittura 
riesca mai chiara, né semplice per altro, che per 
espresso artifizio e diligenza posta dallo scrittore a 
farla riuscir tale. E togliendo immancabilmente la 
chiarezza o la semplicità, ogni minima negligenza 
dello scrittore inevitabilmente dannoggia, e in quella 
tal parte distrugge si la bellezza, si la bontà di qual- 
sivoglia scrittura. Perocché la semplicità e la chiarezza 
sono parti cosi fondamentali ed essonziali della bel- 
lezza e bontà degli scritti, ch'elle debbono esser con- 
tinue, né mai per niuna ragione (so non por ischerzo 
o cosa tale) elle non debbono essere intermesso, né 
mancare a veruna, benché piccola, parte del compo- 
nimento. La forza, la sublimità, l'abbondanza o la bre- 
vità e rapidità, lo splendoro, la nobiltà medesima, si 
possono, anzi ben sovente si debbono intermettere nella 



(3049-3050-3051) ^jPENSima ; 

LritoTelle possono, anzi debbono avere quando il 
più quando il meno, si dentro una medesima, come in 
Iverse composizioni e generi; elle possono esser di - 
gerenti da se medesime, secondo le scritture e le parti 
e circostanze (3050) e occasioni di questo anzi elio 
né deggiono né possono altrimenti Ma la grezza e 
L semplicità non donno aver mai né,l più né U meno; 
in qualsivoglia genere di scrittura, in V&gg» 
in qualsivoglia parte di qualsia componimento, elle, 
"on solo noi hanno a mancar mai pur un attimo ma 
Senno sempre e dovunque e appi-esso ogni .ci ttozc 
esser le medesime in quanto a se (benché con divers 
mozzi si possono procurare e dar loro diversi aspetti 
e diverse circostanze), sempre della medesima quan- 
tità, per cosi dire, e sempre uguali a se stesse Bel- 
l'esse? di chiarezza e semplicità e nell'intenzione di 
[. questo essere (26 luglio 1823, di di b. Anna). 

* È ben difficile scrivere in frotta con chiarezza e 
semplicità; più difficile che con efficacia veemenza, 
Spia, ed laiche con magnificenza di stile. Nondimeno 
la fretta può stare colla diligenza. La semplicità e 
chiarezza se può star colla fretta, non può certo stai 
colla negligenza. È bellissima nelle scritture un ap- 
parenza di trascuratezza, di sprezzatura, un abbandono, 
nna quasi noncuranza. (3051) Questa e una delle spe- 
cie dèlia semplicità. Anzi la semplicità più o meno o 
sempre un'apparenza di sprezzatura (benché per le di- 
verse qualità ch'ella può avere non sempre ella pro- 
duca nel lettore il sentimento di questa sprezzatili a 
come principale e caratteristico), perocch ella sempre 
consiste noi nascondere affatto l'arte, la fatica e la 
ricercatezza. Ma la detta apparenza non nasce mai 
dalla vera trascuratezza, anzi per lo contrario da mol- 
tissima e continua cura e artifizio e studio. Quando 
la negligenza è vera, il senso che si prova nel legger 
lo scritto è quello dello stonto, della fatica, dell arte, 



l- r >(> WlHSnau 1 305 1-3052-3053^ 

dolla ricorcatey.ua, della difficoltà. Perocché la facilità 
che si dee sentire nelle scritture è la qualità più dif- 
ficile ad ossor loro comunicata. ~Né senza stento gran- 
dissimo si consegue né l'abito né l'atto di comuni- 
carlo loro (27 luglio 1823). 

? Voce non esistente nel latino scritto, comune però 
alle tre lingue tìglio : Speranza, espérance, esperanno,, 
cioè sperantia, verbale di (3052) spero, fatto secondo 
1' uso del buon latino, come constantia, instantìa, re- 
dundantia oc. (27 luglio 1823). 

* Alla p. 3040. Qua io credo che si debba riferire 
il verbo -posare (frane, posar, ondo déposer , opposer, 
frupposer, eomposer, apposer, disposar, exposer, propo- 
ser, imposer ec. ec.) in quanto ei significa por già, de- 
porre, con tutti i suoi derivati ec. in questo senso. 
Che riposare e posare por quiescere vengano da pausa, 
pausare ec. (e cosi il francese reposer ec.) l'ho detto in 
altro luogo, lo dimostra l' uso del verbo pausare ec. ec. 
nel glossario cang. e va bone. Ma cho posare , posar, 
déposer per deporre vengano da pausare, non da po- 
nera, e non siano quindi affatto diversi da posare ec. 
per quiescere, benché suonino allo stesso modo, non 
posso in alcun modo persuadermelo, benché trovi nel 
glossario un esempio dove pausare sta per deporre. 
Io credo che sia sbaglio di copista (o dolio stesso au- 
tore, ignorante, come tutti allora orano, della lingua 
stessa barbara) che ha scritto V au per l'o, sillabe so- 
lite a confondersi, massime ne' bassi tempi, e massimo 
avendovi un altro verbo similissimo, cioè pausare 
(3053) per riposare, a cui V au veramente conveniva. 
Posare per deporre dee certo venire da postiti*, con- 
tratto in postai, conio visitus-visus, pinsUìis-pinstis, 
pprìtw-pisus, onde viser, pisare. Da posittis non con- 
tratto viene depositare e lo spaglinolo depositar, di 
cui pure ho parlato altrove. Aggiungete che poser in 



157 

(3053-3054) rBsàrgni •__ 

^■™7non vale bene spesso altro ohe propriamente 

non hi nientissimo a far con ***** ° 
t se non in quanto quest'ultimo talvolta significa 
E<L, f«r ta U«, e in questo senso egli è un al o 
Ce viene altresì à.poner, Da postw -viene 

italiano, «ori* rf^VSf^S 
Moderno tecnico (27 luglio 1823). Vedi p. 3058. 

* Pausare poi potrà venir da pàusa , la qual voce 
Lne rió^MaVtrebbe anche (in sieme » con j^ 

tinnativo fatto da un i>««^ ^ 1 fv! Zo 
navo o siimi verbo pari al sopraddetto verbo greco 
E Porcellini e quello che altrove ho 
: voci in un pensiero separato, e il glossario (27 lu- 
1 glio 1823). (3054) 

* A proposito di quel che ho detto 

del mio disborso sui continuativi circa everter*, ^ 
? rar eo. vedi il glossario cang. in «pam», 3 e 5 (27 
glio 1823). 

* Oyrtdh» da .pé»».* gel,. La stessa metafora 
l adoperata da' latini o greci por «^^.Jf^ 0 

naturale adoprasi da' francesi per 1" arcale. Sto, 
bwiro di cristallo fattoio (27 luglio 1823). 

* Alla p. 3040, fine. Questi tali diminutivi comuni 
a tutte tre le lingue figlie dimostrano che 1 «odi 
essi in luogo o significato de' positivi viene dal latino 
massimo che anche nel buon latino si trovano molti 
diminutivi usati in luogo de' positivi disusati o. per- 
duti o meno usati, ovvero indifferentemente dai posi- 
tivi ec. eo. ec. I quali fanno ben probabile che 
volgo o il sermon familiare latino usasse nel modo 
stesso anche que' diminuitivi positivati che oggi 
s'usano o in tutte tre le lingue figlie, o m alcuna d, 
loro oc, da noi in parto annoverati eo. oc. ec. 



158 



pensieri (3054-3055-3056) 



Al qual proposito si osservi la voce fabula, fa- 
bella, ec., ondo fabula as, fabulor art», e, favellìi., favel- 
lare oc, comò ho largamente detto altrove. Ch'ella 
venga da fari lo credo, ma parmi eziandio chiaro 
ch'ella è un diminutivo d'altra voce. E tanto pili che 
non ai dice fabulella, ma fabella, altro diminutivo, 
che non vien da fabula, ma pare che insieme con que- 
sto dimostri un terzo (3055) e positivo nome, del 
quale ambedue sieno diminutivi '). Questo positivo 
è ignoto nel latino. Non vi si usano che i detti di- 
minutivi, col verbo diminutivo fabula oc. Ma noi ab- 
biamo la voce fiaba che significa appunto favola; e 
che poi fu applicato particolarmente a certe strava- 
ganti composizioni teatrali , come anche fabula in 
latino fu applicato a significare i drammi in senso 
non diminutivo, ma positivo. Dubito forte che questo 
fiaba sia voce antichissima nel latino, perduta nello 
scritto, conservata noi volgare fino a noi (21 lu- 
glio 1823). 

* Como pedantescamente 1' ortografia francese sia 
modellata, anzi servilmente copiata dalla latina, si può 
ossorvar nell' uso dell' h che in parole o sillabe affatto 
compagne di pronunzia e di suono, non hanno 1' h se 
in latino (o in greco ce.) non l'avevano, se l'avevano 
l' hanno anche in francese. Come in Christ-cristaty 
technique, théologie, homme-omettre ec. Cosi dite del 
ph. } doli' y ec. Cosa veramente pedantesca o infilo- 
solica (3056) elio parole nazionali usualissime, volga- 
ri ssime s' abbiano da scrivere non come la nazione 
lo pronunzia, ma come le scrivevano quelli dalle cui 
lingue esso vennero, i quali cosi le scrivovano per- 
ché cosi le pronunziavano, giacché anche i latini pro- 

') botate però ohe similmente bì ili populut (mulo paptilo e 
populor) e pnpelhis. In Tedio, IV, 7, v. 23 fabella is vero diminutivo di 
fabula, conio popeMus lo « ili pnpulus. In tal caso favella e favellare, 
die i latini dicevano fabula o fabularc, appartengono alisi classe de 1 no- 
stri diminutivi prèsi invero de 1 positivi. Abbiamo nmmo favola positivo, 
ina in nitro nonno, pur lutino poro. Vndi p. 3062. 



(3056-3057) p ensieri 159 

Iniziavano, per esempio, 1' y come u gallico ec. (seb- 
: bene anch'essi da' tempi di Cicerone in poi peccarono 
j nn poco nella servile imitazione della scrittura greca 
i circa la parole venute o nuovamente prese dal greco), 
: vedi Desbillons, «dPfirtedr.,Manheim,178C, p. LXV1H. 
: Cho so lo voci nasalizzate in una lingua, e mutate 
i affatto dal loro primo stato per la pronunzia della 
Eazione, s'avessero sempre a scrivere nel modo in cui 
; le scrivevano o le scrivono quei popoli, ancorché lon- 
tanissimi e diversissimi, onde a noi vennero, e se la 
scrittura originale s'avesse sempre a conservare m 
| ciascuna voce, cangiata o non cangiata dal tempo 
: dal luogo e dalla diversa nazione e lingua , e se il 
I pregio, di un' ortografìa consistesse nel conservare e 
; . forme originali di ciascuna voce por forestiera eh ella 
' fosse, non so perché le voci venute dal greco non si 
debbano scrivere con lettere greche, e l'ebraiche e e 
arabiche con lettere e punti ebraici ed arabici, e le 
tedesche con lettere tedesche. Giacché usando diverso 
alfabeto la scrittura originale si può imitare, ma non 
perfettamente conservare. E cosi dovremmo imparare 
e usare cento alfabeti per saper leggere e scrivere la 
nostra lingua. (3057) Veramente nessuna nazione in 
questa parte è cosi savia, e ninna scrittura cosi vera, 
perfetta e filosofica come l'italiana. Gli antichi greci 
se le potrebbero paragonare, so non che poche voci 
forestiero li ponevano in pericolo di guastar la loro 
ortografia (27 luglio 182;3). 

* Condiscendere, condiscendenza, eondzcmdcr o C<m- 
déseender, condescmdre, condescendance ec. vengono dal 
greco. S 0 f*wipa«c per condisùmdcwsa è in S. Giovanni 
Crisostomo nel Sermone, Quod nemo laedatur nisi a 
seipso. "Oxt xèv Uutòv à3«o5vta ofrisic jtapapXa'lai Sti- 
vata-., che incomincia ()13« |«v S« «*c ™V>*h°K> ca P; X j> 
Opp. Chrysost., edit. Montfaucon, t, III, p. 457, B. Vedi 
i glossari latino e greco. Vedi p. 3071. 



li i( ) 



pexstki:. (3057-3058-3059) 



* Sopra per contro (vedi Crusca in Sopra, § 2. Va- 
nire sopra alcuno. Darà sopra. Il Boccaccio, Nov. 17, 
Acciocché, sopra, cioè contro, Osbech dall'una parte con le, 
sue forze, discendesse. E vedi par la Crusca in Scen- 
dere, § 1) è pretto grecismo (ignoto noi buon latino) 
e grecismo dell'ottimo e purissimo greco. I greci di- 
cono Ini nel medesimo sonso, si quando questa propo- 
sizione è separata, si nella composiziono, come ìreép/c- 
jiixe oc. (28 luglio 1823). (3058) 

* Alla p. 3053, fino. Posar spagnuolo por abitare, 
onde posada ec. Pausar spagnuolo ec. Vedi i dizionari! 
spaglinoli. Repossione per repos-it-ionem trovasi in 
un' antica iscrizione latina recontemente scoperta e 
illustrata dal Ciampi (in una lettera data da Var- 
savia e stampata noli' appendice al Giornale di Mi- 
lano due o tre anni fa); e sta con significazione di 
luogo da riporre robe (28 luglio 182S). Vedi p. 3060. 

* Corruptio optimi pessima. Questo proverbio si ve- 
rifica nominatamente negli uomini, negli spiriti sen- 
sibilissimi elio col tempo e coli' uso del mondo diven- 
gono più insensibili degli insensibilissimi por natura, 
come lio detto altrove, o danno noll'occesso contrario 
ec. (28 luglio 1823). 

* Persone imperfette, difottose, mostruose di corpo, 
tra quelle elio non arrivano a nascere e si perdono 
per aborti, sconciature ec. non volontarie né procu- 
rate, tra quelle clie son tali dalla nascita, e muoiono 
appena nate o poco appresso, per vizii naturali in- 
terni o esterni; quelle ciré cosi nate vivono e si 
veggono e si ponno facilmente contare , annove- 
rando le mostruosità o difettosità d'ogni sorta; quelle 
finalmente che tali son divenute dopo la nascita, 
più (3069) presto o piò. tardi, naturalmente e senza 
esterna cagione immediata, voglio diro o per vizio 



Ili 
inn 



a co 
m 



161 

(3059-3060) 

lue naturalmente sopravvenuta soW , 
Iglienào tutti questi ^^S?^ il 
col^o d'occhiò e aèt^a molta i ifl c s 
«£, nel solo l^<P"| 8£3** 
-vile di esso, ^r.'li glia altro intero genere 
nello che trovasi m r uals v « che veggialll0 

h^Srat^gtt^S domestici, che pur 
n ciascheduna specie ac , coalizione e vita 

Lo corrotti e inutati da! a a u gj» • ma l me nati, ma 

> da noi in mille g^Sg^ùi difettosi o me- 
tutto insieme il numero degl mdma . 
struosi elio noi veggiamo 3n tattile sp 
che ci si offrono &***%»^.^J^ che 
perate insieme. La ^^^fo momento e 
EU io credo, purché 1 " . a & ° c01ltraS tare. Si- 

raccolga le sue reminiscenze la pò £ra le 

Le ^^ e » ^^^Satamente tra 

nazioni civili o le selvagge, i ì k come 

lo più civili e lo meno f^f^^S. (3060) 
tra' francesi, italiani ^«'^ Lerva- 
Quali — TJeiri-eìe conseguente 
lioui è cosi facile il vedono , m _„ irior certezza 

U evidentissime ed ^.^S^SS matémà- 
che possa avere una P-^f^T^SarS'Wtr» * 
ticamcnte c dedotta matematicamente da i 
cui non si possa dubitare (28 luglio 1823). 

Fedro di DosbiUous, Manheim, 7hb, p. > , 

fab. 21, vera. 3. Quieto» « «« d * 9 WMC0, ^ ^ ™ 1 



162 



pensieri (3060-3061 3062) 



ticolai'o il Desbillons, loc. cit., p. LXVI, ad II, 8 
vers. 15. Ùsurpatus a um. Vedi Cic, ad fam.., IX, 22 
verso il principio (28 loglio 1823). Vedi p. 3074. 

* Alia p. 3058. Annua (e cosi semias&us) por assattté 
sarebbe una contrazione che farebbe al proposito. Se 
però assare non viene appunto da assus, il quale in 
tal caso sarebbe participio di verbo ignoto. E s' ei 
fosso il medesimo che arsus (vedi Porcellini in asxus), 
il che non è inverisimile (3061) stanto l'antico uso 
latino di pronunziare e scrivere la s per la r (del che 
altrove, cioè p. 2991, segg.) ansare sarebbe lo stesso 
che arsare, voce de' bassi tempi, della quale altrove, 
continuativo di ardeo e più regolare ec. nella pro- 
nunzia che cavare. l ) Vedi p. 3064. Elixus per elhcatus 
(che pui' si dice) sarebbe altra contrazione al propo- 
sito, se però elixo non viene da elktus, come ho dotto 
di assus. E veggasi a qnesto proposito la p. 2757-8 e 
2930. margine (29 luglio 1823). 

:|: Niuna cosa nella sociotà è giudicata, né infatti 
riesce più vergognosa del vergognarsi (29 luglio 1823). 

* In proposito di favella, favellare, ha/dar ec. di 
cui molto distesamente ho ragionato altrove, veg- 
gansi lo voci francesi habler, hablerie, hableur ec. Essi 
hanno anche falde, ec. come noi pur favola oc. o gli 
spaglinoli fabula ec. dall'altro significato latino di 
fabula, fabulari ec. (29 luglio 1823). Vedi pur lo spa- 
ginalo lurida e hablilla ec. ser habla o habUlla del 
pueblo (29 luglio 1823). (3062) 

* Alla p. 3065, margine . Asinus-asellus invoce di 
atsinellus, cho sarebbe intero o regolare, e che noi di- 
ciamo. Opera-opella oc. (29 luglio 1823). 



') Spaglinolo osar, italiano lessare, ec, 



163 

(3062-3063) J^f. - 

l^^nens alteui rei prò JJ^W 

r?^^ÌfSJdibesbiUon S , Manhenn, 1986, 
L LIX (29 luglio 1823). 

. Ubi duo Urtatimi veggansi » .J^Aè 
i p fi voroo i. BosbilW, loc. cit, p. MI 

pi Da*,»»»., X ™» y "«.li. io 1» <«- 

L m pio i, a,»), -i ' i 

ild.bilo splendor». »»b Ha »»•; J ""S,*"»- 
,o.t„. dalla ^"-^Trfe— 17» 

rur ^tT„a ! - . ^ - 

poco uso della lima, silcojho 
lingua (21) luglio 1823). 



184 



E-Ettelteu (3063-3064-3065] 



* Alla p. 3040, fine. Asellus, capello equivalgono ad 
asinus, capra. Vedi a questo proposito il Porcellini 
in catellus (.'30 luglio 1823). Vedi p. 3073. 

* Come da nose.o-notus, nonetto, cosi da na$cor~natus f 
nasc.itvrus , del che mi pare di aver detto altrove (30 
luglio 1823). (3084) 

* Similmente morwr-mortuus-moritwus ec. ec. (30 
luglio 1823). 

*Alla p. 3061. Olio assare venga da ardere, e sia 

10 stesso che amare, oltre la verisimiglianza ch'ha 
in se medesimo, considerando i significati di tali 
verbi, si fa eziandio più probabile osservando che il 
nostro arrostire (francese ròtir) ch'equivale ad assare, 
viene da urere ch'equivale quasi ad ardere (preso at- 
tivamente, come noi sovente lo prendiamo, e come 
bisogna considerarlo nel caso nostro: vedi Porcellini 
in ardeo e arsus participio passato, i dizionari fran- 
cesi in arder, e lo spaglinolo). E che arrostire venga da 
wrere, si dimostra guardando ch'egli è corruzione (o 
che che altro si voglia) d' abbrostirc il quale origina- 
riamente è il medesimo verbo; e che abbrostire è quasi 

11 medesimo che abbroslolire, il qual è corruzione di 
abbrustolare, e che abbrustolare detratto le lettere abbr 
(non so come premessegli) , è appunto il latino vstu- 
lure, il cui significato è né più né meno quello di ab- 
brustolare; e che ustulare è fatto da ustus di urere. 
Abbruéiiare, voce fiorentina, è quanto al materiale lo 
stosso che abbrustolare, mutato il iol (3065) (latino 
tul) in ti, secondo il costume della lingua nostra (e 
massime della fiorentina e toscana), come da oc-ul-vs 
occh-i-o, da masc-vl-us rnasch-io, che i fiorentini dicono 
mastio ec„ corno ho dotto altrove (cosi da mise-ul-are 
misch-i-are,,i fiorentini mistiare).Lc lettere abbr abr a br 
paiono nelle nostro lingue esser proprio, non so perché} 



166 

(306B-30a6-30«7)_ _ rMSfflU__ 

p^oci di ^ Sfotti £2 z^:™ 

^■ostire e ne' sopraddetta 0 „ e m > foresi 

t Ì' cioè ""E X he «a'bbe u* verbo lato** 
: dl In**» oc, bruciar, oc, 

bari» no , m brustola c ^ abm _ 

6C - ""TSte ^ corrosióni del latino 
ec. Forse queste tutte , Bono glo88a rio so 

. ha nulla in P^^^'T^^-LStenere al latino, e 
Ur, ^: ,É «tr5S«n tolto forse 
da quella origine da cui v ^ d 

ancora l'uso di pvem etto t • le »W , 
altre voci di lignificato . rftoetì W , l ^ 
venuto d'altra origine, cioo latina V 

<* ìiAna mediante la letteratura 
• Ohe la ^jgXSSS* ÌD **** 6 
8Ìa fV'lE ^a moderna a quei tempi, 
più divulgata cne muu » /^..^.p l a lingua Spa- 
S certo per più ^^ffijtii* e in 
gnuola per un certo tempo io^ in fi ^ 

Italia nei seicento f™^^ n tanta diffusione 

vantos in ispagnnolo, mente : o «gl 

della lingua francese, ohe un libro fc.», 

cese di lattei atnia o ro ie da m6 se - 

raccogli da paxecol" toogfc* ^ ^ ^ 

guato qua e là, e da i ^ 

ciìuiente raccorrò. \ etli in P ^ ^ edialou0 

ddla letteratura, parte ±i, i. , i - J& vita di 

Veneta del Loschi t. IV, ^ i«J q > dóUa lin . 

l, ° l,a noT II, voi. VI, 

gua toscana, nelle £ ose j ^ è un passo 

odiatone veneta, 17dU< w, I • Ma g . ^ cbe 

molto interessante a quo, « 'PI, doUa 5accoH „ 

in altro ^^i^^ip» *'i ^rino, 
di prose Ad «*« ^ «jw , ^ p 

1753, p. 30!), questo passo, bua. 



166 pen sieri (3067-3068) 

è notabilissimamente mutato; o veggasi la profazione 
al citato volume delle Prose, fiorentine, p. X-XI. Ven- 
gasi ancora Speroni Orazióne in morte del Bembo nelle 
Orazioni stampate in Venezia 159(5, p. 44-5. La Can- 
zone de' Gigli del Caro, mandata in Trancia, o fatta 
apposta per colà, come anche il commento alla mede- 
sima secondo elio dico il Caro in una delle sue lettere 
al Varchi, il conto fattone in Trancia ec. (vedi la 
Vita del Caro); la Canzone del .Filicaia per la libera- 
rione di Vienna, mandata in Gormania, e credo anche 
in Polonia, e colà molto lodata, corno si vede nello 
lettere del Eedi; l ) i poemi dell'Alamanni fatti in 
Francia ad istanza di quei prii.cipi ec. e colà stampati 
(vedi Muzzuchelli, Vita dell' Alamanni), siccome molti 
altri libri italiani originali o tradotti si pubblicavano 
allora o si ristampavano fuor d'Italia, nella quale certo 
niun libro francese, inglese, tedesco si pubblicava o 
ristampava originale, e bon pochissimi tradotti (fran- 
cesi o spagnuoli); tutto questo cose, e cento altre si- 
mili notizie e indizi di cui son pieni (3068) i libri del 
cinquecento del seicento , e anche de' principii del 
settecento dimostrano quanto la lingua italiana fosse 
divulgata. Nondimeno ella ha lasciato ben poche o 
niuna parola agli stranieri (eccetto alcune tecniche, 
militari, di belle arti ec. che spettano ad altro di- 
scorso) mentre la lingua francese tanti vocaboli e frasi 
o modi e forme ha comunicato e comunica a tutte le 
lingue cólte d'Europa, e in esse le ha radicato e na- 
turalizzato per sempre, e continuamente ne radica e 
naturalizza. Segno che la letteratura è dobol fonte e 
cagiono e soggetto di universalità por una lingua, 
perocché una lingua universale per la sola lettera- 
tura (e per questo lato fu voramonte universale l'ita- 
liana a que' tempi, quanto mai lo sia stato alcun'altra 
fra le nazioni civili) non rende Ò:y>,ìótto>j<; lo nazioni 



') V'ndi ii. 38IB. 



1G7 

(3088-3069-3070) - 

r~ — " ' à mai se non materia di 

in ch' ella si spande, e noi» ^ profond o 

Uaài e di eruditone (www ■- * lft . 0 ter- 

E* mettono h» f o ^ P ^ 

..minata l'influenza dola s terminata 1' m- 

K ina la sua uni^WM" ^'«ata né terminerà 
Lenza della nazion . { della greca ec ), 

Lniversalità ^g^JTb!» P**> ^ ^ 
le Bi dimenticano ^J^^ della sua le te- 
le modi ohe lo Studio e >n » letterature stra- 
Lura aveva forse "Jjjfjg letterature. Quando 
! Lre, ma non più de ' Meàici, la nostra 

In Francia a temidi Cg? la lott6r aUira, 

lingua si divulgo pei ^ J n appartenne alla 
allora l' italianismo nel t rag* eKÌaI)dl0 fa 

letteratura sola, o m 4" . ^ q circ0B tanae, 
maggiore assai ^^^g sorLe quel dialogo 
onde , non so qua! degli » te ^ iA voltB . 
Urico del quale no J^S^^ii Milton ec. che 
XI Menagio M ^"italiana, sono esempi 

frissero e Pjf^.f ffi *d 
non rinnovatisi, orod io, ™ f e certo 

moderna-, se non tK^ i^' " ^ ""T. 
•non dati né imitati ma 4 e _ g , - v6r0 c he 

(3070) parimente 4™™^^ d l -lingua italiana 
L cinquecento Vavejew^Ued ^ 

W forestieri, fognasse lingua moderna 

ered'io, le uniche dove fa coga siml le m 

forestiera né ^f^^ QÌ ^^^^^ 
Italia per nessu^altra In g« ^ u ^ hnis3Ìm i tempi 
Propaganda di Roma) fino _a q ^ . in Itt ^ ?? 

(Vè ora qualche cattedra di li»g« ancor piu) 

Uto assai: di lin gua spagnola noi 

È noto poi che ^f^queccùto, come per no», 
ano secolo d'oro, ohe tu u e 4, colla qua i n a- 

Bi modello* ^J^^ toppi - lie £aW ^ 
zione la Spagna ehbe allora pw 

luglio ira»)- 



ICS pensieri (3070-3071-3072) 

* Benedetto Buommattei nell' Oraziane delle lodi 
della lingua toscana 'detta da lui l'anno 1020 noli' Ac- 
cademia Fiorentina (vita del Buommattei in fronte 
alla sua grammatica, edizione Napoli, 1733, p. 22, prin- 
cìpio), verso il fine, cioè nella succitata Raccolta di 
Torino, p. 209, fine - 300, e appiè della sua grammatica, 
edizione cit., p. 273, fine, dice della universal (3071; 
diffusione della lingua toscana a quel tempo ciò che 
ivi puoi vedere (30 luglio 1823). 

* Dompter da domitare, inseritoci il p, come in 
empiite, sumptus (sumpsi ec.) e simili, e come alcuni 
fanno in temptare che nel codice de Repubblica di Ci- 
corone è scritto teniture, corno anche si scrive emttts, 
svmtus , peremtus ec. '} E il Bichelet nel dizionario 
scrive domter con tutti i suoi derivati similmente e 
vuol che si pronunzi dnnter, dontable ec, cosi anche altri 
dizionari moderni. Cosi dompnus e domnus contratto 
da dominw. E a questo discorso appartiene la voce 
sommili fatta da Bitvoc, e, come dice Gollio, da sypnus-6 
siqmuS'Sìimnits-somnus. Vedi il glossario se ha niente 
che faccia a proposito (31 luglio 1823). 

* Alla p. 3057, Similmente angustia per angoscia 
(eh' è corruzione di angustia) o in simile significato 
par che venga dal greco, quanto cioè alla metafora. 
Sttvoyuip™:, in questo senso e in San Basilio Magno 
nell'Omilia o sermone (Xófoc) rcrpì eè^aptoTtas de gratia- 
rwn actione , Opp., edizione Garnier, t. II, p. 2(5, P f 
cap. 3. È da veder però se tali metafore vennero a 
noi da' greci, o a' greci dal latino (vedi, por esempio, 
porcellini in angustia: anche noi diciamo in tal senso 
strette, strettezza oc.) o dal latino - (3072) barbaro. Vedi 



1 ) Ve s »;isi la il 37BI, Une, 



169 

(3072-3073) 

, , • ■ „.. 6C0 non ha niente) 
il glossario latino (porche ri greco 

e lo Scapula. . . 

di verbi neutri (e orf^ J non i n 

rati in senso neutro (iors alice passiv amente, 

ne abbondano le lingue h|ij andato, *j 

8«to, w^ito, forato, »«« tutti j verbi 

n6ufc ri hanno ^ J^Jg 1823). •) Vedi P . 3298. 
detto senso e non alUo (31 nig 

* H o discorso altrove della voce — 
Vedi Fedro, IV, 22, verso 29, e m i 
altri (31 luglio 1823). 

* «i romani , ohe tanto ^«f^S **. 

tuna; Dea più eh altro MB , fi e j sett6 

Lucio Siila, che vinse U WM^ jdioé, e 
Consolati di G. Mano, jifo eh 
toneasi esser della gjgftjfc al nipote la sua 
pregò gH Da, che OW*", p^anaati, 
fortuna, la quale fa stgo* Sa 

primo (1 agosto, 

* « Alessandro ^^gt^ 
Btotile, cho volea f^*ffi.^ b . (1 agosto, di 
o i barbari da bestie e sterpi, 
del Perdono, 1823). 

- -, . T » s-sissr ss. - ^ 

spaglinoli attivamente pei c« 



peni oc. 



PENSIERI 



sensi metaforici, eccetto solamente appo Cicerone, de 
repub., Ili, 16, p. 244. Anzi eziandio noi senso pro- 
prio, fuor d'un luogo di Petronio, non so che si trovi 
mai adoperato il detto positivo. Ma il diminutivo 
tenni. Cosi dico di mix per lapis, da cui calculug, 
Vedi in Forcellini in calculus o calx fi agosto, di' del 
Perdono, 1828). 

* Aborto as da aborior-abortus, o dal semplice orior. 
Il nostro abortire o il latino abortio is (se questo verbo 
è vero) sarebbero continuativi anomali. Il francese 
avorter è il latino àbortare. Vedi lo (3074) spagnuolp 
e il glossario se ha nulla (1 agosto, di dol Per- 
dono, 1823). 

* Appellito un da appelfa-appoìlatus, onde lo spa- 
gnuolo apellidar, apellido sostantivo ec. (1 agosto 1823). 

* Reditus a um. Vodi l'Orazione di Claudio Imp. 
(citata in altri casi dal Porcellini, corno in appellilo) 
ap. Gruter, p. 502, col. 1, v. 36. Cretus, concretus ec. 
Vedi Porcellini, Pertaesus, Distisus , Finis, dijjisus, 
confwus ec. Vedi Porcellini. Exolelus, cioè qui exolevit, 
Conspiratus. Vedi Porcellini in fino vocis. Ceimis a um. 
Vedi Porcellini Status a um. Vedi Porcellini noi princi- 
pio di questa voce, massime il luogo d'Ulpiano. Niiptus 
a um. Falsus. Vedi Forcellini (1 agosto 1823). 

* E da notare che la lingua spagnuola, per suo 
quasi perpetuo costume e regola , conserva ne' parti- 
cipi de'verbi latini della seconda e terza maniera l'an- 
tica e regolare e piena forma della quale ho discorso 
altrove, non ostante che nel latino conosciuto ella sia 
alterata, contratta o anomala. No' quali casi la lin- 
gua italiana suol soguire ciecamente la latina, ancor- 
ché contro la regola e proprio tà dello sue coniuga- 
zioni o inflessioni, come ho dotto altrove in proposito 



171 

(3074-3075-3076) pensieri 

io /„«j/Jn DP.nido e céiito simili 

B ono participi intieri cjoo MWH«» _ - \ 
k g0 de' contratti che usa la -1**» q 
scinta, cioè », vento eo. No i, i q ue tee 

T n' iJtXTS tutto le lettore ito; tenu, vm» 
dono nella lettela w tu™» Corregifà 

da *** * C09i °f 2£ di lettera' al- 

e participio intero e ^™^% ripi o la 

cuna, cioè T^eXSTfer^*^^ 6 indi 
lìngua, latina lece eorre^** 

Sto il , nell'affine p*^^$&C 
participio rimasto nel latino mloln 
Lue Similmente tedo fé ^^/-gXo e 

perché (307B) 
spasolo non a ^ ni ^ al o( latìn0 . 

equivalendo u cn spafc> • iU S0Il0 pa r_ 

£ Jbriai «~ d |> 6 jto„o di contratti ed 

feicipii e interi e «^^jg^tow^ oltl ' e 
anomali. Movitw per moto. , per 

Vanalogia, da «ose», come ^ V ^fSL 
„„.,„, ch'è solo oggi nel latino e ne itaL^c e 
e-. Cogito, distrato « ^ no, unico 

da r « ito , v'è ^ e rè anche 

nel francese. Neil Galiano ^ » dj limtat , 
co^to, mutate al ^ j£ rfura , 

perche m co~to lt a s0 , aiue nte a dinotar 
non proprio de la pa ola e ^ ^e ^ p ^ 

la pronunzia delle W*»* profferirebbero in 
senza P frapposizione deUa , s p ^ 

.„ 1<i « ner proprietà moderna, 
Rascia, omessa la s. p*- 1 V i 




172 



i'exsieri (3076-3077-3078) 



gli antichi la (3077) scrivevano, come pure in crecef 
(onde crecido-crescitus-cresciuto , por cretus crii) eon- 
decender ec. ec. La lingua spagnuola suol essere re- 
golarissima in questi tali participii, più assai del- 
l' italiana, più della francese, e conservare più di 
ambedue l' antichità o primitiva propriotà latina, anzi 
conservarla, si può dir, pienamente, E ciò non meno 
né in diverso modo quando la latina conosciuta è 
irregolare o contratta, che quando eli' è regolare e 
somplicc, come da habitus, havido o habido, che noi 
colla solita mutazione diciamo avuto. Ora questo havido 
nello spagnuolo ha la stessissima forma di tenido oc. Ma 
non cosi in latino, benché teneo sia della stessa forma 
di habeo. Puoi vedere la p. 3544. Vedi p. 3572. fine. 

Non è tuttavia che alcune volte la lingua spa- 
gnuola non segua in tali participii ciecamente o l'ano- 
malia o la contrazione dolla lingua latina, come suol 
far l'italiana e il franceso. e non ne divenga ossa stessa 
anomala, come le altre due. Di visto e quièto (che 
però si dice anche regolarmente querido) dico altrove. 
Da tacere, haccr, (3078) olla non fa pienamente kaeido, 
facitUs , ma contrattamente hecho da factus (fatto, 
fait), anticamente fecho, mutato il et in eh per pro- 
prietà spagnuola, come in derecho, provecho ec. ec. e 
comò ho pur detto altrove; e l'a cambiata in e, come in 
trecho da tractus, in teche da laete ablativo (Perticari 
vuol che si dica dall'accusativo tolta la m; ma ecco 
elio 1' accusativo di lac è lac: vedi però il Porcellini 
appo il quale lac è mascolino in più esempii), e come 
i latini ne' composti, comfehtus ec, in echar da iactare. 
Dov'è notabile elio anche noi e i francesi facciamo la 
stessi mutazione: gettare, jeter, comò i latini ne' com- 
posti: obiectare ec. Da elicere, non decido o divido, ma 
dieko-dictus-detto-dit (1 agosto 1823). Vedi p. 3362. 

* La più bella e fortunata età dell' uomo, la. sola 
che potrebb' esser felice oggidì', eh' è la fauci ullozza, 



ITà 

,3078-3079-3080) _ 

— - — — .. .„ in ;Ue angustie. Umori, 

fatiche dall' educalo e da icjt , ch porta 

Vuoine adulto «tfd» Jjffi^, la noia della vite 
la cognizion del vero, il "»»8*" ' accetterebbe 
feSS»** della ig-g-St T .Offri* quello 
di tornar fanciullo col a contt ^ £ ^ 

stesso che »^/^ffSS infelice quella povera 
cosi tormentata (3079) e .fatto jn^ u e 

^ftJSS V tlSut diga coli, e - 
a concepirsi Perche dell'uomo. Bolla per- 

vi lo, cioè acquista la per» ^ u 

fesione, e certo voluta da a , .^.^ 
ohe suppóne ^ B8 ^t^^ 8 temeute ordinato 
qu el tempo che a naU, ra ha mam ^ 
ad essere la più felice parte ole ^ ^ 

a domandare. Perche latta oos ^ 
L*f E ^ d %rXqSno ct lo farà infelice 
ji spese di tel ^ mf t"fla ooSteioiie di se stesso e 
peretta la vita, cioè a «jg* 
ielle cose, le" CpimOU^^W ^ ^ bl „ 
trarlo alle naturali, o qutaaa « ^ faB _ 

liti, di esser felice; perch > eolla * ^ ^ 
Olezza si ^ ' Sr^ colla felicita 
età; o vogliamo dire perch e p ^ ^ 

della fanciullezza quella che la na ^^àitra 
nato e preparato siccome Mg. ^ ottenuta 
età aell'uomo.e oh' altnme^u eg 

in effetto (l ^ osto 1823) ' { } 

v „ ™me il semplice salto La- 
» Assaltar* da ^'di Te ^ ono ' 
tino da 8«<W (1 ag° st °. 
p. 35B8. 

■ r. Tn erodo hene che il 7 
* Alla p. "40, ìjargm e. I oj ~ fl ^ quanto 
fosse posto in uso tanto pei ^ ^ ^ 

il p. e H f»i « ^ ^'^ Igli scrivani che in ®« 
pel X9 ; posto in uso, dico, ungi 



174 



PBNSIKltl 



(3080-3081) 



primi tempi e in quolla imperfezione dell' ortografia* 
non distinguevano bastantemente e confondevano ri- 
spetto ai segni le varie pronunzio e i vari suoni, 
massime affini, né si curavano di distinguerli più che 
tanto V un dall' altro nelle scritture, o non sapevano 
perfettamente farlo. Credo per conseguenza ohe anti- 
chissimamente si pronunziasse e scrivesse fXIptfj 

non (f).Énc ; àXei^u) si pronunziasse e scrivesse «).e£p<jw 
e non àÀeiitouj; )>u*(' )>uyy?j e n° n M'f*!! &PX a % 0 

non Spxawj o cosi dell' altre doppie. Ma che poi, in- 
trodotto l'uso di questo doppio, si continuassero quelle 
lettere a pronunziare secondo la derivazione gram- 
maticale o 1' uso antico e le antiche radicali, e che 
quindi, per esempio, il iji e il I avessero ora una pro- 
nunzia (3081) ed ora un'altra, cioè ora no ora pò ec. non 
lo credo, anzi tengo che il <\ fosse sempre pronunziato 
Tia, e il ; sempre v.-. Passaggio non difficile nep- 
pure nella pronunzia (o ordinario anche e rogo- 
lare in milioni d' altri casi si nella pronunzia che 
nella scrittura e grammatica greca) d'una in un'altra 
aitino, cioè dalle palatine y e y alla palatina x, e dalie- 
labiali p <c alla labiale jc. Massimo che il ti e il « 
sono veramente medie nella pronunzia tra le loro af- 
fini, benché si assegni il nomo di medie al f e al pi 
o al o, non al t ec. Lo deduco dal latino, fra' quali 
parimente il x fu sostituito si al cs che al gs, ed an- 
ticamente scrivevasi o pronunziavasi,5per esempio, gregè, 
Isgs, regi, non grecs, lecs, recs, come oggidì, almeno 
noi italiani, sogliamo sempre pronunziare. Vedi il 
Porcellini e il Digiunarlo di grammatica e letteratura. 
do\Y Elicici, metodica, in X. Ma che in séguito il * 
anche tra' latini, ossia, de' buoni tempi, fosse sempre 
pronunziato cs, come oggi, dimostrasi dal considerare, 
per esempio, i verbi lego, rego, tega e simili (appunto 
venuti da' nomi sopraddetti) i quali nel perfetto fanno 
rexi, texi (lego ha leyi). Dove certo la ar anticliissima- 
mento equivalse a gè } come ho detto altrove, Ma ec- 



175 

(3081-3082-3083) pknsitoiu _ — 

c^Ti" participi! lectus, rect^ Uctm che da prinia 

Rosta dunque più che probabile clie ano he q e p 
Sti si pronunciassero col r, rem, tee. malgrado 3082 
a loÌ derivazione grammaticale e quindi e altrettanto 
' ■ ab le che qualora nell'a doveva osservi Hg pa - 
Ideine Giacché non v' è ninna ragione , di pia pei 
^dOveSe far qnesto paggio ne' ^ti perfe i 
ohe in qualunqu' altra voce (1 agosto, di del lei 
( dono, 1823). 

*È cosa dimostrata e dalla ragione e dall' espe- 
rie ni dalle storie tutte e dalla e Jg-^JR 

fi « d r^^teTca4 T ^ 
SS^Té Presto o tardi, qualunque sia la loro poh- 

anche ne risorgono, poco dina li ™ « r 
Q ,.>>* insomma nolla società non navvi ne 
g 7 ' LI stato ClitU» durabile se non il monar- 
2l*Z olTA^ ^mostrato, e jtfé »£ 
SSL prove, che ^-^^SS^S 
a ia ne' suo! P™7^f/Ì^d0 tornare ad essere 
costanze possa di quando m qw*« 
por pochi momenti, tende sempre e «^^.JJJJ 
e irrenarabilmente nel despotismo; perche stante (3083) 

"Xa dell'acme, ansi d'ogni 
oamente impossibile che chi ha potere "J^^J 
i .noi simili, non ne abusi; vale a 
oUe n on se - serva più S ^^^^ lU 
non trascuri affatto gli arni i natura 

se, il che è né più né meno la «ostane e la t 
del despotismo, e il contrario appunto di 

• fn no saia ne può esscio 

dovrebb' essere e mai non in ne a» « y 
la vera o buona monarchia, ente di ragione e im- 
maginario. Ora egli è parimente certo, almeno lo J* 
pei gli antichi, e lo è per tutti i savi moderni, che 



17tì Pensieri (3083-3084-3085) 

il peggiore stato politico possibile e il più contrario 
alla natura ó quello del despotismo. Altrettanto certo 
si è che lo stato politico influisce per modo su quello 
della società, e n' è tanta parte, eh' egli è assoluta- 
mente impossibile eh' essendo cattivo quello, questo 
aia buono, e che quello essendo imperfetto, questo sia 
perfetto, e che dove quollo ó pessimo, non sia pes- 
simo questo altresì. Or dunque lo stato (3084) poli- 
tico di despotismo essendo inseparabile dallo stato 
di società, e più forte e maggiore e più durevole 
nelle società civili, e tanto più quanto son più civili, 
l'i capitolando il sopraddetto, mi dica chi sa ragionare, 
se lo stato di società nel genere umano può esser 
conforme alla natura, e se la civiltà è perfeziona- 
mento, e se nella somma civiltà sociale e individuale 
SÌ può riporre e far consistere la vera perfezione della 
società e dell'uomo, e quindi la maggior possibile fe- 
licità d' ambedue, come anche lo stato a cui l'uomo 
tende naturalmente, cioè quello a cui la natura l'aveva 
ordinato o la felicità e perfezione eh' essa gli avea 
destinate (2 agosto, di del Perdono, 1823J. 

* La delicatezza, per esempio la delicatezza delle 
formo dol corpo umano, è por noi una parte o qualità 
essenziale o indispensabile del bello idealo rispetto 
all'uomo, *) si quanto al vivo, si quanto alla imita- 
zione che ne fa qualsivoglia (3085) arte, la poesia eo. 
Ora egli è tutto il contrario in natura. Perciocché la 
delicatezza, non solo relativamente, cioè quella tal 
delicatezza che la nostra immaginazione o il nostro 
concetto del bello esige nolle forino umane, e quel tal 
grado e misura eh' esso concetto n' esige, ma la deli- 
catezza assolutamente, è por natura brutta nello formo 
umane, cioè sconveniente aesseforme. Giacché l'uomo 
per natura doveva essere, e 1' uomo naturale è tutto 



') ?imi voiloro la p. 3248-50. 



177 

3085-3086-3087J^_r™' l i _ — 

robmtiasimo, come qael o Mie oiu trMto 

*** b Tfi srfss: «*> 

contmua fatica, e ttaJ soie delicatezza 

gli nuocerebbe; ondo 8 ogl I . ^ 

tisce mia persona delicata aa 

S e ™ duetto ffaxco per Uu ,ej^ ^ ^ 
valenza e te^^^J^^ come il 

altri difetti «"B^*^ Tve^ili) «I porta 
civile (o così gh albi *n i nali o veg , ^ 

dalla nascita, non per legge +V^J irregolari e 
della natnra umana ma per ««J"™ rionale ec. 

r »^J2^SS^ che V-mo 
Por le quali cose e co 111 f „ . d Ua 8Ua spe eio 

„„,„„,. . - w «. r 5-» 

non entra pei nnua « ò iudispensa- 

le nazioni ^^^S lo contrario è ccr- 
bile parte di ta V w^er 1' uomo naturale entra 
tissimo che la delicatezza per ^ se l'uomo 

nell'idea della bruttezza umana ^ 
naturale non esigerà nelle omo te n ^ . 

patibile colla natura di quel sesso, e * di v0 „ 

Ornerà quello forme ^^JgfS s6 sso. E se 
buste*** senza uscir ^^gj^ 6 i la condan- 
la robustezza «scxra f^ r £S^ quasi chela 
nera, non come opposta ali ^ d « - ^ re _ 
delicatezza fosse parte de bel to m spro por- 
lazi0 ne alla de! jj^jg^ a esso. Laddove, 
zionata e fuor de ordin. ^ f e 

I sl^e^*-**- no r scir 

Lbopaboì. - FeMfert, v - 



178 



PKKsrEEa (3087-3088-3089) 



della proporzione, e piuttosto ne lodano l' eccesso che 
il difetto. E quando no condannano l' eccesso, lo condan- 
nano solo in quanto eccesso, non in quanto delicatezza, 
né in quanto opposto alla grossezza e rozzezza ; lad- 
dovo l' uomo naturale, condannando la soverchia ro- 
bustezza non la condanna come robustezza, ma come 
soverchia secondo le proporzioni eh' egli osserva nel 
generale. (3088) 

Ecco dunque l' idea universale di tutte le na- 
zioni ed epoche civili circa il bello umano (eh' è pur 
quel bello intorno a cui gli uomini convengono natu- 
ralmente più che intorno alcun altro) dirittamente 
opposta a quella dell' uomo naturale, quanto alla parte 
che abbiamo considerata. Dicasi ora ohe l' idea del 
bello è naturale ed insita, non cho universalmente 
conforme, eterna, immutabile. 

E in questa differenza d' idee che abbiamo no- 
tata, qual è più conforme alla natura umana, più de- 
rivante dalla natura, e (se qui avesse luogo la verità) 
qual è più vera, più giusta, più ragionevole? Corto 
quella dell' uomo naturalo. Dunque non si dica, come 
diciamo di tanti altri in tante occasioni, eh' egli non 
concorda con noi circa il bollo, perché non no ha 
il fino senso, né la mente atta a concepirò il vero 
bèllo ideale (il che noi diremo, cred'io, ancora degli 
etiopi , il cui bello ideale umano è nero e non bianco, 
rincagnato, di labbra grosse, lanoso). Come mai può es- 
ser bella in una (3089) specie di animali la debolezza, 
la pigrizia? E pur tale olla è uell' uomo appo tutte le 
nazioni civili, perocché la delicatezza non è senza 
1 ; una e P. altra, e da osso fisicamente nasce, e le di- 
mostri necessariamente all' intelletto. 

Sentimento e giudizio degli uomini di campagna 
circa la bellezza umana e la delicatezza. — Il qual 
sentimento e giudizio è certamente per le dette ra- 
gioni pili giusto del nostro. Del nostro, uomini di fino 
senso e gusto, e profondi conoscitori del bello, ò più 



(3089-3090-3091) peksieki ITO 

Saturale e quindi più giusto il sentimento e il giu- 
dizio di spiriti grossi, rozzi, inesercitati, ignoranti. 

Quel olio bì è detto della delicatezza, dicasi di 
altro molte qualità elio por consenso di tutti i secoli 
e popoli civili donno trovarsi nello forme dell'uomo 
per esser bolle ; e olio per natura non si trovavano, o 
non doveano trovarsi nelle formo dell'uomo, (3090) o 
»i si trovavano e dovevano trovarvisi le contrarie. 
Perocché siccome l'animo e l'interiore dell'uomo e 
quindi i costumi e la vita, cosi anclie lo forme este- 
riori sono, in molte qualità, rimutate affatto da quel 
eh' orano negli uomini primitivi. E intorno a tutto 
queste qualità il sentimento o il giudizio di tali uo- 
mini circa la bellezza umana corporale differisce o 
espressamente contraddice a quello di tatto le nazioni 
ed epoche civili universalmente ; e sempre è più ra- 
gionevole (4 agosto 1823). 

* Come le formo dell' uomo naturale da quolle del- 
l' uomo civile, cosi quelle di una nazione selvaggia 
differiscono da quolle di un' altra, quelle di una na- 
zione civile da quelle di un' altra ; quelle di un se- 
colo da quello di un altro, per varietà di circostanze 
fisiche naturali o provenienti dall'uomo stesso; e (per 
non andar fino alle famiglie e agi' individui) è cosa 
osservata e naturale che gli uomini dediti alle varie 
professioni matoriali (senza parlar delle morali, che 
influiscono sulla fisonomia, dei caratteri e costumi 
acquisiti, (3091) che pur sommamente v'influiscono, 
e la diversificano in uno stesso individuo in diversi 
tempi), ricevono dall' esercizio di quelle pi-ofessioni 
certo differenze di forme, ciascuno secondo la qualità 
dèi mestiere eh' esercita o secondo le parti del corpo 
[ che in esso mestiere più s' adoprano o pivi restano 
inoperose, cosi notabili che l'attento osservatore, e 
in molti casi senza grande osservazione, può facil- 
mente riconoscere il mestiere di una tal persona sco- 



rasatami (3091-3092-3093) 

nosciuta eh' ei vegga per la prima volta, solamente 
notando corto particolarità dolio suo l'orme. Cosi si 
può riconoscere l'agricolture, il legnaiuolo, il calzo- 
laio, anche sonz' altre circostanze clie lo scuoprano. 

Qual ó dunque la vera forma umana ? Ed essendo 
diversissimo e in parte contrarissime le qualità che 
di essa si osservano in intere nazioni, classi ec. di 
persone, benché goneralmonte o regolarmente, comuni 
in quella tal classe; come si può determinare esat- 
tamente essa l'orma secondo i capi delle qualità re- 
golari e delle parti che regolarmonto la compongono? 
E non potendosi determinare la forma umana (3092) 
regolare e perfetta, perocch' ella regolarmente per in- 
tere classi, nazioni e secoli si diversifica, come si po- 
trà dotorminaro la bellezza della medesima? Quando 
appena si troverà una qualità che la possa comporre, 
la quale non manchi o non sia mancata regolarmente 
ad intero classi e generazioni d' uomini, o non sia 
stata anzi tutto V opposto ? Clio cosa ò dunquo questo 
tipo di bellezza ideale, universalmente riconosciuto, 
eterno, invariabile ? quando noppuro intorno alla nostra 
propria forma visibile se ne può immaginar uno che 
sia riconosciuto por talo da tutti gli uomini, in tutti i 
tempi, o che non possa, o non abbia potuto non es- 
serlo ? quando esso non si trova noppur noi la natura? 
dove dunque si troverà, o dove s' immaginerà, o donde 
si caverà egli ? 

Perocché egli è certo che so taluno fosse (conio 
corto furono e sono molti), il quale non avesse mài 
veduto altra forma d'uomini che l'ima di quello tali 
sopraddette, propria di una cotal nazione, o classe, o 
schiatta ec. oc, (3093) l' idea eh' egli si formerebbe 
della bellezza umana visibile non uscirebbe dolio, pro- 
porzioni o delle qualità eh' ogli avrebbe osservate in 
quella tal forma, e sarebbe lontanissima, o talvolta 
contrarissima, all' idea che si formerebbe un altro che 
si trovasse nella stessa circostanza rispetto a un'altra 



(3093-3094-3095) pensieri 



ISI 



maniera di formo. ÀI quale la bellezza immaginata o 
riconosciuta da quel primo parrebbe vera bruttezza, 

0 composta di qualità eh' egli, se non altro in parto, 
giudicherebbe onninamente brutte e sconvenienti, per- 
ché diverso o contrario a quello eh' egli sarebbe as- 
suefatto a vodore. Un agricoltore il quale non avesse 
mai veduto forme cittadine, crediamo noi che si for- 

lj|Éierebbe della bellezza un' idoa conforme o simile a 
quella do' cittadini ? anzi non contraria affatto in 
molto parti essenziali ? Un popolo di calzolai conce- 
pirebbe la bolla forma dell' uomo tozzotta, di spalle 
larghe e grosso, gambe sottili e ripiegate all' indentro, 

1 iraecia quasi più grosse dello gambe oc. (3094) 

Tutto ciò spetta a quello che nelle forme umano 
'.dipende dalla natura largamente presa, cioè dalle cause 
fisiche oc. l>i quello poi cho dipende dalle usanze, elio 
dovrà dirsi? pareva impossibile nel sedicesimo secolo, 
[secolo di squisito gusto, al Oellini, finissimo conosci- 
tore del bollo, di dar grazia o bell'aria al ritratto del 
Bembo (eh' egli aveva a fare in una medaglia), perché 
il Bembo non portava barba. E il Bembo si loco cre- 
scor la barba per farsi ritrattare dal Celimi, e che il 
ritratto facesse bella vista essendo barbato, o cosi fu 
fatto. Che ne sarebbe parso a un artista de' nostri 
tempi? Molte cose si posson dire dello varie opi- 
nioni ee. di vario nazioni e tempi sopra l'uso della 
barba (eh' è pur cosa naturalo), rolativamento al bollo. 
Cosi de' capelli e delle cosi diverse e contrarie petti- 
nature o tosature (totali o in parte) tenute por bello 
o per brutto in diverse età da una stessa nazione, in 
diverse nazioni ec. Eppure anche intorno ai capelli 
v è la pettinatura naturalo oc. ec. (D agosto 1823). 
(3035) ' 

* Futuri del congiuntivo usati da' latini invece di 
'lucili dell'indicativo, del che altrove. Odoro, memi- 
Wro, credo anche coepero, ìwvcro. Forse ero coi com- 



182 



posti poterò, subero ec. furono originariamente futuri 
del congiuntivo (5 agosto 1823). 

* Riprendono nell' Iliade la poca unità, l'interesso 
principale olle i lettori prondono per Ettore, il doppio 
Eroe (Ettore ed Achille), e conchiudono che se Omero 
nello parti è superiore agli altri poeti, nel tutto però 
preso insieme, nella condotta del poema, nella rego- 
larità è inferiore agli altri epici, particolarmente a 
Virgilio. Certo so potessero esser vere regole di poesia 
quelle eho si oppongono al buono e grande effetto 
della medesima e alla natura dell'uomo, io non di- 
sconverrei da queste sentenze. ') 

Omero fu certamente anterioro alle regole del 
poema epico. Anzi esse da' suoi poemi furono cavato. 
Considerandole d iniquo come cavate e dedotte da' suoi 
poemi, o fondate sull'autorità di Omero, e principal- 
mente dell'Iliade, dico che (3096) chi ne lo trasse 
prese abbaglio, o elio d'allora in poi, fino al di d'oggi, 
s'ingannarono o s'ingannano tutti quelli che lo se- 
guirono o le sostennero, o le seguono o sostengono 
(ciò sono tutti i litteratores) come appoggiato sul- 
l'esempio di Omero: perché quest'esempio non sussi- 
sto, o dalla forma dolla Iliade non nascevano e non 
si potevano cavar quelle regolo. Considerandole poi 
come indipendenti da Omero, come sussistenti da se, 
o supponendo (il che non è vero) eh' elle sieno il parto 
della ragione e dolla speculazione assoluta, dico senza 
tergiversazione che Omero, siccome non le conobbe, 
cosi noanche le sogui, ma seguendo la natura, molto 
miglior maestra delle Poetiche e do' Dottori di scuola 
e delle teorie, s'allontanò effettivamente da osse re- 
golo; od aggiungo che queste sono errate da chiunque 
le immaginò, perché incompatibili colla natura del- 



') In proposito disilo cose contenute "«1 seguito di questo pensiero 
vinli I» p. 470, capoverso •>. 



(3096-3097-3098) PBH8IBM 



183 



l'uomo, perché seguendole il poema epico non può 
produrrò il grande e forte e bollo effetto eh' ei deve, 
o per lo mono (3097) non può produrre il maggiore 
e migliore effetto che gli sia d'altronde e in se stesso 
possibile; e che por conseguenza esso regole sono cat- 
tive e false. 

Nella Iliade pertanto non v' è unità. Due sono 
realissimamente gli Eroi, Ettore e Achille. Due gl'in- 
teressi e diversi l'uno dall'altro: l'uno pel primo di 
questi Eroi e per la sua causa, l'altro poi secondo o 
por la causa dei greci. Interessi affatto contrarli che 
Omero volle espressamente destare e desta, volle ali- 
mentare e mantenere continuamente vivi ne' suoi let- 
tori, e l'ottiene; volle far ciò dell'uno e dell'altro 
interesse ugualmente e corno di compagnia, e cosi fece. 

È proprio degli uomini V ammirar la fortuna e il 
buon successo delle intraprese, Tessere strascina!! da 
questo e da quella alla lode, e per lo contrario dalla 
mala sorte o dal tristo esito al biasimo, l'esaltare 
chi ottenne quel che cercò, il deprimere chi non V ot- 
tenne, lo stimar colui superiore al generale, costui 
uguale o inferiore, (3098) il credersi minor di quello 
e da lui superato, maggior di questo od uguale; in- 
somma, il distribuir la gloria secondo la fortuna. Que- 
sta proprietà degli uomini di tutti i tempi avea mag- 
gior luogo che mai negli antichi. L'esser fortunato 
era la somma lode appo loro (vedi fra 1' altre la 
p. 3072, fine e p. 3342). E ciò per vario cagioni. Pri- 
mieramente la fortuna non si stimava mai disgiunta 
dal merito, por modo eh' eziandio non conoscendo il 
merito, ma conoscendo la fortuna d' alcuno, si reputava 
aver bastante argomento per crederlo meritevole. Come 
hagli stati littori pochi avanzamenti si possono otto- 
nere senz' alcuna sorta di merito reale, e come gli an- 
tichissimi popoli nella distribuzione degli onori, dello 
dignità, delle cariche, dei promi, avevano ordinaria- 
mente riguardo al merito sopra ogni altra cosa, cosi 



184 



PENsnnu 



(3098-3099-3100) 



e conscguentemente stimavano che gli .Dei non com- 
partissero i loro favoli, che la fortuna non si facesse 
amica, se non di quelli che n'erano degni: talmente 
che anche i doni naturali, conio la bellezza o la forza, 
si stimavano compagni (3099) ed indizi de' pregi del- 
l' animo e de' oostumi, e la atossa ricchezza o nobiltà 
e l'altro felicità della nascita cadevano sotto questa 
categoria. Secondariamcnto. non supponendo gli an- 
tichi maggiori beni che quelli di questa vita, fino a 
erodere cho i morti, anche posti nell'Elisio, s'interes- 
sassero più della terra che dell' Avcrno, c che gli Dei 
fossero più solleciti delle cose terrene che delle cele- 
sti, ne seguiva cho considerassero la felicità come 
priiicipalissinia parte di lode, perocché il merito in- 
felice come può giovare a se o agli altri? e come può 
parer buono e grande quello ch'ó inutile? o so il morito 
era infelice, come poteva risplendere ? e non rispon- 
dendo e non giovando in questa terra e per questa vita, 
dove, secondo le antiche opinioni, avrebbe acquistato 
luco e splondoro? dove e a cho cosa avrebbe giovato ? 

Era dunque la felicità principale ed essenzial 
cagiono c parto di lode e di stima e di ammirazione 
e di gloria presso gli antichi, ancor (3100) più clic 
presso i moderni; e massimamente appo gli antichis- 
simi. Perocché insomma ella è cosa naturale il pre- 
giar sopra tutto la felicità, laonde egli è ben ragione- 
vole eh' ella tanto più sia pregiata quanto i costumi, le 
opinioni e la vita degli uomini sono più vicini e con- 
formi alla natura, quali erano in fatti nella più re- 
mota antichità. Omero dunque, pigliando a esaltare 
un Eroe od una naziono, o togliendoli por soggetto 
del suo canto e della sua lode, e facendo materia del 
suo poema l'elogio loro, si sarebbe fatto coscienza di 
sceglierli o di fingerli sfortunati, e tali che non 
avessero conseguito l'intento di quella impresa di 
eh' egli prendeva a cantare. Egli doveva dunque pi- 
gliare un Eroo fortunato. 



1 WS 

(3100-3101-3102) PB Msmw 

E tanto più quanto questo Eroe era un guerriero 
c i suoi pregi eroici il coraggio e, valor dell' animo, e 
l'impresa una guerra. Perocché se ne' tempi moderni 
e/iandio, poca o nulla è la gloria del vinto, e la lode 
di quella guerra (3101) che non è terminata dalla vit- 
toria, molto più si deve stimare ohe cosi fosse appo 
Mi antichi. Era' quali effettivamente l'esser vintoci 
teneva por ignominia, e il vincere in qualsivoglia 
modo era gloria, non si considerando allora gran latto 
altra giustizia che quella dell'armi, altro diritto che 
della forza. Oltre che volendo Omero nel suo poema 
(siccome poi vollero gli altri epici) adombrar quasi 
un modello o un tipo di uomo superiore al generale e 
maraviglioso, e scegliendo per tale effetto un guerriero, 
come poteva egli farlo superiore agli altri uomini e 
singolarmente mirabile per le virtù proprie della sua 
professione, s' ei non V avesse fatto vittorioso? anzi 
tale che ninno gli potesse resistere? Como poteva , egli 
fare che questo Eroe fosse vinto, cioè superato dagli 
altri in quello virtù e qualità per le quali egli inten- 
deva di mostrarlo a tutti supcriore e tra tutti unico, 
affine di produrre la maraviglia, ed eseguire (31 Mi) 
quel tipo di compiuto guerriero eh' ei si proponeva. 
Non è della guerra come d'altre molte imprese che 
possono venir fallite e mancare del loro intento a ca- 
gione di ostacoli insuperabili all'uomo e di forze su- 
periori alle umane. Ma la guerra è dell'uomo coli uomo, 
e quindi è forza il far vincitore colui che si vuol ter 
superiore agli altri uomini e singolare nella sua spe- 
cie per le virtù guerriere. Ohi cede nella guerra, cede 
all'uomo, cosa chejoggidi potrà essere scusata, ma di 
rado lodata; fra gli antichissimi, non che lodata, era 
pur di rado scusata, e generalmente spregiata com el- 
fetto o di viltà o di debolezza, la quale, sebbene in- 
volontaria, era poco meno spregiata della viltà, come 
lo sono anche oggidì proporzionatamente e la debo- 
lezza e tanti altri difetti degl'individui o delle na- 



180 



pensieri (3 i 02-3 1 03-3 1 04-3 ( 05) 



latrai, esteriori o interiori, che non dipendono dallà 
volontà di chi n' ò il soggetto. Dico che la guerra è 
(3103) dell'uomo coll'uomo, sebbene Omero o'intra- 
ìnette anche gii Dei. Ma questa finzione era per ab- 
bellire e non per alterare la natura della guerra ec- 
cetto in alcuno parti poco essenziali. Come quando 
s' introduce Achille alle prese col Csanto. Nel qual 
caso, non essendo la battaglia d'uomo con uomo, ma 
colla superior potenza di un Dio, Omero non si fa scru- 
polo d'introdurre Achillo chiodontc aiuto e fuggente, 
né stima che questo tolga alla sua superiorità, per- 
di' ei lo vuol far superiore agli uomini non agli Dei, 
e vittorioso nella guerra de' mortali, non degli etorni. 
E infatti l'intervento degli Dei, corno non doveva 
(volendo conservare il buono effetto) alterare, cosi ef- 
fettivamente non altera appresso Omero la sostanza 
della guerra umana. 

Conveniva dunque che l'Eroe e la nazione presa! 
da Omero u celebrare fossero fortunati e vittoriosi, 
massimamente aggiungendosi alle (3104) predetto con- 
siderazioni generali questa particolarità che l'Eroo da 
Omero celebrato era greco, e la naziono era la greca, 
cioè quella alla quale egli cantava e a cui egli appar- 
teneva, e la guerra era stata coltro i barbari. Molto 
conveniente cosa, pigliare per soggetto dol poema epico 
lo lodi e le impreso dolla propria nazione e una guerra 
contro i perpetui e i naturali nemici di lei, ciò erano 
i barbari. Cosa che raddoppiava, anzi moltiplicava 
l'interesso dol poema, siccome accade nella Lusiade, 
siccome ancora nell'acide ec. Onde Isocrate pensa 
cho gran parte della celobrità di Omero e della gl'aria 
in che sempre furono i suoi poemi appo i greci, derivi 
dal patriotismo do' modesimi poemi e dalle battaglie 
e vittorie contro i barbari, che in essi sono celebrate. 
(Vedilo nel Pamegfrieo, odirione del Battie, Isocr. Orafi., 
VII, et episU., Cantahrig., 1729, p. 175-70). Or come po- 
teva Omero tìngere o narrar perditori (3105) la sua 



1 87 

(3 105-31 OS) pensieri _____ 

nazione e un Eroe della medesima, e ciò in una guerra 
Latro i barbari? Il che tra gli antichi sarebbe stato 
tanto pi» assurdo che tra i moderni, quando anche le 
lodi e l'interesse del poema fossero stati tutti por u 
fereci, e quando anche, fingendoli sventurati, Omero 
avesse mosso le lagrime e i singhiozzi sopra le loro 
sciagure, sarebbe tuttavia riuscito assurdo di maniera, 
che 'sarebbe eziandio stato pericoloso al poeta. I riluco 
ateniese, gran tempo dopo Omero, fece suggetto di una 
tragedia la presa di Mileto fatta da Dario, e mosse 
gli uditori a pietà sopra quella sciagura dei greci per 
modo, che, secondo 1 ! espressione di Longino (sect. 24) 
tutto il teatro si sciolse in lagrime. Gli Ateniesi lo 
multarono in mille dramme (PiXmJ^R^P%»V t * 
Strano, 1. XIV, Schol. Aristoph., uesp.),perch egli aveva 
rinfrescato la memoria delle domestiche calamita e 
ripostele Sotto gli occhi rappresentandole al vivo, 
(Hbrodot., 1. VI, c. 21); (3106) di più vietarono con 
decreto che quella tragedia fosse più recata sullo sceno 
(Tzetzb, C/i i/-, Vili (alibi reperio l.),Ust., 15<>): anzi, se- 
condo Eliano (Var., 1. XIII, e 17), lagrimando, le cac- 
ciarono dal teatro osso stesso che stava rappresentando 
la sua propria tragedia (vedi Fabricius, Biblica 
Graeca, in Catal. Tragicorum^envs., BiU. Att.; J3ent- 
ley. Din. ad Ep. Phalar, p. 256. Vedi p. 4078). 

' Adunque per tutte queste cagioni doveva ncl- 
l'Eroe di Omero e nella nazione da lui celebrata 
concorrere colla virtù la fortuna. Ed ecco l'uno do- 
gl'interessi che campeggiano w\Y Iliade senza inter- 
ruzione per tutto il corpo del poema; interesse il 
quale consisto noli' ammirazione ispirata dalla stra- 
ordinaria e superiore virtù; al quale interesse e alla 
qual maraviglia, cioè al pieno effetto di tal virtù 
descritta e figurata nel poema, richiedevasi necessa- 
riamente la felicità e il buon successo, che in tutti i 
tempi, ma negli antichissimi principalmente, sono con- 
siderati corno il compimento della virtù, anzi pure come 



188 



(3106-3107-3108) 



indispensabilo perfezione (31 07)di lei, o corno isolo indi- 
zio ohe possa dimostrarla vcrainon lo perfetta e somma. 

Altra proprietà dell' uomo si è che laddove la 
superiorità, laddove la virtù congiunta eolla fortuna 
non produce se non un interesse debole, cioè 1' am- 
mirazione; per lo contrario la sventura in qualunque 
caso, ma molto più la sventura congiunta colla virtù, 
produce un interesso vivissimo, durevolo e dolcis- 
simo. Perocché l' uomo si compiace nel sentimento 
della compassione, perché nulla sacrificando ottiene 
con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni 
occasione gli è gratissiino, cioè una quasi coscienza 
di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è 
naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio 
verso lo sventurato, porche l' uomo per natura odia, 
come il dolore, cosi le idee dolorose. Mirando dun- 
que, malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, 
e non abbominaudolo né disdegnandolo quantunque 
tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a 
voler coll'animo entrare a parte de' suoi (3108) mali, 
pare all' uomo di faro un sforzo sopra so stesso, di 
vincere la propria natura, di ottenere una prova 
della propria magnanimità, di avore un argomento 
con cui possa persuadere a se medesimo di esser do- 
tato di un animo suporiore all' ordinario; tanto più 
ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il compas- 
sionevole interessandosi per altrui, stima con questo 
interesso che niun sacrifizio gli costa mostrarsi a 
so stesso straordinariamente magnanimo singolare, 
eroico, più che uomo, poiché può non essere egoista, 
e impegnarsi seco medesimo por altri che per se 
stesso. ') L'uomo nel compatire s'insuperbisce e si com- 
piace di so medesimo: quindi è ch'egli goda nel com- 
patire, e ch'oi si compiaccia della compassione. L'atto 
della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa 



') Vegga»] lo imgg. 3291-97 4 3480-2. 



(3 108-3 109-3 NO) 



PENSIERI 



189 



tra se stesso. Cosi anche la compassiono che sembra 
1' affetto il più lontano, anzi il più contrario all' amor 
proprio, e che sombra non potersi in nessun modo e 
per niuna parte ridurre o riferire a questo aiuoro, non 
(3109) deriva in sostanza (come tutti gli altri affetti) 
se non da esso, anzi non è che amor proprio, ed atto 
di egoismo. Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi 
un piacere col persuadersi di morire o d'interrom- 
pere le sue funzioni, applicando l'interesse dell'indi- 
viduo ad altrui. Sicché l'egoismo si compiace, perché 
crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere 
di egoismo. Tedi p. 3167. 

Tornando al proposito, il primo dei detti inte- 
ressi, cioè quello della maraviglia, ora rilevato in 
Omero dalla circostanza cho 1' ammirazione cadeva 
sopra la superiorità, la virtù e la felicità di un eroe 
e di un esercito nazionale, sopra un' impresa fatta 
dalla propria nazione e fatta contro i di lei naturali 
nemici. Questa circostanza rendeva non solamente 
possibile ma naturalissima la vivacità e la durata di 
tale interesso ne' lettori o uditori greci (per le quali 
scriveva Omero) in tutto il corso del poema. Tolta 
questa circostanza, il detto interesse non può esser 
né molto vivo né molto durevole. Il lettore non s'in- 
teressa gran fatto per coloro per cui vede continua- 
mente interessarsi lo stesso poeta. L' interesse del 
lettore (nel senso in cui presentemente ci conviene 
intenderlo) è quasi una cura ch'egli si prende (SUO) 
di quello persone su cui l'interesse cade. Or dunque il 
lettore trova inutile il darsi gran pensiero di quelli 
a' quali vede aversi bastante cura da altri. Il poeta 
e la fortuna da lui narrata fanno quello che avrebbe 
a, fare il lettore interessandosi; essi medesimi prov- 
veggono al fortunato: il lettore non ha dunque niuna 
cagione di farlo ogli, ei non desidera quello che gli 
è spontaneamente dato, quello ch'egli ottiene già senza 
darsene briga e sollecitudine. Per queste cagioni ac- 



190 



pensieri (31(0-31 I] -3 i 12) 



cade olio poco e poco dnrevolmonto c'interessi il for- 
tunato, massime no' poemi epici e ne' drammatici. 
Ed effettivamente oggidì i lettori dolla stessa iliade. 
non essendo greci, o non s'interessano mai vivamente 
per li greci, i quali sanno già dovere uscir vittoriosi, 
o presto lasciano d'intoressarsene. *) Ma non bisogna 
dall' effetto ohe l'Iliade fa in noi misurar quello ch'ei 
faceva nei greci, ai quali essa era destinata, né per 
conseguenza l' arte del poeta che la compose, né il 
pregio e valore del poema. (3111) L' altro interesse, 
cioè quello della compassione, non poteva Omero in- 
trodurlo nel suo poema in modo ch'ex si riferisse ad 
Achille o ai greci; non poteva, dico, per le suddette 
ragioni. Solamente poteva fare cho la compassiono si 
riferisse pur talvolta ai grooi o a qualcuno di loro, 
come a soggetti secondaiii e accidentalmente (qual è, 
per esempio, Patroclo), non corno a soggetto primario 
della compassione, al qua! soggetto tendessero tutte 
le fila del poema. Questo soggetto ei lo prese nella 
parte contraria alla greca, in quella parte alla quale 
doveva appartener la sventura, se alla greca doveva 
appartener la felicità. Egli scelse o tìnse tra'nemici un 
Eroe,, per cosi dir, di sventura, il quale fosse opposto 
all'Eroe della fortuna, e l'interesse do! quale dovesse 
perpetuamente bilanciare e contrastare e accompagnare 
l'interesse dell'altro nell'animo dei lettori. Questo 
Eroe sfortunato ei lo fece inferiore di forze ad Achille, 
ed anche ad Aiace e a Diomodo, perché la superio- 
rità delle forze doveva (3112) esser V attributo e la 
lode principale della parte greca (lode ch'era ai tempi 
eroici la più grande); ma oltre che di forze eziandio 
lo fe' superiore a tutti gli altri greci e troiani, di 
coraggio e magnanimità lo foco pari allo stesso Achille, 
e nel rimanente ornandolo di qualità diverso da 
quello di costui, lo venne però a far tale che tanto 



') Veggoai la p. 3452, (iiic-58. 



PENSIERI 



191 



pesasse egli quanto questi. Somma pietà verso gli 
Dei. verso la patria, verso i parenti, somma affabi- 
lità , giovanezza e ci vii bellezza sopra ogni altra 
(giacché quella di Paride non era virilo) della sua 
parte. Di più accortezza e destrezza nel maneggio 
della guerra e nel governo delle battaglie, vigilanza, 
.provvidenza, cura degli amici, pazienza delle fatiche, 
arte di parlare no' consigli pubblici o a' soldati, di- 
sprezzo d' ogni pericolo, l' onore stimato sopra ogni 
cosa, come quando ei ricusa di entrare nella città 
vedendosi venir sopra Achille, e dopo l'onore, la pa- 
tria; costanza ec. ec. Insomma com' egli aveva fatto 
in Achille un uomo (3113) sommamente ammirabile, 
cosi fece e volle fare in Ettore un eroe sommamente 
amabile. E come la vittoria riportata da Achille so- 
pra l'invincibile Ettore porta al colmo 1' ammira- 
zione por colui .cosi la sventura di Ettore metto il 
colmo alla sua Amabilità o volge l'amore in compas- 
siono, la quale, cadendo sopra un oggotto amabile, è 
il colmo, per cosi dire, del sentimento amoroso. Molte 
sventure e di greci e di troiani si narrano o fingono 
nella Iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema, 
ad essa tendono tutte le fila del modesimo niente 
meno e del paro che alla vittoria di Achille, o sem- 
pre unitamente: in essa il poema si chiude. Alle, 
quali cose mirando il nostro Cesarotti, e giudicando 
che Ettore fosse il principal soggetto dell'interesse 
nella Iliade, e la sua sventura per se medesima il prin- 
cipale scopo ed assunto del poema, prosuntuosamente 
ne volle cangiare il titolo e intitolarlo la mcn-te d'Ettore, 
stimando che Omero non avesse bene inteso so (31 14) 
stesso o hi sua propria intenziono quando ne' primi 
versi della Iliade annunziò espressamente un altro as- 
sunto. Nel che s'ingannò grandemente, per non aver 
minilo alla natura umana, alle qualità di quo' tempi, 
alle circostanze di Omero (giacché se oggi noli' i Uade 
V unico, non che principale, interesse è per Ettore, 



192 



pUs&tóiii f3 1 1 4-3 1 i 5-3 116) 



non cosi fu anticamente, né tale fu l' intenzione di 
Omero scrivendo ai greci), o por avere avuto l'occhio 
allo moderne opinioni circa l'unità dell'interesse e 
del soggetto principale. Ma come nell' intenzione di 
Omoro 1' unico interesse non dovette esser quello di 
Achille, né l'unico soggetto e scopo la sua vittoria 
per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto 
incontro un tal Eroe qual fa Ettore; cosi neanclio l'in- 
teresse d'Ettore dovette esser l'unico, né la sua sven- 
tura per se medesima l' unico soggotto e scopo del 
poema. Doppio dovette essere secondo l'intenzione di 
Omero, e doppio infatti riusci (3115) a' lettori o adi- 
tori greci l'interesso, lo scopo e l'Eroe del poema. 

E qui si devo considerare il maraviglioso artifizio 
di Omero. Non solevasi a' tompi eroici, cioè quasi 
selvaggi, stimar gran fatto il nemico. L'odio che gli 
portava la parte contraria, quell'odio il quale faceva 
che ciascun soldato considerasse l'esercito o la na- 
zione opposta come nemici suoi personali, e con questo 
sentimento combattesse, non lasciava luogo alla stima. 
E quando ancho s' avesse cagiono di stimare il ne- 
mico, ciascuno, come si fa de' nemici personali, cer- 
cava a tutto poterò di deprimerlo si nella propria 
immaginazione che presso gli altri, e ricusava di ri- 
conoscere in lui alcuna virtù. Non prevaleva né si 
conosceva allora quella sentenza che la gloria di chi 
fortemente combatte e di chi vin.ee è tanto maggiore 
quanto più forte o stimabile è il nemico e il vinto. 
Ma sebbene allora (31 IG) ciascuno amasse e corcasse 
la gloria sopra ogni altra cosa, ed assai più che al 
presente, ninno si cimava di accrescerla a costo dol 
proprio odio verso il nimico, ninno sosteneva di ag- 
grandire a' propri occhi o agli altrui il pregio dolla 
propria vittoria col considerare e render giustizia al 
valore della resistenza ; ognuno proferiva di tenere 
anzi l' inimico por vile e codardo e tale rappresen- 
tarlo agli altri, perché l'odio e la vendetta pili si 



1 stì 

(3 1 1 6-3 1 1 7-3 1 1 8) pemsi ebi ^ 

•Soddisfa e godo dispreizando il nimico e privandolo 
d' ogni qualsivoglia stima, che sforzandolo e Vincen- 
dolo e quasi piuttosto eleggerebbe di soccombergli 
che di lodarlo. Una tal disposizione offriva poche ri- 
sorse poca varietà, poco campo di passioni al poema 
Lieo. Omero ebbe l'arte di fare che i greci si con- 
tentassero di stimare il nemico che avevano vinto; e 
fece loro provare il piacere, a quei tempi ignoto o 
.' rarissimo, di vantarsi e compiacersi (3117) di 'ina 
vittoria riportata sopra un nemico nobile e vaioloso. 
Questo piacerò fu veramente Omero che lo ««capi. 
Omero che lo produsse; ei non era proprio de tempi, 
non nasceva dalla maniera di pensare o dalle dispo- 
sizioni di quegli uomini, ma nacque dalla poesia 
d' Omero ; Omero, per dir cosi, ne fu 1 inventore. 
Questo gli diodo campo di moltiplicare e incoiai 
gl> interessi, di variar le passioni e gli effetti cagio- 
nati dal suo poema nel? animo de' lettori. 

Come la stima, cesi la compassione verso U ni- 
mico, ancorché vinto e virtuoso, era impropria di quei 
tempi (vedi quello elio altrove ho detto in proposito 
d'un' azione d'Enea appo Virgilio, dopo morto 1 al- 
iante). Gli animi naturali non provano nella vittoria 
altro piacere che quello della vendetta. La compas- 
siono, anche generalmente parlando (cioè quella an- 
cora che cade sulle persone non mimiche), nasce bensì, 
come di sopra ho detto, (3118) dall'egoismo, ed è un 
piacere, ma non è già propria né degli animali, nt 
degli uomini in natura, né anche, se non di rado e 
scarsamente, degli animi ancora quasi incolti (quali 
er,,no i più a' tempi eroici). Questo piacere ha bisogno 
di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà 
sensitiva, di ima raffinatezza o pieghevolezza di egoi- 
smo, per cui egli possa come nn serpente ripiegarsi 
fino ad applicarsi ad altri oggetti, e persuadersi che 
tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benché 
realmente essa riverberi tutta od operi in se stesso o a 

Lkoi'ahdi, — Peneieri, V. 1{ 



fine di se stesso, cioè nell'individuo oho compatisce. 
Quindi è che anche nei tempi moderni e civili la 
compassione non è propria se non degli animi cólti e 
doi naturalmente delicati e sensibili, cioè fini o vivi. 
Nelle campagne dove gli uomini sono pur meno cor- 
rotti cho nello città, rara, o poco intima e viva, e di 
poca efficacia e durata, è la compassiono. Ma lo spi- 
rito di Omero era certamente (31 19) vivissimo e mo- 
bilissimo, o il sentimento delicatissimo e pieghevolis- 
simo. Quindi egli provò il piacere della compassione, 
lo trovò, qnal egli è, sommamente poetico, perocch'egli, 
oltre alla dolcezza, induce nell'animo un sentimento 
di propria nobiltà e singolarità cho l'innalza e l'ag- 
grandisce a' suoi occhi, voro e proprio effetto della 
poosia. *) Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi 
farne l'uno de' principali fini del medesimo, l'uno 
de' principali piaceri prodotti dalla sua poesia. Volle 
accompagnar questo piacere o questo affetto con quello 
della maraviglia, affetto appartenente all' immagina- 
zione e non al cuore, che fino a quel tompo era forse 
stato l'unico o il principal effetto della poesia. Volle 
che il suo poema ojierasso continuamente del pari e 
sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e dall'altra 
sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d' immaginare 
e da quella di sentire. Questo suo intento è manife- 
stissimo (3120) nel suo poema, più manifesto che appo 
gli altri poeti greci venuti a tompi piti cólti, più ozian- 
dio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maravi- 
glia prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son 
soli, sempre tengono il primo luogo. Vedcsi aporta- 
niente cho Omoro si compiace nelle scene compassio- 
nevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene offrono, 
egli immodiatamonto le accetta, che altre ne introduce 
a bella posta e cercatamonte (come l'abboccamento 
d'Ettore e Andromaca a introdurre il quale, e non ad 



') Veggaal hi p. 3167-3 e 3191-7. 



(3 120-3 12 1-3 122) 



l'KKSUÓli] 



195 



altro, è destinata fi ordinata quella improvvisa, vomita 
d ! Ettore in Troia, noi maggior fuoco della battaglia, e 
in tempo che può veramente parerò inopportuno, intem- 
pestivo e imprudente), e che noli' une e nell' altre ei 
non trascorre, ma oi si forma o ci si diletta, e raccoglie 
tutte le circostanze che possono eccitare o accrescerò la 
compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con gran- 
dissima arte e intelligenza del cuore umano. E il sog- 
getto di tutto (3 121) quoste scene, dove l'animo de' let- 
tori è sommamente interessato, non sono altri che que- 
gli stessi che Omero ha tolto a deprimerò, i nemici 
de'greci ch'egli ha proso ad esaltare. Né pertanto egli 
a' astiene dal volere a ogni modo far piangere sopra 
i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sven- 
ture ch'essi avovano cagionate, del che egli nel tempo 
stesso sommamente li celebra. 

Grande, caro, artificiosissimo e pootichissimo ef- 
fetto dell' Iliade, che Omero ottenne col duplicare 
«Spressamonte o 1' interesse e lo scopo e 1' Eroe, che 
non si poteva ottenere altrimenti, che fu tutto in- 
venzione ed opera di Omero, voglio dir l'unione e 
l'armonia di questi due interessi e fini contrarli, e il 
pensiero d' introdurli ambedue nel suo poema, o so- 
stenerli congiuntamente fino all' ultimo, facendoli am- 
mirar sempre del pari. Con che, oltre all'avere rad- 
doppiato l' effotto del suo poema, interessando per 
V una parte 1' immaginazione, por 1' altra il cuore; 
(3122) oltre all' aver potuto congiungere l'interesse 
che deriva dalla virtù felico con quello che deriva 
dalla virtù sventurata (il che non si poteva fare se 
non dividendo i soggetti dell'una e dell'altra, peroc- 
■ehé, accumulando l'una e l'altra in un soggetto solo e 
facendo che di sventurato divonisse felice, o di folice 
terminasse nella sventura, l'uno e l'altro interesse sa- 
rebbe stato imperfettissimo e debolissimo, e distrut- 
tivo 1' uno dell' altro, per modo ohe, finita la lettura, 
- 1 un solo di essi sarebbe rimasto come accado, per 



196 



(3122-3193-3124) 



esempio, nelle cosi dette, assurde tragedie, di. lièto 
fine' 2 ); oltre, dico, all'aver potuto mettere in moto 
nel suo poema ambedue quegl' interessi che fortissi- 
mamente operano nell'uomo e grandissimo piacere gli 
recano, e sono poetichissimi, cioè la maraviglia della 
virtù superante ogni ostacolo ed ottenente il suo fine, 
interesso che in quei tempi principalmente ora di 
gran forza, e la compassione della somma virtù ca- 
duta in somma e non medicabile né consolabile cala- 
mità; (3123) oltre tutto questo Omero ottenne di po- 
tere introdurre nel suo poema un porpotuo contrasto 
di passioni contrarie continuamente operanti ne' let- 
tori, continuamente equilibrantisi l'ima l'altra, conti- 
nuamente sottentranti e implicantisi e mescolantisi 
l'una nell'altra. Contrasto nato dalla duplicazione del- 
l' interesse dello scopo e della persona principale, la 
qual duplicazione, in virtù di questo perpetuo e per- 
petuamente sensibile contrasto, non solo raddoppia 
ma moltiplica più volte l'effetto e l'energia dell'Iliade 
nell'animo de' lettori, o la vivacità delle sensazioni, e 
il commovimento e 1' agitazione dolio spirito, propria 
operazione della poosia. 

Tali si furono le intenzioni di Omero, tale il 
mezzo e l'arto da lui adoperati por conseguirlo, tale 
la vera natura, il vero carattere, il vero andamento 
del suo poema, la vera forma ch'egli ha o che l'au- 
tore volle dargli. Vediamo ora gli altri poeti epici e 
i loro poemi, e (3124) le regolo dell'epopea che dopo 
Omero furono concepute e insognate e poste e se- 
guite. 

Videro tutti la necessità di far che 1' Eroe e la 
impresa principale cho si prendesse a lodaro o a nar- 
rare nell' epopea riuscissero felicemente. Ciò fu dato 
per regola e questa regola fu seguita da tutti. Mas- 
simamente che dietro 1' esempio dell' Iliade, (benché 



*) Vergila! la p. 3348, aojjg., o in particolare p. 3350-1 



^3124-3 1 25-3126) l'EKsmm 197 

fWdtoea ministrasse pura un esempio diverso) 
non fu stimato proprio soggetto di poema epico altro 
che imprese guerriere, né d'altro genero d' Eroe la 
creduto elio l'epopea dovesse rappresentare il modello, 
«e non che del gran Capitano. Onde parvo tanto piti 
necessaria la felicità nell' Eroe del poema e aell im- 
presa che no fosse il soggetto, non giudicandosi de- 
gno d' epopea un Capitano vinto da' nemici ne ima 
guerra perduta. 

Sin qui andava bene: ma v'era il grandissimo 
inconveniente che l'interesse che i lettori possono 
prendere per li fortunati, ancorché virtuosi, e scarso, 
<lebole e breve, e non (3125) si può reggere pel corso 
d'un lungo poema, né tutto, per cosi dire, animarlo e 
vivificarlo, né anche sufficientemente animarne una sola 
parte. Mancando il contrasto fra la virtù e la fortuna, 
olirò che ne scapita la verità dell'imitazione, essendo 
pur troppo il vero cho questo contrasto sussiste nel 
mondo ed è perpetuo, onde un virtuoso fortunato e 
soggetto quasi romanzesco, e toglie quasi fede al poema, 
e impedisco l'illusione, ») (massime a' moderni tempi, 
perché a quelli d'Omero era altra cosa); ne seguiva 
anche il pessimo effetto della freddezza, perche il 
lettore non ha cho interessarsi per la virtù, veden- 
dola felice, ed ottener già quello che le conviene. 

Quindi è cho ne' poemi epici posteriori ad Omero 
V Eroe e l' impresa felice nulla avrebbero interessato 
i lettori, se dosso eroe, dessa impresa, dessa felicità 
non fossero in qualche modo appartenuti ai lettori 
medesimi, come Achille oc. ai greci. In verità mi (3126) 
poema epico di lieto fine richiede necessariamente 
la qualità di poema nazionale; e por ciò che spotta 
e mira a esso fine un poema epico non nazionale 
non può interessar ninno ; nazionale non può mal 
produrre un interesse universale né perpetuo, ma 



') Veggasi la p. 34&I-2. 



I 98 pensieri (3 1 26-3 127) 

solo nella naziono e per certe circostanze. L' Eneide 
fu dunque poema nazionale, e lasciando star tutti gli 
episodi e tutte lo parti e allusioni cùe spettano alla, 
storia ed alla gloria de' romani, V Eneide, anche per 
suo proprio soggetto, potè produr ne' romani il primo- 
di quell'interessi che abbiamo distinto in Omeri): 
perocché i romani si credevano troiani di origine 
sicché la vittoria d'Enea consideravasi o poteva con- 
siderarsi da essi corno un successo e una gloria aviiu. 
e ad ossi appartenente, e da essi ereditata. Il sog- 
getto della Lusìade fu nazionale e di più moderno. 
Egli non poteva esser più felice quanto al produrrò 
quel primo interesse di cui ragioniamo. Il soggetto. 
àoXVEnriade è affatto nazionale e la memoria di quél* 
l' Eroe era particolarmente cara ai francesi, onde la 
scelta dell' argomento in genere fu molto giudiziosa,, 
massime eh' e' non era né troppo antico né troppo mo- 
derno, anzi quasi forse a quella stessa o poco diversa, 
distanza a cui fu la guerra troiana da' tempi d'Omero. 
Il soggetto e l'eroe (3127) della Gerusalemme furono 
anche più ohe nazionali e quindi anche più degni; 
o furono attissimi ad interessare. Dico più che na- 
zionali, perché non appartennero a una nazione sola, 
ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, 
da un medesimo spirito, da una medesima professione, 
da un medesimo interesse circa quello che fu il sog- 
getto del Goffredo. Dico tanto più degni, perché, es- 
sendo d' interesse più generale, rendevano il poema 
più che nazionale, sonza però renderlo d' interesse 
universale, il che, trattandosi di quollo interesse di 
cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di 
ninno interesso. Dico attissimi a interessare, perché, 
quantunque fosse spento in quel secolo il fervoro delle 
Crociate, durava porò ancora generalmente ne' cri- 
stiani uno spirito di sensibile odio contro i turchi, 
quasi contro nemici della propria lor professione, 
perche in quel tempo i cristiani , ancorché corrottis- 



1 <K1 

(3127-3128-3129) pensieri 1M 

«imi ne' costumi e divisi tra loro nella fede, consi- 
deravano per anche la fede cristiana (3128) come 
cosa propria e i nemici di lei come propri nemici cia- 
scuno ; e quindi non solo con odio spirituale e per 
amor di Dio, ma con odio umano, con passiono, per 
cosi dir, carnale e sensibile, per proprio rispetto e 
per inclinazione odiavano i maomettani non che il 
inaomettanesimo. E la liberazione del sepolcro di 
Cristo era cosa di che allora tutti a' interessavano, 
siccome in questi ultimi tempi della distruzione 
della pirateria tunisina e algerina , benché questa e 
quella fossero più noi dosiderio che nella speranza, 
o certo più desiderate che probabili : aggiunta pero 
di più la differenza do' tempi, porocché nel cinquecento 
le inclinazioni e lo opinioni e i desideri! pubblici 
erano molto più manifesti, decisi, vivi, forti e co- 
stanti eh' e' non possono essere in questo socolo. Sicco- 
me nel trooento il Petrarca (Canz. 0 aspettala), cosi nel 
cinquecento tutti gli uomini dotti esercitavano il loro 
ingogno nell'esortare, o con orazioni o con lettere o con 
poesie pubblicato per le stampe, lo nazioni e i principi 
d'Europa (3129) a deporrò le differenze scambievoli 
e collegarsi insieme per liberar da' cani ') il Sepolcro 
e distruggere il nomico de' cristiani, e vendicar le 
ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel so- 
colo il vóto generalo cosi delle persone cólto, ancor- 
ché non dotte, come ancora, se non de' gabinetti , 
certo di tutti i privati politici, elio in quel secolo di 
molta libertà della voce e della stampa, massimamente 
in Italia, non eran pochi ; ') e di questo voto bi faceva 



') Tetrarca, Tr. dellu Fama, cnp. 2, terzina 48. 

« Erano allora i politici privatista .11 «.line» in Italia «ha altrove, 
1' opposi,, appunto ili oggidì, perché pare al contrario di oggidì era in 
quel aoc.olo maggiora in Italia olio altrove, e pivi comune o divulgata nelle 
aiverae classi, la coltura « l'amor dello lettere e «lonzo od erudizione 
par mia pane (le quali cosa tra noi si trottavano in lingua volgare, e tra 
gli altri por lo più in lutino. Inorali o in lapas" 11 ) e per l'altra una turbo- 
lenta Uberto fomentata dalla moltlplloita o piccolezza degli alati elio dava 



200 



pensieri (3 129-31 30-3 131) 



continuamente materia allo scritture e allusioni di- 
gressioni ec., e di quol progetto o sogno ohe vo- 
gliala dire si riscaldava l' immaginazione do' poeti e 
de' prosatori, è se ne traeva l' ispirazione dello scri- 
vere. Niente meno che fosse nell'ultimo secolo della 
libertà della Grecia fino ad Alessandro, il desiderio, 
il vóto, il progotto di tutti i savi greci, la concordia 
di quelle repubbliche, l'alleanza loro e la guorra 
contro il gran re e contro il barbaro impero per- 
siano perpetuo nemico dell'uomo greco. F corno Iso- 
crate (3130) per conseguir questo fine s' indirizzava 
collo suo studiatissime ed epidittiche, scritto o non 
recitate, orazioni ora agli ateniesi (nel Panegirico, e 
vedi 1' Orazione a Filippo, edizione sopra citata, pa- 
gine 2(50-1), ora a Filippo , secondo eh' ei giudicava 
questo o quelli più capaci di volerlo ascoltare o più 
atti a concordare e pacificar la Grecia e capitanarla 
contro i barbari, cosi nel cinquecento lo Speroni s' in- 
dirizzava pel dotto effetto con una lavoratissima ora- 
zione stampata, e non recitata né da recitarsi a Fi- 
lippo II di Spagna, od altri ad altri secondo i tompi e le 
occasioni. Ma tutto indarno, non come accaddo ai greci, 
il cui vóto fu adempiuto da Alessandro, mosso fra 
1' altre cose, come è fama (vedi Eliano, Var., 1. 13 e 
ónóiÌEc:. tou, npò? tfiUn. ).ó-f ou )j dall'orazione appunto che 
Isocrate n' avea scritto a Filippo suo padre, P uno e 
V altro già morti. 

Or, considerate queste circostanze, si trova vera- 
mente savissima, opportunissima, nobilissima la scolta 
fatta dal Tasso e degna di quel grand' animo che 
seppe concepire nientemeno (3131) che un poema eu- 
ropeo (qual fu il Goffredo, non meno per l'argomento 
che per gli altri pregi), dove la generalità dell' in- 



luogo a poter rudimento trovar sjoarezza e Impunità col passare i confini 
e mutar soggiorno ehi aveva o violato le leggi o troppo llboranionte 
parlato 0 scritto, o offeso alcun principe o repubblica nello atato Italiani) 
in eh' ei dapprima wi trovava. 



|9l3t-3l32) pen sieri 201 

torero non pregiudicasse (di' 6 pur si difficile e raro) 
alla vivacità o forza del medesimo. ») E in vero se 
dalla estensione dell' interesso si deve misurare, al- 
meno in qualche parto, il pregio d'un poema, anzi 
dV'ni scrittura, niun poema epico m questa parte 
né vinse no agguagliò la Gerusalemme, siccome an- 
cora secondo lo opinioni di que' tempi, no' quali ci 
dobbiamo riporre coli' intelletto , niun poeta epico si 
propose mai scopo pili nobile né più degno ne più 
magnanimo che il Tasso, il quale, intese col suo 
poema di contribuir più che tutti gli altri scrittori 
insieme ad eccitare i principi cristiani a quella sacra 
e generosa guerra ce, coli' esempio e la lode di quelli 
che l'avovano intrapresa e valorosamente operata e 
felicemente terminata (puoi vedere per meglio cono- 
scere le opinioni e i sentimenti (3132) dell'Europa 
cristiana verso l' impero Turco nel cinquecento la 
BMiotheca Grava del Eabricio, t. XIII, pag. 600-6 . ) 

Molto ragionevolmonte adunque ì sopraddetti 
poeti (por non parlare degli altri, come di Voltaire 
e di ErciUa, autore AelV Araucana, e del Tnssmo oc ) 
scelsero ai loro poemi argomento nazionale, senza la 
qual circostanza (largamente però intendendo la parola 
nazionale, come, per esempio, circa la Gerusalemme) e 
assolutamente impossibile dare alcuno interosse a un 
poema epico che abbia e sorbi la unità, com'ella oggi 
s' intende. Ed è perciò ben poco lodevole l'assunto di 



») Notisi «he il Tasso procurò eziandio 'li render lUUlonale 1 MgO- 
gn.ucnto della Gerusalemme col duro tra' cristi»..! le maggiori vari, del 
valore a due italiani Tancredi di Campagna nel Napoletano, « q«f» «» 
patria del Tasso, e ninnalo d' liste progenitore del Duca a coi il lasso 
indirizzava il poema. E Einnldo si è propriamente, non puro il seconde, 
ma l'altro Eroe della Oewalanme co.. Goffredo, corno lio detto a ano 
luogo, e, secondo Pinteuaion del Tasso, a parti uguali, ma in effetto 
o 1 riesce maggior dì GoltVcdo. ' • , 

s ) Vedi p. 3173. Vedi ancora particolarmente lo Speroni, Orastum. 
Venezia, 1886, p. 23 e p. 56 e 10D o Castiglione, Cortigiano , odi/.. Von.. 
1541, carta 173; ediz. Von,, 1565, p. l'IZ-i, libro IV. 



202 



pensieri (3132-3133-313*) 



quel moderno ohe volle dare all' Italia una nuova Ge- 
rusalemme (Amor, Gerusalemme distrutta). 

Ma l'interesso ohe nasce dalla virtù felice è, come 
ho dotto, sempre debole anello in un soggetto nazio- 
nale e soffre moltissimi inconvenienti, massime in 
tempi cosi diversi da quelli di Omero, come sono i 
moderni e corno furono quei di Virgilio elio in molte 
parti si rassomigliano ai presenti. 

1°, Tutte quelle speciali circostanze che ne' tempi 
antichissimi rendevano singolarmente progevolo (3 133} 
la felicità, e cagione di stima per so medesima, peri- 
rono ben tosto, ed altre contrarie no sottentrarono che 
produssero e producono contrario effetto, o sempre lo 
produrranno, porche queste soconde circostanze non 
sono per passar mai. 

2°, E cosi falso, ') o per lo meno straordinario, 
che la virtù sia compagna della fortuna, che un vir- 
tuoso fortunato, un meritevole elio ottiene il suo me- 
rito (e tanto più s' egli è straordinariamente merite- 
vole, so la sua virtù è veramente singolare, il che oggi 
sommamente nuoce), eccede quasi quel grado di sin- 
golarità e rarità che è compatibile colla credibilità, 
colla illusione, coli' immedesimarsi che doo faro il 
lettore no'casi e ne'personaggi narrati dal poeta, con 
quella cotal somiglianza che il lettore doo pur trovare 
tra quoi casi e i presenti, tra quelle persone e se stesso; 
dove, dico, trovarla per qualche parte, a voler ch'ei 
ci provi interesse. Di quosto inconveniente ho già detto 
di sopra. 8 ) Esso ancora non è mai per passare, anzi 
cresce e crescerà, si conforma e confermerassi ogni di 
mangi ormeT1 te. (3134) 

3", E ciò tanto più, quanto 1' idea che noi ab- 
biamo della virtù è ben diversa da quella che s'aveva 
a tempi d' Omero. La virtù qual suol essere concepita 



<) Volgasi In p. 3451-2. 

z ) Vegga»! I* p- 3125. 



203 



dai moderni lia la fortuna assai più nemica, che non 
queliti virtù concepita dagli antichissimi, la quale 
consisteva quasi tutta o principalmente nella forza e 
nel coraggio; qualità che, so non sempre, certo assai 
spesso yon seguite (anche oggidì) dalla fortuna, e 
molto giovano a conseguirla. Ond' era tanto più ra- 
gionevole e conveniente che a quei tempi 1' eroe del 
poema epico, il qualo dov'essoro sommamente virtuoso, 
si sccgl l'osso felice, purclii: quella virtù in circi si 
doveva rapprosentare eccellente conduce infatti alla 
felicità, e il mostrar ch'ella non avesse conseguito il 
proprio intento l'avrebbe mostrata imperfetta, come- 
quella cho non era bastata a produrrò quel eh' ella 
suole, e a che ella naturalmente serve e conduce. 
Massime che gli uomini sogliono giudicar dai suc- 
cessi (3135) ed estimare assolutamente la natura, le 
qualità, il grado, il valore e la propria bontà delle 
cose dai loro effetti. Ma la virtù modernamente con- 
siderata è por sua stessa natura, non solo non condu- 
cente, ma progiudizievole alla fortuna. Questo di- 
scorso ha massimamonte luogo ne' tempi più moderni 
in cho l' idee morali, e per cagione del cristianesimo 
e por altro, sono più raffinate, e sempre più tanto si 
raffinano quanto più divengono inutili, o tanto si per- 
fezionano e sottilizzano in teoria, quanto si vanno se- 
gregando affatto dalla pratica. Ma proporzionatamente 
le dotte considerazioni sono anche applicabilissime ai 
tempi di Virgilio ; e infatti la virtù di Enea è im- 
mensamente diversa da quella di Achille, e il tipo di 
perfetto eroe, concepito e voluto esprimere da Virgilio, 
fu diversissimo e in buona parte contrario a quello 
di Omero. 

4°, Oggi l'amor patrio e nazionale è quasi nullo. 
Anche ne' romani al tempo di (3136) Virgilio esso era 
abbastanza raffreddato, perché quasi niun di loro con- 
siderasse più la sua patria come cosa individualmente 
sua propria. Il che appunto facevano i più antichi, e 



204 



pensieri (3 1 36-3 1 37-3 ! 38) 



come questo cagionava l'entusiasmo che ciascun d'ossi 
manifestava nell'operare per la patria, cosi produceva 
il grando intorosso ohe ciascuno pigliava alle glorie 
d'ossa patria, cantate dai poeti. Questo spirito non si 
trovava più no' romani, o poro non potò essere se 
non mediocre in esso loro l' interesse verso le vitto- 
rie e le lodi di remotissimi loro antenati, che oltrac- 
ciò portarono un nomo diverso dal loro (troiani). 
Omero cantò ai greci liberi , e Virgilio ai romani, 
dopo lunghissima e ferocissima libertà fatti sudditi, 
e di più pacificamente tiranneggiati, perché quello 
fu quasi il più pacifico tempo dell' impero romano, e 
in ch'essi meno pensarono a libertà e meno si dolsero 
del giogo. Dolio nazioni moderno poi, nulla dirò. 
Parlino i fatti; e se ne deduca quanto vivo e (3137) 
durabile interesse possa cagionare in un' epopea la 
nazionalità dell' impresa e dell' Eroe. Quando non esi- 
ste quasi nazionalità nello nazioni. Ciò vale sopra- 
tutto per l' Italia. 

5°, Einalnionto l' intorosso elio può produrre in 
un poema epico un Eroe ed un' impresa nazionale, fe- 
lice, né può, come è chiaro, riuscire universale né 
anche può essore perpetuo, come più sotto si mostrerà 
cogli esempi. Unico interesse che possa in un'epopea 
riuscire universale e per luogo e per tempo, cioè co- 
mune a tutte le nazioni e a tutti i secoli, si è quello 
che nasce dalla sventura e più dalla virtù sventurata, 
dalla beltà, dalla giovanezza e anche dal valor militare 
personale sventurato. E questo altresì può solo esser 
vivissimo e durare in chi legge, per tutto il corso della 
lettura, e perseverare nel suo animo lungo tempo di 
poi, come pungolo lasciato nella piaga. 

Ma l'unico modo che v'aveva d' introdurre questo 
interesse nel poema epico, quello, dico, usato da Omero 
nell'Iliade, cioè di duplicare onninamente l'Eroe, l' in- 
teresse e lo scopo poetico di tutta 1' epopea, non so- 
lamontc (3 1 38) dagli epici posteriori ad Omero non tu 



r>05 

(3138-3139-3140) . pensieri 

&to abbracciare, ma fn sopra tutte l'altro cose fuggito, 
-omo creilo die dirittamente avrebbe esclusa quella 
unità d'interesso, di scopo e d'Eroe, che quei poeti 
e j Doltoii de' loro tempi e do' nostri davano pei 
«rimana e supremamente indispensabile qualità del 
La epico: la unità, dico, non quale e quella della 
Iliade, dalla quale pur furono tratte le regole, lo 
torme o il tipo dell'epopea, ma quale i posteriori .in- 
segni metafisicamente sottilizzando e troppo artisti- 
camente e strettamente considerando la concepirono, 
determinarono e prescrissero. Ond> è che quantunque 
in ciascuno denominati poemi epici v' abbiano molte 
sventure cantate, ed avendovi una parte Vittorio» e 
fel ice v' abbia altresì necessariamente una parte soc- 
combente e sfortunata, si guardarono però bene tutti 
i detti poeti di farci piangere sopra questa sventura, 
come aveva fatto Omero; e di condurrò il poema in 
modo che (3139) all'ultimo la vittoria dol a parte 
avventurosa, benché sempre desiderata e allora ap- 
plaudita dal lettore, fosse noi tempo medesimo cor- 
dialmente da lui pianta e lagrimata, destandosi cosi 
nel suo animo, si pel corso del poema si massima- 
monte nel fine, e durando in esso dopo la lettura quel 
vivo contrasto di passioni e di sentimenti , quella 
mescolanza di dolore e di gioia e d' altri similmente 
contrarli affetti che dà sommo risalto agli urn e agli 
altri, o ne moltiplica le forze, o cagiona nell animo 
de' lettori una tempesta, un impeto, un qnasi gorgo- 
gliamento di passioni che lascia durevoli vestigi ai 
se, e in cui principalmente consiste il diletto che si 
riceve dalla poesia, la quale ci dee sommamente muo- 
vere e aqitare e non già lasciar l'animo nostro m 
riposo e in calma. Questi mirabili effetti li produsse 
divinamente la Iliade, costringendo gli uditori greci a 
piangere sulla morte' e sui funerali di Ettore ucciso 
dalle armi de' loro (3140) maggiori, in guerra, por 
loro giusta e con giusta causa (cioè la vendetta di 



pen sieri (3140-3 141) 

Patroclo), e a mescolare i loro lamenti con quelli di 
Andromaca e della desolata città nemica, già vicina 
ali ultima calamità, che, per cosi dire, le loro proprio 
«rnu o i loro propri i eserciti gli avevano infatti re- 
cata. Sublimissimo effetto concepito, disognato o pro- 
dotto da Omero in tempi feroci e semibarbari, e non 
saputo concepire né produrre da vermi altro epico in 
tempi civili. Perocché, temendo di raddoppiar l' in- 
teresse (eh' era appunto ciò che avevano a fare, o 
senza il che non ora possibile quel divino effetto), 
evitarono espressamente e studiosamente di fare in 
modo che la parte nemica o alcun personaggio di essa 
riuscisse più che tanto virtuoso o per qualunque lato 
interessante sino al fine. E maggiormente si guarda- 
rono di sempre ugualmente condurrò e in ultimo an- 
nodare le fila della loro epopea tanto all'esito (3141) 
dell'Eroe vittorioso quanto a quello di un altro Eroe 
« lui por molti lati pari e seco lui compensabile e 
comparabile; ma soccombente. Come fece Omero, perché 
noli' Iliade, Ettore è, e In voluto rappresentare, espres- 
samente comparabile ad Achille. 

j, r Tumo non 0CCU P U so non pochissima parte del- 
1 Eneide, e riesce cosi poco interessante che certo la 
sua sventura e morte non ha mai tratto ad alcuno 
un sospiro. Gli Eroi do' barbari nella Gerusalemme 
SOiw appostatamele pili d' uno e di ugualissimo pre- 
gio, ') sicché l'interesse non si determina por alcuno 
di loro, né della loro morte o calamità ninno si com- 
piango, né a veruna di queste morti o calamità ten- 
dono lo fila dol poema. Di più il Tasso, stante lo 
spinto del suo tempo, e stanto che in quel caso pa- 
reva che la religione interdicesse, come suole, e con- 
fondesse colla empietà l'imparzialità, non potè a meno 

') Argute, Clorinda , Solimano. Questi ed Arganta sono anche 
espressamente omnli, ma tatti tre pari di valore. Altri eroi degl' infedeli 
non v ha nella Gerusalemme. Vedi p. 3&5S 



(3 141 -3 142-3 143) PENSIERI 

di rappresentare con tratti odiosi (in alcuno più in 
altri manco, ma generalmente, o massime in Solimano 
'ed Argante, odiosi) i nemici de' cristiani. Quindi 
nella presa di Gci-usalonimo ninno sente por niun 
modo la sventura e il disastro di quella città infedole, 
né (3 142) la presa è descritta o narrata con intenzione 
di muovoro a compati mento, né in maniera da po- 
terne mai ragionare né meno a caso. Altrettanto di- 
casi delle sconfitte degli eserciti maomettani o pagani. 
E similmente si discorra dell'altre moderno epopee. 

Non è già che Virgilio e gli altri volessero e 
intendessero spogliare affatto d' ogni valore, d' ogni 
virtù, d' ogni pregio la parte contraria alla vincitrice. 
Anzi, intendendosi a' tempi loro meglio elio a' tempi 
d' Omero, che tanto più si loda colui che vince non per 
caso ma per virtù, quanto s'amplifica quella dol vinto, 
non lasciarono di volere espressamente rappresentare 
virtuosi in molte parti o degni di stima e lodevoli an- 
che i nemici, si tutti insieme, come parecchi distinti 
personaggi del loro numero. Ma ciò facondo, inton- 
tissimamonto evitarono che l' interesse pe' nomici o 
per alcuno do' medosimi non giungesso di gran lunga 
a pareggiare quello che volevano ispiraro ai lettori 
verso la parte e 1' Eroo vittoriosi. Nel che riuscirono 
ottimamente, anzi al di là della loro intenzione, perché 
laddove ossi vollero pur (3143) comunicare alcun poco 
d'interesso a questo o quel personaggio nemico o alla 
parte inimica, niuno glione comunicarono. 

Queste sono lo forme di poema epico, e queste le 
regole e il processo soguiti o adoperati dall'una parte 
da Omero, dall' altra parte dai poeti epici che, por dir 
cosi, da lui nacquero. Comparate cosi le forme, l'idea, 
e ; so cosi vogliamo dire, lo cagioni e le intenzioni 
dc'poeti, consideriamo ora generalmente o paragoniamo 
i rispettivi effetti. 

Neil' Iliade oggidì l' interesse por Achille e pel- 
li greci, come ho detto, è poco o niuno, porche i suoi 



207 



208 



pensieri (3143-3144-3145) 



lettori non sono più greci. Nondimeno l'interesse nel- 
V Iliade è vivissimo, continuo e durevole eziandio dopo 
la lettura. Esso è per Ettore e per li troiani. I let- 
tori di qualsivoglia nazione, dopo tanti secoli, dopo 
tanti cangiamenti sofferti dallo spirito umano, tutti 
efficacemente e continuamonto s'intorossano leggendo 
la Iliade. E tutti non per altri che per li troiani e 
per Ettore, cioè per la sventura; o questo interesse 
(3144) si riduce principalmente, e come a suo capo, 
alla compassione. Questa cioè è quel sentimento do- 
minante e finalo , elio noi nolla Iliade provando , 
chiamiamo intoresse della medesima. Le quali coso 
mossero il Cesarotti a intitolar quel poema, come ho 
detto, La Morte d' Ettore, misurando l'indole e 1' in- 
tento primitivo , proprio e vero del poema dall' ef- 
fetto ch'ei produco sopra di noi in tanta diversità 
e lontananza di tempo, di nazione, di opinioni, di 
carattere e di costumi. Neil' Eneide V intoresse della 
compassione non v' è. Dico non v' è, come interesse 
finale. Quollo elio si concepisco por Bidone, quello 
por Niso od Eurialo sono interessi episodici che non 
ci accompagnano se non per piccola parto del poema, 
né hanno che faro colla sostanza o collo scopo di esso, 
talmente che possono affatto risecarsi senza che la 
testura né il principale e finale effetto del pooma per 
nulla se ne risentano o ne sieno cangiati. L'interesse 
per 1' Eroe felice , cioè per Enea e per la parte 
felice, cioè per li troiani, dovotto esser mediocre an- 
che a principio , (3 1 45) come di sopra ho mostrato , 
ed ora è pili che mediocre. E ciò non ostante che il 
lettore di Virgilio non possa quasi a meno di trasfe- 
rire o di continuare ne 1 fortunati troiani dell' Eneide 
quell'interesse ch'egli ha conceputo per gli sfortu- 
nati e vinti troiani della Iliade. Perocché egli è cer- 
tissimo che l' Iliade, oltre all'aver partorito l'Eneide^ 
oltre all'averla nutrita e cresciuta, per dir cosi, del 
suo proprio latte (voglio dire averle somministrato 



3145-3 1+6-3147) 



rENSiF.ni 



209 



l'argomento e i materiali in gran parte, o datogliene 
l'occasione, e d'altronde avorio porto i mozzi e i modi 
di trattarla, e gli ornamenti ee., cioè il modello e lo 
immagini o le l'ormo delle invenzioni, dell'ordine, 
dello stilo poetico ec). la sostiene e l'aiuta anello og- 
gidì', comunicandole parte del suo proprio interesse, 
riscaldandola del suo fuoco, e riverberandosi sulla 
Eneide, e in essa influendo e derivandosi e quasi ir- 
rigandola gli a (Tetti clic la lettura o la notizia della 
.Iliade inspirò. Laonde se la Eneide , quanto al suo 
principal soggetto, ispira alcuno interesso, egli è pur 
da notare che grande e forse la massima parte di 
esso, non a loi propriamente appartiene, ma lo vicn 
di fuori, c l'è totalmente accidentale ed estrinseco, 
non interiore ed essenziale, né in essa (3146) nasce ma 
altrove ed anteriormente nacque. Il che non si deve 
confondere col proprio o nativo interesse doli' Eneide . ') 
La Lusiade avrà corto interessato ed interesserà 
forse anche oggidì i lettori portoghesi, né si può ba- 
stantemente lodare lo sfortunato Òamoens per l'avere 
scelto un soggetto cosi strettamente nazionale, e di 
pili per l'aver saputo adattare e far matoria di poema 
epico un argomento allora modernissimo, qualità che 
per l'una parte produce estremo difficoltà lo quali a 
•'molti sono sembrate in un poema epico insuperabili, 
e per l'altra sommamente contribuirebbe a produrre 
o singolarmente accrescerò l'interesse d'un' epopea, 
come ancora di un dramma e di qualsivoglia, poesia. 
Ma por li lettori dell'altre nazioni non so quanto nella 
Lusiade possa essere l'interesso, né se ne' medesimi 
portoghesi, mancata la recente memoria di quello im- 
preso, e raffreddato, come por tutta l'Europa, l'amor 
Razionalo e gli altri sontimenti magnanimi, la Lu- 
siade produca per ancora un interesse abbastanza (3147) 
vivo, continuo 0 durabile 



!) Hi questi interessi acciiliiiituli volli la p. 2G45-8. 
Lbopahdi. — Panieri, V. 



li 



210 



pensiehi (3147-3148-3149) 



Quello spirito dell'Italia o dell'Europa cristiana 
verso gl'infedéli (e. diciamolo ancora, verso il cristia- 
nesimo) che disopra ho descritto, che regnò al tompo 
del Tasso e ne' precedenti, che in lui ancora grande- 
mente potè, che ispirò e produsse la Gerusalemmi;, è 
totalmente sparito e perduto, e le nostro condizioni a 
questo riguardo sono affatto cangiate in tutta l'Eu- 
ropa. Nullo è dunque oggidì l'interesse della Geru- 
salemme. Dico che la Gerusalemme, non ha più real- 
mente veruno interesse finale e principale, cioè non 
ispira più quell'interesse eh' ella principalmente e per 
istituto si propone d'ispirare; perocché esso non ha 
più luogo negli animi de' lettori, affatto cangiati corno 
sono, né può pili nascere in alcuno quell'interesse, es- 
sendo mutate e quasi volte in contrario le circostanze. 
Benché certo la Gerusalemme al suo tempo ispirò 
moltissimo interesse, e forse maggiore che VEnr/de 
al tempo suo, od oltre di questo universale nello cólte 
nazioni, (3148) dove quello dell'Eneide non potè es- 
ser che nazionale. Né certo la Gerusalemme mancò 
dol suo fine. Ma ora non per tanto non può più pro- 
durlo. Interessi perciò opisodici e non finali ve n'hanno 
molti nella Gerusalemme. V ha quello di Olindo e So- 
fronia c nasco dalla sventura. V ha quello di Ermi- 
nia, quello di Clorinda, e nascono dalla svontura. 
V ha quello dol Danese, e nasce dalla sventura, e, 
quel eh' è notabile, da sventura toccante alla stessa 
parte che aveva a riuscir vittoriosa e fortunata, cioè 
a diro alla cristiana. Colla quale occasione è da consi- 
derare la bella e straordinaria facoltà che concedeva al 
Tasso lo spirito del suo tempo, cioè di congiungere la 
compassione alla folicità, di far nascere questa da 
quella, di salvar l'unità estrema che si esigeva ne' poemi 
epici, pigliando un|Eroo felice e facendolo non per tanto 
compassionevole. Alleanza impossibile anticamente, 
difficile e di poco buono effetto oggidì. Ma le opinioni 
cristiane (elio al suo tempo fiorivano) riponendo (3149) 



(3149-31501 PEKSirau _ 211 

lafelicit.à propria dell'uomo nell'altra vita, facendola 
indipendente da quella di questo mondo, considerando 
le sventuro temporali come vantaggi e reali fortune, in- 
gegnando massimamente esser felicissimo ohi soffre 
per la giustizia e poi- la fede e per Dio, e più chi 
muore per loro amore e cagiono, davano luogo al Tasso 
di rappresentare come felice e come giunto al suo de- 
siderio e scopo un - personaggio, il quale, facendolo 
temporalmente sventurato e nello sventure magna- 
nimo oc, poteva pur fare sommamente compassione- 
vole o tenero. Né altrimenti egli si governò circa il 
Danese, il quale ei non diede già per infelice, ma per 
felicissimo veramente, essendo morto, e generosa- 
mente morto por Dio. e noi tempo stosso il volle fare 
e il fece oggetto di compassione o di tenerezza per la 
temporale sventura e per questa morte fortemente in- 
contrata e sostenuta. Ma ei non si volle prevalore di 
tal facoltà né di tali opinioni e disposizioni del suo 
tempo, se non quanto a personaggi secondarli (come 
questo e Dudone (3150)) e in episodii; e l'eroe prin- 
cipale volle farlo felice, non solo eternamente ma tem- 
poralmente altresì, e la principale impresa volle che 
bene uscisse non puro secondo il ciclo, ma eziandio 
secondo la terra. Nel che non m'ardisco però di ri- 
prendere il suo giudizio, né so biasimarlo s' ei cre- 
dette che i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi 
i contrarli alla natura e che troppa forza le fanno) non 
dovessero gran fatto influire sulla poesia, né potessero 
molto giovare a produr con essami buono, bollo e splen- 
dido effetto. Siccome essi poco veramente influivano, 
anche al suo tempo, sopra le azioni o le quasi secon- 
darie opinioni degli uomini ; né valsero in alcun tempo 
a cangiare la natura umana, alla quale dee mirare in 
ogni tempo il poeta. In vorità due sorti di opinioni e 
di dogmi, l'ima dall'altra distinta, e che quasi nulla 
comunicavano insieme, tenevano all'età del Tasso e 
no' secoli a lei precodenti gì' intelletti degli uomini. 



■212 



rKNSifinr (3150-3151-3152) 



Li' una cristiana, l'altra naturale; quella quasi del 
tutto inefficace (3151) c inattiva, la cui forza non si 
.stendeva fuori dell'intelletto e no' termini di questo 
si restringeva la sua esistenza: l'altra efficace, attiva 
che dall'intelletto stendevasi a influirò e muovere la 
volontà, e governare le operazioni e la vita. Perocché 
gli uomini sono sempre mossi dalle opinioni, né altro 
che le opinioni può cagionare le loro azioni volon- 
tarie, no v'ha opera umana volontaria che dalla opi- 
nione, ossia giudizio dell'intelletto, non derivi. Ma 
l'intelletto umano è capace di contenere al tempo 
stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrari], 
e di contenerli conoscendone la scambievole, inconci- 
liabile contrarietà, come accadeva ai detti tempi. 
Ben diversi dalla primissima età del cristianesimo, 
quando un solo genero di opinioni regnava nogli 
animi, cioè quelle della religione, ed ora efficace, o 
stendevasi alla volontà ed al reggimento delle azioni 
interiori ed esteriori, e della vita. Ma questo durò as- 
sai meno di quel che può credere (3152) chi non co- 
nosco la storia ecclesiastica, o chi non ci ha riflettuto, 
o chi in essa si lascia imporre dai nomi, e dal lin- 
guaggio tenuto in narrarla. Durò pochissimo, o, so 
non altro, divenno in breve assai raro. Del resto, egli 
è duopo distinguere in ciascuna età, nazione, indivi- 
duo le opinioni efficaci dalle inefficaci che noli' intel- 
letto purainento si restringono. Quello talor possono 
servire alla poesia, talora non possono (come lo pre- 
senti, e vedi la pag. 2944-6), talor più, talora meno; 
queste sempre pochissimo o nulla. Parlo delle opi- 
nioni che in so hanno relazione alla pratica e al go- 
verno della vita, non dell'altro, che son fuori del mio 
discorso. Per esempio, quelle opinioni, illusioni ce. 
antiche o moderno elio, derivando dalla immaginazione 
o dall' esperienza ec, persuasero e occuparono, o per- 
suadono ecii l'intelletto, e nondimeno, non avendo nulla 
che far colla pratica della vita por lor natura, non 



(3152-3)53-3154) pBNtsmu 



213 



influiscono sulla volontà, o sono inefficaci, o ciucate 
possono però, ed anche grandemente, servire alla, 
poesia. 

' Da questa digressione, non aliena, ered' io, dal 
proposito, tornimelo in via, ci rosta a considerare corno 
sia strano o quasi assurdo clie Omero in tempi feroci 
abbia tanto l'atto ginocaro la compassione noi suo 
poema, n' abbia tatto un intorcsse principale e finale, 
abbia seguito e ottenuto il suo intento in modo che, 
anche oggidì, mancato l'altro interesso all'Iliade, non 
si può forse tuttavia legger cosa ohe (3153) tanto in- 
teressi, non avesse riguardo di far cadere ed esage- 
rare la compassione quasi unicamente sopra i nemici 
de' greci suoi compatriotti, a' quali scriveva, i quali 
non istimavano gran l'atto la generosità verso il ne- 
mico, anzi apprezzavano la qualità opposta; e clic i 
poeti moderni abbiano affatto od espressamente esclusa 
la compassione dal grado d'interesse finale, abbiano 
per lo più evitato di farne cader più elio tanta sopra 
i nemici della parte e dell'Eroe da lor presi a lodare 
(la compassione per Clorinda nella Gerusalemme non 
dava scrupolo al Tasso, perch'ei la fa morir conver- 
tita, o nel medesimo canto la scuopre por cristiana 
di genitori e di nazione; si eh' olla cade in ultimo, 
fecondo l' intenzione finale del poeta, sopra una cri- 
stiana) oc. ec. In verità egli sarebbe stato credibile, 
e certo egli avrebbo dovuto aceadore, tutto l'op- 
posto. 

1°, Quella raffinatezza dell'amor proprio e della 
facoltà di sentire, la quale è necessaria perché la 
compassione trovi luogo nell'animo umano, (3154) la 
produco, e seco il piacere eh' altri ne gusta non fu 
in alcun modo propria de' tempi d'Omero, e propris- 
sima di quelli di Virgilio e do' moderni, perocch'ella 
nasco dalla civiltà. Parlo qui della compassione inef- 
ficace, qual è quella che si prova leggendo un poema, 
o che spesso e facilmente ha luogo negli animi civili, 



%ll pensieri (3 154-3 155-3 i 56) 

massime destaridovela lo charme, e l' artifizio della poe- 
sia e degli abili prosatori. La compassione efficace 
la qua! ci muovo a sovvenire alle miserie altrui, Na- 
sce anch' essa dalla detta raffinatezza, e quindi dalla 
civiltà, ma richiedo una raffinatezza maggiore di quella 
elle la civiltà soglia ordinariamente produrre e pro- 
duca nel comuno degli uomini, e una facoltà naturalo 
di sentire maggior dell'ordinaria e quindi olla è e fu 
in ogni tompo ben rara. 

2°, Poco ai tempi d'Omero valeva ed operava 
quello elio negli uomini si chiama cuore, moltissimo 
l' immaginazione. Oggi, por lo contrario (e cosi a' tempi 
di Virgilio), l'imui agi nazione (3155) è generalmente so- 
pita, agghiacciata, intorpidita, estinta; difficilissimo è 
ravvivarla anche al gran poeta, il quale altresì difficil- 
mente può esser oggi gagliardamente ispirato dalla 
immaginativa, od esser grande per quella parto che 
propriamente spetta all'immaginazione e per ciò die 
da lei deriva, come furono Omoro e Danto. Se l'animo 
degli uomini cólti ò ancor capace d' alcuna impres- 
sione, d'alcun sentimento vivo, sublime e pootico, 
questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti 
oggidì appresso gli altri poeti di vorso o di prosa il 
cuore è sottentrato universalmente e quasi del tutto 
all'immaginazione, quello gl' ispira, quello ossi mirano 
a commuovere, e su quello realmente operano sempre 
ch'oi sono atti a riuscire nel loro intento. I pooti 
d' iminaginaziono oggidì manifestano sempre h) stonto 
e lo sforzo o la ricorca, e siccome non fu la immagina- 
zione che li mosse a poetare, ma essi che si espres- 
sero dal corvello e dall' ingegno, (3156 ) o si crearono 
e fabbricarono una immaginazione artefatta, cosi di 
rado o non mai riescono a risuscitare e riaccenderò 
la vera iminaginaziono, già morta, nell'animo de' let- 
tori o non fanno alcun buon effetto. Cosi dico di 
quelle parti cho ne' moderni scrittori sono di pura 
immaginazione. Lord Byron è un'ecoozione di regola, 



(3156-3 1 57 ì PENS ieiìi - J - L '' 

forso unica, per se stesso. Vedi p, 3477. Quanto al- 
l' effetto delle sue poesio sopra i lettori, dubito eh' elle 
debbano essere eccettuate dal numero delle altre poe- 
sie d'immaginazione. Vedi p. 3821. L'animo nostro è 
troppo diverso dal suo. Male ei ci può restituire quolla 
immaginativa eh' egli ha conservata, ina ohe noi ab- 
biamo per sempre perduta. *) Ora tra i pooti epici 
egli è pure strano che Omero antichissimo abbia tanto 
mirato al cuore, e che Virgilio o i moderni non si 
sieno proposti per oggetto finalo ed essenziale de' loro 
poemi che di muovere l'immaginazione. Perocché il 
soggetto essenziale e unico principale de' loro poemi 
ai è un Eroe felice e un'impresa felicemente (3157) ter- 
minata. Ora la felicità non vale che por la maraviglia, 
la quale spetta all'immaginazione e nulla al cuore. 
Tanto possono fare errare i più grandi spiriti lo re- 
golo e l'arte, e tanto nascondere la natura dell'uomo, 
de' tempi, delle cose, traviarli dal vero, travisar loro 
e occultare il proprio scopo e la propria essenza di 
quelle cose medesime eh' essi intraprendono ed alle 
quali esse regole appartengono. 

3°, Lo idee, i principii di generosità, di equità, 
di umanità, di beneficenza verso il nemico si ne' giu- 
dizi si ne' sentimenti si nelle azioni, nacquero, si può 
dir, dopo Omero, mitigati cho furono i ferocissimi e 
implacabili ed eterni odii nazionali, proprii degli 
uomini ancor vicini a natura. s ) Essi principii sono 

*) Ancbe Omero e Dante hanno assiri che Curo pei ridestai la nostra 
Umnaglnazioue. C'oiituttocio, quantunque la finitasi» ili Lord Byron sia 
coito naturalmente straordinario, nondimeno e pur vero che anoh'ella è in 
grandissima parte artefatto, o vogliamo dire spremuta a l'orna, oudo si 
vedo chiaramente che il pili delle poesie di Lord Byron vengono dalla vo- 
lontà o da un abito contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispirazione 
u da fantasia BpontoiuHainouto mossa. 

*) Veramente di tutti i poemi epici il piti antico, cioè 1' Iliade, è, 
quanto all' insiome , allo scopo totale e non parziale, al tutto o non alle 
parti, all' inton/ioii (Inalo o primaria, non episodica, addietliva o secon- 
daria e qua»! estrinseca, accidentale oc, è, dico, il pi* sentimentale, anzi il 
solo seutimuutalc; cosa voramonto strana a dirsi, c cho par contraddit- 



21(i PKMSIKRI (3 1 57-3 158-31 59 j 

massimamente comuni ed efficaci ne' tempi moderni 
ne'quali non si possono avere odii nazionali, non aven- 
dovi quasi nazioni, o niuno individuo considera, come 
anticamente, per nomici personali quelli della nazione, 
i quali altresì ed effettivamente noi sono né per sen- 
timento neper fatto, ma nemici (3158) solamente del 
suo re ec. Anzi i detti principii oggi degenerano in 
totale indifferonza verso il nemico della nazione, la 
qual porta a non distinguerlo quasi affatto dall' amico. 
Or non è egli maraviglioso che il poema d'Omero sia 
cento voltolili impacialo e generoso verso i nemici 
della sua propria nazione, che non sono i poemi mo- 
derni verso la parte contraria a quella ch'in essi si 
oelobra? e tanto ohe volendo nella Ilìade investigare 
i proprii sentimenti del poeta, e non mirando se non 
se all'espressione di questi, appena si potrebbe oggi 
distinguere se Omero fosso greco o troiano, o d'una 
terza nazione, e, in quest'ultimo caso, per qual di quelle 
due fosso più propenso nel suo animo. 

*"; Oggi, «o^e ho già detto, c proporzionatamonte 
eziandio a' tempi di Virgilio, si può dir che più non 
esista interasse pubblico, se non in quei pochi che le 
cose pubbliche amministrano, e che il pubblico rap- 
presentano, (3159) anzi, si può dir, lo compongono e 
costituiscono. PJd è ben cosa ragionevole e consentanea 
che l'interasse pubblico negli altri più non esista (e chi 
governa non leggo poemi). Ora dunque i poemi, lì cui 
soggetto non ò che qualche folicità e gloria nazionale, 
poco possono oggidì interessare, o certo assai meno 
che a' tempi d' Omero. Ma la sventura, e massime 
degl'immeritevoli, è sempre dell'interesse privato di 
ciascheduno uomo. Ninnò è che non si stimi infelice 
o conseguentemente noi sia, e ninno è parimente che 

tovlans'toiriuini, ed è intatti mostruosa «1 opposta alla natura da'progressj 

ordalia atoriu dolio spìrito umano e dogli noi ì, « dello differenza dc'tom- 

in, «Un Datata rispettiva doli' antico ni inodorilo, o viceversa ec. È anche 
il poema pui erlstUuw, l'oidio iiiloressa pai nemico, poi misero oc. ec." 



(3159-3160-3161) VEKSHHW 



217 



non si reputi immeritevole della infelicità oh' ei so- 
stiene. Queste, disposizioni benché comuni a tutti i 
tempi, sono massimamente sensibili oggidì, poiché 
per lo circostanze politiche la vita non ha più come 
vivamente occuparsi e distrarsi, e d'altronde il lume 
della filosofia dissipa ben tosto, o soffoca nel nascere, 
o impedisco dol tutto qualunque illusione di felicità. 
Quindi, eziandio di pendon temoli te dalla compassione, 
egli era (3160) tanto più conveniente oggidì che 
a' tempi d' Omero il far molto giuocare ne' poemi epici 
le sventure degli uomini, quanto che oggi il senti- 
mento della infelicità nello nazioni civili è più vivo 
che fosse mai nel genere umano, ed è il sentimento 
e il pensiero pei 1 cosi dir dominante, da cui ninno 
oramai trova più come distrarsi. E la infelicità indivi- 
dualo dogli uomini è, per cosi dire, il carattere o il 
segno di questo secolo. Tutto al contrario di quel 
d'Omero, il quale forse godette di quella maggior fe- 
licità o minore infelicità che possa godersi dall'uomo 
nello stato sociale, e che sempre risulta dalla grande 
attività della vita e dalle grandi e forti illusioni, 
coso proprissime di quel tempo , massime nella Ore- 
eia. Or dunque oggidì le sventure cantate da' poeti 
non possono non interessar grandemente, c più che in 
ogni altro tempo, o tutti; essendo il sentimento della 
propria sventura l' universale e più continuo senti- 
mento degli uomini d'oggidì, ed amando naturalmente 
gli uomini di parlare o (3161) udir parlare delle cose 
proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come 
propria sua cosa, e dilettandosi gli uomini singolar- 
mente di quelli che loro più si assomigliano, né po- 
tendosi trovar somiglianza più universale che quella 
della infelicità, e compiacendosi ciascheduno di ve- 
dere in altrui o di leggor ne' poeti i suoi propri sen- 
timenti, e contando per somma ventura ogni volta 
di' egli incontra o nella vita o ne' libri qualche nota- 
bile conformità o di casi o di circostanze o di opi- 



218 



l'KXSI URI 



(3161-3162 



nioui o di carattere o di pensieri o d' inclinazioni o 
di modi o di vita e abitudini, collo sne proprie; e 
consolandosi ciascheduno dello sue sventure coll'esem- 
pio vivamente rappresentato, o più col vederle quasi 
Celebrate e piante in altrui (e ciò in soggetto o cir- 
costante e persone e avvenimenti illustri, come son 
quelli cantati ne' poemi epici), innalzando il concotto 
di se stosso, qiiasi il canto del poeta avesse per sog- 
getto la di lui stossa infelicità, ed intonerondosi nella 
lettura quasi sui propri mali. Che in verità qualora, 
leggendo i poeti (versificatori o prosatori) o le storie 
noi ci sentiamo (3162) commuovere da quelle vero o 
finte calamità, e ci lasciamo andare allo lagrime, cre- 
diamo forso di piangere le miserie altrui, ma più spesso 
e più veramente, o più intonsamente, piangiamo in 
quel medesimo punto lo nostre proprio, o mescoliamo 
il pensiero di queste al pensiero di quelle, e questa 
mescolanza (eh' è vera e propria e debita arte, e de- 
v'essere scopo del poeta l'occasionarla) è principal 
cagiono di quelle nostre lagrime. E ci accade allora 
(e cosi ne' teatri ec.) come ad Achille piangento sul 
capo di Priamo il suo vecchio padre o la breve vita 
a so destinata ec. ec, sublimissimo e bellissimo o na- 
turalissimo quadro di Omero. Le sventure, quando 
sieno nazionali o in altra maniera più particolarmente 
appartononti ai lettori, interesseranno sempro più, 
per la maggior somiglianza e prossimità, che non è 
quella dello sventurato in genorale, e perché sarà tanto 
più facilo e pronto il passaggio dell'animo del lot- 
terò da quelle calamità alle sue proprio oc. Onde 
sarà sempre importantissimo che il soggetto del poema 
sia nazionale, e questi soggetti saranno sempre pre- 
feribili agli altri, o la nazionalità conferirà moltissimo 
all' interesse. 

Venendo oramai a ristringere il mio discorso, 
dico che l'Iliade, benché, oltro al non esser noi greci, 
sieno corsi, da eh' ella fu scritta o cantata, ben von- 



9i9 

(3 1 62-3 1 63-3164^ __ i>knsMU ^_ 

Kl^ecoli con tutte quelle innumerabili e sostan- 
te inT^sità che si lungo tratto di tóm^a 
Kto allo spirito od alle circostanze estenor H 3l63) 
T i ior <1 U'uomo e dolio nasoni, c'interessa sen- 
t un Paragono più che 1' Eneide scritta in tempi 
ti o «osiriori, e più conformi ai nostri, od aiutata 
non o, come Lo detto, dall' interesse mede- 

«raale interesse cosi inteso, manca quasi afl tat o 
poemi che dalla IHa* derivarono; peroodh s nonb 
sogna confonder con esso il piacere ^ « "gj^ 

irSat^ir^ .e .principale 
scopo e scioglimento del poema; ne ancl i aUico 
lari (o episodici o non episodici) interessi _< a o U 
sparsi, non finali né continui (3.64) o 
sconti da questa o da quella parte o non d^ n ^ 

e dal tutto del poema; né anche f™ h ™f°^\2- 
teresse che può nascere dal semplice intreccio iute 
rosse di pura curiosità, che non aspira né corre ad 
altro che l voler essere informato dello ^f^T. 
nodo, conosciuto il quale esso interesse finisce > mte 
resse pochissimo interessante, e suporficialissm o ne 
V animo; interesse che può esser sommo in poc nu 
drammi ed opere di ninno ^—^^2^1 
ne sommo ne principale ne anone j 
sensibile, se non se in poemi, drammi ed opere di 
niun intimo e profondo interesse e di P°^™T> ™ 
lor poetico, perché il destare, pascere e 
curvità non ò effetto che abbia punto che fare coUa 
natura della poesia, né le può esser altro che acciUcn 



220 



tale e secondario. Or dunque i poemi derivati dalla 
Jliade leggonsi con molto piacere, destano di tratto in 
tratto alcuno interesse più 0 men vivo e durabile, 
(3165) ma essi mancano quasi affatto di quell'inte- 
resse totale, finale e perpetuo, di cui V Iliade, dopo 
ventisette secoli, appo uomini non greci, sommamente 
abbonda, e dal quale si dee senza fallo misurare il 
pregio e il grado di bontà del complesso e dell'intero 
di un poema epico, siccome d' ogni altro pooma. 

Per lo die, tornando finalmente là donde inco- 
minciai, conchiudo ohe tutto all'opposto di ciò che si 
dice e si crede, il poema dell'Iliade sarà forse dai po- 
steriori poomi vinto ne' dettagli o nello qualità se- 
condarie, come dir lo stile, o alcuna parte di esso, 
qualche immagino, qualche parte o qualità dell'in- 
venzione; sarà forse eziandio vinto in alcuna, parte 
della condotta, come nel celare più studiosamente 
I esito, laddove Omero par che studiosamente lo sveli 
innanzi tempo (e forse anche questo si potrebbe difen- 
dere, e in ogni modo non nuoce che all'interesse di 
curiosità, del quale Omero, o come superficialissimo 
o non poetico ch'egli è, (3166) o come narrando forse 
cose universalmente allor cognite alla nazione, non si 
feco alcun carico); ma cho nell'insieme, nel totale del 
disegno, nell'idea, nello scopo e nell'effettivo risul- 
tate del tutto, tutti i poemi epici cedono di gran lunga 
■M' ilùtde. 1 E soggiungo che in ciò gli cedono appunto 
per aver seguito una unità cho Omero non si propose, 
e a causa di quello stosso incremento e stabilimonto 
•dell'arte che li conformò e regolò, e che in essi si 
vanta, e che Omero non conobbe, e che peccano appunto 
per quella maggior perfezione di disogno che loro si' 
attribuisco sopra l'Iliade, e cho in questa pretesa per- 
icolone consisto appunto il maggioro ed ossenzial pec- 
oatodeljoro disegno, peccato che ninno ci riconosce, 

') Veggasi In p. 3289-91. 



(3168-3167-3168) pens ieri ^ 

nou potando però lasoiaro di sentirne gli effetti, ma 
rapportandoli a non vere cagioni , e malo esigendo 
che quei poemi producano effetti non compatibili real- 
mente con quel disegno che in essi lodano, e senza 
cui gli avrebbero biasimati; e finalmente ohe Omero 
(3167) non conoscendo l'arte (che da lui nacquo) e 
seguendo solamente la natura o so stesso, cavò dalla 
sua propria immaginazione ed ingegno un'idea, un 
concotto, un disegno di poema epico assai pili vero, 
più conforme alla natura dell'uomo e della poesia, 
più perfetto che gli altri, avendo il suo esempio e in 
esso guardando, o ridotta che fu ad arte la facoltà 
ond' egli aveva prodotto que' modelli, e determinata, 
distinta o stretta che fu da regole la poesia, non sep- 
pero di gran lunga fare (5-11 agosto 1823). 

* Alla p. 3109, margino. E l'egoista lusinga il suo 
amor proprio anche col persuadersi di non essere egoi- 
sta e di amare altri che se, e col credere di dame a se 
stesso una prova. Quindi per gli animi raffinati ò 
anche più dolce la compassione verso gì' inimici che 
verso gli amici o gl'indifferenti, prima perché tanto 
più facilmente e vivamente 1' nomo si persuade che 
quel sentimento eh' egli allora prova sia sgomino e 
puro il' ogni mescolanza e influenza d'egoismo; poi 
perché tanto maggior concetto (3168) egli allora forma 
della grandezza e generosità e nobiltà del suo proprio 
animo, e tanto più s'aggrandisco a' suoi propri occhi, 
(considerando la compassione ch'ei concedo agli stessi 
nemici), del quale effetto della compassiono ho dotto 
p. 3119. Onde veramente somma fu l'arte, squisitis- 
sima l'intenzione o lo scopo e supremamente bello l'of- 
fotto della poesia d' Omero, il quale rivolge principal- 
mente sui nomici la compassione di che egli anima 
tutto il suo poema, ed alla quale, come all'uno do' prin- 
cipali offett.i di questo, egli mira. 

La compassione è quasi nn'annogazionc che l'uomo 



222 



pensieri (3168-3169-3170) 



fa di se stesso, quasi un sacrifizio che l'uomo fa del 
suo proprio egoismo. Or questo è fatto per egoismo, 
niente meno che il sacrifizio della roba, de' piaceri, 
della vita medesima, che l'uomo fa talvolta, non da 
altro mosso che dell' amor proprio, cioè dal piacere 
eh' ei trova in far quella tale azione. Cosi l'egoismo 
giunge fino a sacrificar se stesso a se stesso: tanto è 
l'amor ch'ei si porta, ch'ei si fa volontaria vittima di 
se medesimo: tanto egli è pieghevole e vario, e capace 
di tanti (3169) e si strani e si diversi travestimenti, 
che per suo proprio amore ei cessa anche di esser 
egoismo, e quando voi lo vedote sacrificar se mede- 
simo, egli è allora il pili raffinato egoismo che si trovi, 
il più efficace e potente e imperioso, il piti intimo e il 
più grande, porocch' egli è maggiore negli animi in 
proporzione ch'ei sono più vivi, delicati e sensibili 
(come altrove più volte ho detto), quale è necessario 
oho sia in sommo grado chi può veramente di sua 
volontà e scelta sacrificar se medesimo (12 agosto, di 
di Santa Chiara, 1823). 

* Alla p. 2776. Vedi la grammatica del Weller, 
edit. Lips., 175G, p. 50, vers. 7-8, p. 58, fine (12 agosto, 
di di Santa Chiara, 1823). 

* Et Davus non recte scribitur. Davos scribendnm: 
quod nulla litora vocalis geminata unam syllaham 
facit (geminata, cioè por osempio due a, o, come in 
questo caso, due w). Sed quia ambiguitas vitanda est 
nominativi singularis et accusativi pluralis, necessario 
prò hac rogala digamma (3170) utimur. et scribimus 
DaFus, serFus, eorFtts. Donatus, ad Tcì-v. Andr., I, 2, 2 
^12 agosto, di di Santa Chiara, 182, ! 5). 

* Cosi ridondante, o con un certo cotal significato 
che non si può altrimenti esprimere se non col gesto, 
si crede essor proprietà della nostra lingua, e idióf- 



O03 

(3170-3171) PRK8IMU ■ _ • . 

fc„o del nostro dir familiare (benché molto usato 
Si eleganti .scrittori). Vedi pure Cicerone ad 
AH XIV 1, o il Porcellini in Abeo, «fl 16°. Ma quest ubo 
f iatino e greco. Vedi il Porcellini in Sic ai §fe , sesto, 
Lho, decimo; Catullo, XIV, 16 o Platone nel 
ed. Àstii, Lips., 1819, segg t. HI p. 440, v «. 
Gli spaglinoli hanno qualcosa di simile (12 agosto, 
di di Santa Chiara, 1823). 

* Tramare, approfittare, profiter , aprovechar ec. 
' quasi profetare, da profectus di prò fido. Pntextar spa- 

pmolo, prétexter francese da (12 ago- 

sto, di di Santa Chiara, 1823). 

* Diciamo volgarmente uomo indigesto per difficili, 
bisbetico. Or tale appunto si è il proprio significato del 
ereco Sùgv.oÌ.o;, per metafora morosus, opposto di i ««ofco«. 
I vedi la Crusca in discolo (12 agosto, di di Santa 
Chiara, 1823). (3171) 

* Ninna cosa maggiormente dimostra la grandma 
e la potenza dell'umano intelletto, ne l'altezza e noUlt. 
dell'uomo, che il poter l'uomo conoscere e Meramente 
comprendere e fortemente sentire a sua p.ceo le/,a. 
Quando egli, considerando la pluralità de mond! » 
sente essere infinitesima parte di mi globo eh è mi- 
nima parte d'imo degli infiniti sistemi che compon- 
gono il mondo, e in questa considera .ione stupis ce 
della sua piccolezza, e profondamente se pendola e 
intentamente riguardandola, si confonde quasi col 
nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della im 
mensità dello cose, e si trova come ^amte nella 
vastità incomprensibile dell'esistenza; allora con que 
sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova 
possibile della sua nobiltà, della foraa e della mimo, sa 
capacità della sua mente, la quale, rinchiusa m si pic- 
colo e menomo essere, ò potuta pervenire a conoscere 



22 4 . pensieri (3 17 1-3 172-3 173) 

e intender cose tanto superiori alla natura di lui, ì 
può abbracciare o contener (3172) col pensiero questi 
immensità medesima della esistenza e delle cose. Corto 
niuno altro essere ponsante su questa terra giunge mai 
pure a concepire o immaginare di esser cosa piccola 
o in so o rispetto all'altre cose, eziandio eh' ei sia 
quanto al corpo, una bilionesima parte dell'uomo, per 
nulla dire dell'animo. E veramente quanto gli esseri 
più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si 
è l'uomo, tanto sono più capaci della conoscenza e del 
sentimento dolla propria piccolezza. Onde avviene che 
questa conoscenza o questo sentimento anche tra gli 
uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordi- 
nari, continui e pieni, quanto l'individuo è di maggioro 
e più alto e più capace intelletto ed ingegno (12 agosto, 
di di Santa Chiara, 1823). 

:i: Al proposito di habeo c di ìym usati per essere 
spettano i verbali habitus e oy^u. Sfa etc. Per esom- 
pio, habitus cor2)oris, cioè modus habendi o se kabendi, 
modus quo corpus h(d>ei (3173) o se kabet, vale pro- 
priamente modo di essere del corpo ec. (12 agosto di 
Santa Chiara, 1823). 

* Alla p. 3132, margine- principio. Da quello clic 
si legge nell' epistola di Antonio Eparco a Filippo Me- 
lantone (eh' era pur non cattolico, ma famoso eretico 
o poco si doveva curare de' luoghi santi), la qua! epi- 
stola è riportata dal Fabricio noi citato luogo; e dalle 
vario scritturo ed anche storie di quei tempi, si rac- 
coglie che in verità il gabinetto ottomano mirasse 
a soggettarsi l'Europa, non tanto per diffondere la 
religione di Maometto (sebbene anche questo, s'io 
non m' inganno, è precotto o consiglio dell' Alcorano, 
che si procuri di diffonderla coli' armi il più elio si 
possa, promettendo premi noli' altra vita a chi sostenga 
di morirò combattendo per questa causa oc.) quanto 
per propagare il proprio imperio, e non tanto odiando 



( 3 ! 73-3 174-3 175) ^^fbnsi ebi ^ 

éTi altri principio regni europei coinè cristiani, quanto 
Lpetendoli come materia di conquista. O certo pare 
che "li altri gabinetti europei riguardassero tutti la 
potenza ottomana con maggior sospetto eh' ei non si 
Gnaulavano l'un l'altro, temendone, non per la reh- 
Ld cristiana, ma per se (3174) stessi. E senza fallo 
potenza ottomana si manteneva ancora a quel tempo 
nell'opinione di conquistatrice appresso gli altri, e il 
gabinetto ottomano conservava ancora le intenzioni e 
i progetti di conquistatori. Né poteva essere spenta 
la memoria e il terrore di quando, non più che un se- 
colo addietro, quella nazione tartara, dopo lo tante 
improse e conquiste e progressi fatti per si lungo tempo 
nell'Asia, presa Costantinopoli, antichissima sede del 
"reco impero, e distrutto l'ultimo avanzo della po- 
tenza, romana, aveva finalmente piantato nell'Europa 
risorgente alla civiltà uu trono barbaro, una lingua 
e un popolo asiatico (cosa fino allora, per quanto si 
Estende la ricordanza delle storie, non più veduta), ol- 
tre una religione diversa dalla cristiana (cosa pur 
non veduta in Europa da' tempi pagani m poi, eccetto 
i mori di Spagna, i quali si debbono eccettuare an- 
che sotto i rispetti detti di sopra); ed aveva imposto 
il giogo della schiavitù orientale alla più colta na- 
zione elio fosse in quei tempi, come apparvo dai tanti 
esuli, secondo quel tempo, dottissimi, che, fuggendo la 
turca tirannide, si erano sparsi per le altro parti 
d'Europa, portando i greci codici e la greca letteratura, 
e rendendo comune e proprio di quel secolo, più che 
d' ogni altro, lo studio ed anche l'uso della greca lin- 
gua nelle scuole e fra' letterati d'Italia, di Trancia e 
di Germania, od aiutando universalmente il progresso 
delle rinate lettere. Spettacelo veramente terribile, la 
cui impressione non poteva nel seguente secolo essore 
spenta, né si poteva ancora (3175) aver cessato di 
temere e di odiare generalmente il Turco, si nelle 
corti e si nel popolo, non solo come conquistatore, ma 



lite. 



Luci' Aitili, — Primieri, V. 



15 



22(1 



PENSIERI 



(3175-3176} 



di pili come conquistatore barbaro o crudele, minac- 
ciante le nazioni civili (quasi corno i goti e gli altri 
popoli settentrionali no' bassi secoli), anello astraendo 
affatto dalla religione. Quindi il voto de' politici e 
degli scrittori di quel secolo per la lega universale 
contro i turchi prende un aspetto anche più grave, 
e non è solamente da riguardarsi com' effetto di anti- 
che opinioni e rimembranze roligiose, e di fanatismo 
e d'immaginazione, ma come dirittamente spettante 
alla politica, e derivante dalla considerazione delle 
reali circostanze d'Europa in quel secolo. E tanto più 
importante n'apparisco il soggetto, e più degno, sag- 
gio e nobile il pensiero, la scelta e l' intenzione del 
Tasso, che nel suo poema fece servire la roligionc e 
le opinioni e lo spirito popolare del suo tempo, e le 
altro cose che si prestano alla poesia (perocché lo 
speculazioni politiche non possono esser materia da 
ciò) a promuovere quello scopo eh' era allora de' più 
importanti per la conservazione della civiltà, della 
liberti, dolio stato, del ben essere di tutta Europa, 
cioè la concordia do' principi europei per essere in grado 
e di respingerò c di distruggere il (3176) barbaro che 
minacciava 0 era creduto minacciare di schiavitù tutto 
lo nazioni civili, il comune nemico che macchinava o 
era creduto macchinare la conquista di tutta Europa 
dopo quella di gran parte dell'Asia, e insidiare per- 
petuamente ai regni europei, come anticamente i per- 
siani alle greche repubbliche. Né certo minor gravità 
od importanza dovranno sotto tale aspetto essere ri- 
putati avere il poema del Tasso, la canzone del Pe- 
trarca e l'altro poesie o proso italiano o forestiero 
appartenenti a tal materia, di quella che avessero lo 
orazioni d'Isocrate contro il Persiano, o di Demosteno 
contro il Macedone: anzi, por ciò cho spetta alla ma- 
teria, tanto maggiore di queste, quanto questo tocca- 
vano l'interesse della Grecia sola, piccola parto di 
Europa, e quelle miravano alla salvezza dell'Europa 



: 3 17B^3 1 77-3 178; raENSIBltl 

intera o di tutte le sue nazioni e lingue, (15 agosto. 
Assunzione di 51 arici Vergine Santissima, ]823). S« 
la niniicizia degli europei verso i maomettani, e di 
questi verso quelli, si restringeva alle sole opinioni e 
discorsi, ma consisteva anche ne' fatti, 1 ) come appa- 
risce dallo impreco de" ( 'avalicri Ospitalieri di SauGio- 
vamii di Gerusalemme (3177) clic in quel medesimo 
secolo, dopo duecento dodici anni di possedimento 
(1310) perdettero Rodi (1522) ed ebbero prima Vi- 
terbo dal Papa, e poi Malta (1530) da Carlo V, e con 
prodigioso valore la difesero (1566) quattro mesi con 
morto di 15 mila soldati barbari e ottomila marinai; 
dalle impreso di Carlo V con tra i maomettani d'Europa 
e d'Affrica; da quelle do' veneziani nel detto secolo; 
dalla famosa vittoria di Lepanto riportata dallo fiotto 
spagnuola, veneziana e del Papa sopra i turchi dieci 
anni avanti (1571), che fosse pubblicata la Gerusa- 
lemmi: (1581), o certo in tempo clic il Tasso la stava 
componendo o meditando, poiché fin dieci anni avanti 
(1561) egli n'aveva già scritto o abbozzato sei canti 
(vedi Tiraboschi, t. VII, parte 3, p. 118) (16 agosto 
1823). Vedi p. 4236, e l'Orazione del Giacomini in 
lodo del Tasso nelle Prose fiorentine, la qua! finisce con 
un' esortazione alla guerra contro i turchi. 

* Alla p. 2834. Questa tal grazia definita di sopra 
è la grazia più ijraziosa e più fina, anzi quella cho 
propriamente si chiama grazia, e che suol esser con- 
siderata dagli artisti, dagl'intendenti, dagli specula- 
tori teorici o pratici del bello, quella che sogliamo 
intendere col nomo di grazia, od a cui principalmente 
appartiene l' indetinibilità e inconcepibilità (3178) che 
alla grazia s'attribuisce. La grazia nascente da di- 
fetto (come quella di Roxolane appo il Marmontel), 



227 



') Vedi Turbo, G d'usui emme, XVII, 03-4, dove parla <1< Alfonso II 
<H MwWim n conlioiitiUo eoi luoglii tifilo Speroni il" me notati p. 3132, 
B^rgino -principio. Vedi p. 4017. 



228 



PENSIERI 



(3178-3179) 



è più grossolana e poco degna dell'artista o di qua- 
lunque imitatore del bello. Essa ò bensì più comune- 
mente sensibile (perocché quell' altra grazia non tutti, 
anzi pochi, la sentono), e sempre eh' ella ò sentita, 
fa maggior effetto dell' altra, eziandio nogl' inten- 
denti del bello, negli spiriti di buon gusto, e negli 
animi delicati e sensibili. E ciò perché il contra- 
sto in essa è più notabile e spiccato, o maggiore la 
straordinarietà. Ma porciò appunto questo effetto è 
piiji grossolano, e per cosi dire più materiale e cor- 
poreo, laddove quell'altro è pivi spirituale e più deli- 
cato, e quindi più dirittamente e giustamente proprio 
della grazia, l' idea della quale inchinde quella della 
delicatezza. La grazia derivante da difetto punge e 
solletica come un sapore acre e piccante, o aspro, o 
acido, o acerbo, che per se stesso è dispiacevole, e 
puro in un certo grado piace, e quindi molti spiriti 
che non hanno mai potuto sentire quell' altra grazia, 
o che sono di già blascs sul bello, a causa del lungo 
uso ed assuefaziono, sono (3179) mossi o allottati da 
quella grazia, por dir cosi, difettosi, come i palati o 
ruvidi e duri per natura, o stanchi de' cibi piacevoli 
per la lunga assuefazione, sono dilettati e solleticati 
da quei sapori. Laddove l' altra suddetta grazia è 
quasi un soave e delicatissimo odore di gelsomino o 
di rosa, che nulla ha di acuto né di mordente, o 
quasi uno spiro di vento che vi reca una fragranza 
improvvisa, la qiiale sparisce appena avete avuto il 
tempo di sentirla, e vi lascia con desiderio, ma vano, 
di tornarla a sentirò, e lungamente, e saziarveue 
(16 agosto, di di San Hocco, 1823). 

* È cosa indubitata che la civiltà ha introdotto 
nel genere umano millo spezie di morbi che prima di 
lei non si conoscevano, né senza lei sarebbero state ; 
e ninna, che si sappia, n'ha sbandito, o seppur qual- 
cuna, cosi poche, e poco acerbe o poco micidiali, che 



(3 179-3 180-3 181) pensieri 229 

sarebbe stato incomparabilmente meglio restar con 
oneste che cambiarle con la moltitudine, fierezza e 
mortalità di quello (vediamo infatti quanto poche e 
blande sieno le malattie spontanee degli altri ani- 
mali, massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e 
similmente de'selvaggi, o massime de' pài (3180) na- 
turali, corno i oalifornii; e che anche quelle dogli 
agricoltori sono molto più poche o raro e men feroci 
che quello do'cittadini). È parimente indubitato che 
la civiltà rende l'uomo inetto a mille fatiche e sof- 
ferenze ohe egli avrebbe e potuto e dovuto tollerare 
in natura, o suscettibilissimo d'esser danneggiato da 
quelle fatiche e patimenti che, o por natura generale 
o por circostanze particolari, egli è obbligato a so- 
stenere, e che nello stato naturale avrebbe sostenuto 
senza vermi detrimento, e, almeno in parte, senza in- 
comodo. È indubitato che la civiltà debilita il corpo 
umano, a cui por natura (siccome a ogni altra cosa 
proporzionatamente) si conviene la forza, e il quale, 
privo di forza, o con minor forza della sua natura, 
non può essere che imperfettissimo; e eh' ella rende 
propria dell' uomo civile la delicatezza rispettiva di 
corpo, qualità che in natura non è propria né del- 
l'uomo né\H veruno altro genere di cose, né dov'es- 
serlo (vedi la p. 3084, segg.). È indubitato cho le ge- 
nerazioni umane peggiorano in quanto al corpo di 
mano in mano, ogni generazione più, si per se stossa, 
si perch'olla cosi peggiorata non può non produrre 
una generazione poggi or di se ec. ec. Da tutte queste 
e da cento altre cose, da me altrove in diversi luoghi 
considerato, si fa più cho certissimo o si tocca con 
mano, cho i progressi della civiltà portano seco e pro- 
ducono inevitabilmente il successivo deterioramento 
(3181) del suo fisico, deterioramento sempre crescente 
in proporziono d'essa civiltà. Nei progressi della ci- 
viltà, e non in altro, consiste quello cho j nostri filo- 
sofi, e generalmente tutti, chiamano oggidì (e molti 



230 



['KNNII'IIÌI 



(3 18 1-3 182) 



anche ìd antico} il perfezionamento dell'uomo e dello 
spirito umano. È dunque dimostrato e inori di con- 
troversia che il perfezionamento dell'uomo include 
non accidentalmente ma di necessità inevitabile, il 
corrispondente e sempre proporzionato deterioramento 
c, per cosi dire, imperfezionamento di ima piccola 
parto di esso uomo, cioè del sno corpo: di modo che 
quanto 1' uomo s'avanza verso la perfeziono, tanto il 
suo fisico cresce nella imperfezione; e quando l'uomo 
aarà pienamente perfetto, il corpo umano, general- 
mente parlando, si troverà nel peggioro stato eh' e' mai 
siasi trovato, e in che gli sia possibile di trovarsi 
generalmente. Se con ciò si possa giustamente 
chiamare perfezionamento quello che oggi s' intende 
sotto questo nome, cioè so l'incremento della civiltà 
sia perfezionamonto dell' uomo, e la perfezione della 
civiltà perfezióne dell' uomo,* so nna tal perfezione ci 
possa essere stata destinata dalla natura; (3182) so la 
nostra natura la richiegga ed a lei tenda; se veruna 
natura richiegga o possa richiedere una perfezione di 
questa sorta; se perciò che l'uomo è civilizzabile, o 
in quanto egli è civilizzabile ei sia, come dicono, e 
come stabiliscono e dichiarano per fuori d' ogni con- 
troversia, perfettibile; si lascia giudicare a chiunque 
non è ancor tanto perfezionato, tanto vicino all'ul- 
tima perfeziono dell'uomo, ch'egli abbia perduto affatto 
1' uso del raziocinio, e non serbi neppur tanta parte 
dol discorso naturale quanta è propria ancora degli 
altri viventi (17 agosto, domenica, 1823). 

* Trcmhler, temhlar sono verbi diminutivi, cioè fatti 
da un iremulare, il quale è da tremere, come misculare 
(onde mesler , cioè meler, mezdar, mescolare, meschiare, 
mischiare) da mìscere, secondo che ho notato altrovo. Ma 
ossi verbi trembler e temblar hanno il sonso del positivo 
tremare che noi francese e nello spagnolo non si trova, 
Noi abbiamo e tremare e tremolare, quollo positivo, e 



3182-3183-3184) 



l'KNKIKLtl 



231 



questo, cosi di t'orina come di significazione, diminu- 
tivo. Diciamo anche tr emulare, o piuttosto lo dico- 
vano i nostri antichi, più alla latina, benché questo 
werbo nel buon latino non si trovi. Trovasi però nel 
13183) basso latino: vedi il glossario cang. Il Fran- 
jnosini scrive, tr emular ; lo chiama vocabolo barbaro, 
e lo spiega tremare. Gli spagnoli dicono pure tremolar 
(Somk, IIìhì,. de Mexico, 1. I, capit. 7, principio), ma 
attivamente por agitare, dimenare, sventolare (corno tre- 
molar una» vanderas nel citato luogo del Solis), alla qual 
significazione par che appartenga l'ultimo esempio del 
glossario cang. in Tramutare (lì agosto 18215, domenica). 

* Gli uomini che noi mondo sono stimati e sono 
tenuti da quanto gli altri o da pili degli altri, lo sono 
per l'ordinario in quanto coll'uso della società essi si 
sono allontanati dalla natura lor propria e dagli abiti 
naturali dell'uomo generalmente, ed hanno in se oscu- 
rata e coperta la natura, o sanno, sempre che vogliono, 
coprirla. E quanto più è oscurata in loro e coperta e 
mutata si la natura individuale o lor propria, vaio a dire 
il loro naturai carattere, e gli abiti a che essa parti - 
colar natura gli avrebbe condotti, si la natura gene- 
ralo degli uomini, tanto la stima generale verso di 
essi è maggioro. Voglio dir che la più parte dolle qua- 
li iù che negli uomini ottengono stima appo il mondo, 
o sono totalmente acquisite e por nulla naturali, anzi 
sposso contrarie alla natura lor propria o generale; 
ovvoro sono talmente svisato (3184) dal naturale che 
per naturali non si ravvisano, e più ohe sono svisate, 
più, per l'ordinario, si stimano. Perocché egli è ben 
raro che una qualità semplicemente naturale, e tale 
qual olla è da natura, sia stimata punto nella società, 
e quando pur sialo, questa stima non è né durevole, 
né salda, ne generalo, né molta, ed è sempre inferiore 
a quella dolio qualità acquisito o snaturate, le quali 
ai apprezzano per regola, stabilmente o seriamente, 



232 



pensieri (3I8+-3I85-318G) 



ma le naturali quasi per gioco, per rarità, per variare, 
per passa tempo, momentaneamente. Quello si stimano 
come gravi, sorie e da negozio; queste come lievi, di 
poca importanza ed utilità, da semplice trattenimenti) 
e da ozio: o la società presto se ne annoia. 

Questo genere di persone, eh' è l'unico generali 
mento stimato nella società, tiene il mezzo fra duo 
generi, non istimato né l'uno né l'altro, ma l'uno 
non istimabile, l'altro stimabilissimo e molto più sti- 
mabile veramente di quello che il mondo stima. Del 
primo genere sono quelle persone, in cui la natura 
non La avuto forza bastante per cangiarsi; cioè quelle 
che non furono capaci dell'arte, onde, vivendo nella 
società, non hanno da lei saputo apprendere, né su di 
lei modellarsi e per (3185) poca abilità naturalo hanno 
conservata la loro natura, il loro naturai carattere, 
gli abiti a cui la natura o propria o generale gl' in- 
clinò; sicché vivono o conversano nella società, tali 
appresso a poco quali dapprima vi entrarono. Ciò 
sono lo persone povere di spirito, di tardo e duro in- 
gegno, di corta e scarsa capacità. Eziandio spettano 
a quosto genere coloro in cui la natura si conserva 
per mancanza di coltura che la scacci o la tramuti. 
Ciò sono le persone idiote e rozze, di poco o ninno 
uso sociale, poco o nulla assuefatte alla civile con- 
versazione, le quali recano nella società, sempre che 
vi si accostano, il loro primitivo carattere, e le natu- 
rali abitudini, non mai cangiate da quello cho furono 
da principio, non moscolato o accresciute con alcuna 
qualità sociale acquisita; e ciò non per durezza d'in- 
gegno, né per naturale insufficienza e incapacità di ap- 
prendere, ma per mancanza d'insegnamento, di esercizio, 
di coltura dell'ingegno e delle maniero. Questo genere 
di pèrsone, sia della prima specie sia dolla seconda, non 
è punto stimata, né ricercata, (3186) né gradita nella 
società, perch' egli conserva la natura, al contrario di 
quello persone che ho detto essere apprezzato noi mondo. 



(il 88-3 187) 

fcl secondo genere l ) sono coloro in cui la natura 
^ordinariamente forte, e più potente die nel co- 
mune dogli nomini, ha superato o respanto 1' arte * 
T le C lasciato luogo da situarsi, non per «tet- 
te a e cortezza d'essa natura, ma perche ^ £ 
bbno amplissima ed estesissima, tutto il lnogo essa 
Sosimi irremovibilmente occupo. Ciò sono le per- 
le di carattere origin ale, straordinari amente _ vigo- 
no, costante, fermo, i quali rigettano le abitudm 
contrario alla loro gagliarda natura e al dette carat- 
tere, di qualunque genere ei sia; e non soffione di 
piegarsi c adattarsi agli altrui costoni, dittine le 
altrui inclinazioni, di cangiare o di modificai e , o di 
.ascondere e mascherare o finalmente di smentii se 
stessi; non animo) Urno né nnnh, ne usanze no gusta, 
né occupazioni, né istituti di vita, ne parole ne latti 
se non conformi esattamente alla loro primitiva na- 
tura ed indolo, e da essa richiesti, cagionati, mossi, 
suggeriti. Questi sono (3187) gli nomini ^mtópm 
golari o originali; non mai stimati (certo oggidì o 
nello nazioni più civili e socievoli, non mai), pei lo 
più disprezzati, ovvero odiati e fuggiti, sempre densi. 
In questi tali tetto è forza, c per la forzasi conseua 
in essi immutabile la natura. Altri pur v' ha del me- 
desimo genere, ne' quali avvengaché la natura sia pa- 
rimente fortissima e potentissima, contuttocio n me- 
scola in essi e nella natura loro ima sorta di debolezza, 
e non poca. Ciò sono quello persone di vastissimo, 
finissimo e altissimo ingegno, al quale per la troppa 
capacità od ampiezza sfuggono e in essa ampiezza si 

>) PnA voi,,™ la p. 3431-4 oirea la timidità oha è 
sto Becomln «cnoro e <*„> allatto Impedisce «tmmto nella . W lrtà, 

««ir..»,» q,«,l„ n qno 3 ti„„. si poto*» «■« computo di un imi id o 
prima ,li con„ s «u-{,> Ella * sovente comnno ancl.e "I pr.-no «r-nou n» 
Mio con ,,,,,111 ,11 ,:ni hanno wflTMfoW , 1^<">™ ™ T"* » ^ 
porche ,„,,,« tu» hanno di «o stasi. B1U» 6 »n-^<> «ta 

Sai sonoro intermedio, o questo A il «oh. .'ho ne «la «nol.ro «wnto « al 
tulin atenro, 



2;M pensie ri (3187-3188-3189) 

Pedono le cose piccole; per la troppa finezza riescono* 
dj&oihssime e impossibili ad apprendersi, a seguirsi 
a possedersi le coso grosse: per In troppa alte?! 
escono di vista le cose basse. Non già ch'essi sempre 
lo sdegnino, anzi bene sposso con somma o intentisi 
sima cura le cercano e studiano, ina con gran mera- 
viglia loro o dei pochi elio ben li conoscono, non viene 
lor fatto di conseguire in quelle cose appena una cen- 
tesima parte di quell'abilità e di quel successo ohi? 
gl'ingegni mediocri, e talora (3188) piccoli, con molto 
minor cura c studio, facilmente o perfettamente con- ' 
seguono, possiedono o adoprano. Il medesimo eccesso ] 
della cura e della contonzion d'animo che quei rari 
ingegni pongono a conseguire od esercitare le qualità 
sociali, cura e contenzione abituale e familiare in ossi, 
e che mai e' non sanno intermettere o rilasciare- il 
medesimo eccesso, dico, togliendo loro la possibilità 
della disinvoltura, del riposo d'animo, della facilità 
deli-abbandono, della sicurezza, della confidenza in ; 
se stessi (che a chi suol riflettore sulle cose, e cono- 
scerne e investigamo e smentirne e pesarne lo diffi- 
coltà, e a chi sempre mira alla perfeziono, e d'al- 
tronde sa bene per molte esperienze o solite quanto 
olla sia difficile, a questi tali, dico, la confidenza in 
se stessi è impossibile); togliendo dunque loro la pos- 
sibilità di queste qualità che sono d'indispensabilis- ' 
sima e primissima necessità per godere nella società e 
per piacerle, e generalmente per ottenere collo parole 
o coi fatti qualunque successo nel mondo; il dotto ec- 
cesso, torno a ripetere, impedisce a quei rari ingegni 
di mai, se non imperfettissimamente, conseguire, di 
mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adope- 
rare od esercitare le (3189) qualità elio nel mondo si 
apprezzano ed amano e premiano. Questi tali, benché :. 
grandissimi ingegni, benché fecondi di bellissimi, uti- 
lissimi, altissimi, nuovissimi pensieri, benché scrittori 
sommi in questo o quel genere, o pur letterati o filo- 



(3189-3190) PENSIERI 235 



m 



sofi o privati politici di altissimo valore, benché 
d'animo nobilissimi, sensibilissimi, rarissimi, benché 
messo capacissimi di dilettar sommamente o di som- 
mamente giovare a qualsivoglia società e a qualunque 
genero di persone coi loro scritti o colle produzioni 
Lalunque dol loro ingegno, lungamente e matnra- 
nente. o almeno riposatamente, pensate; anzi, benché 
e dette misere qualità siano pur troppo proprissimo 
do' singolari ingegni, e tanto più quanto alcun d'essi 
più e' innalza sopra il comune, e a proporzione di ciò 
più invincibili e costanti; e benché quasi tutti gl'in- 
gegni veramente singolari e sommi, massime quelli 
che risplendettero o risplendono negli studi delle 
scienze, delle lettere o delle arti, fossero e sieno più o 
meno partecipi di tali qualità caratteristiche, si può 
diro, degli straordinarii e sublimi talenti (vedi fra 
l'altre cose il Pseudo-Donato nella Vita dì Virgilio, 
(3190) cap. 6, fino, dov'è l'autorità di Melisso Gramma- 
tico, liberto di Mecenate, contemporaneo di Virgilio: 
Porcellini in Melmus, Fabricius, Blbliotheca Latina, 
% 494); contuttociò questi tali nella società, se non da 
quelli elio conoscono per altra parte il loro merito, e 
ohe conoscendolo sono capaci di apprezzare chi lo pos- 
siede, sono generalmente (e non irragionevolmente, pe- 
rocché niun diletto e molta noia o fatica reca la loro 
conversazione) disprezzati ed evitati, ancor maggior- 
mente che quelli dell'altra specie, e confusi dai più 
coi primi dol primo genero, ai quali infatti, nell'este- 
riore e in ciò che d'essi apparisce, quasi a capello si 
rassomigliano. In questo genere si può recar per esem- 
pio della prima spocio l' Alfieri, della seconda G. G. 
Rousseau. L ) Anche questo genere di persone, benché 



') L'abitafline Ai sempre peow» « ' ll *** P" r, » ro > rtl ' ^f . ,u *' 
taitn a |mkmi vomir -li Inori ; <« trattone™! on., a» «te*». *•««» ™«- 
001,0 o.™,' „„ «oro,,,, di poco agir», pn» conversar ..«Ite coro < e - , 
l»« 0 tratterò per attonite™ «fili «tmli : b]><„h1c.<o bitte .le ano lacci te no 
proprio Inter, ... on . tatto r sto coao sortono 1' molvi,!,,,, moapaet «1 



236 PEKSIT3HI (3 1 90-3 191-31 921 

Stimàbilissimo, non estimato, perocck' ei conserva la 
natura, o non è bastantemente mutato dal naturale! 

^ Sicché tra quello che non è stimabile e quello 
eh' è degno di somma stima, restano solamente sti- 
mati quelli che tengono il mezzo, c ciò gli nomini 
mediocri e mediocremente (3191) degni. 11 ritrovarsi 
per questa via e sotto questo rispetto, siccome per 
tutto l'altro vie o per ogni altro riguardo, trionfare 
nell'umana conversazione la mediocrità. 

Né solamente alla stima del mondo, ma a qua- 
lunque altro successo nella società, come al far for- 
tuna, all' avanzarsi nel favore o de' principi o de' pri- 
vati, e a coso tali si può applicare la triplice distin- 
zione e la successiva suddivisione degli uomini da 
me fatta fin qui, e troverannosi dovunque gli effetti 
corrispondere ai sopra osservati, secondo i generi e le 
spezie surriferite (18 r.gosto 1823). 

* All'amore che noi abbiamo della vita, e quindi 
delle sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci re- 
cano nogli scritti o nel discorso le parole chiamale 
espressivo, cioè quelle che producono in quanto a loro 
una idea vivace, o per la vivacità dell'aziono o del 
soggetto^ qualunque ch'elle significano (corno spaccare), 
o perché vivamente rappresentano all'immaginativa 
questa (3192) medesima azione o soggetto, qualunque 

portarli bene nejla società quanto m altro dio sia pur .li moli.,, meno ta- 
lenta ì perooolé a Ini mano» l'enenrissio dell' oppure, del conversare, del 
E* l,I «ef^«Ml»>8 <li coso frivolo, come bisogna bo.) e io dette ano qualità 
«1 abitudini positive escludono anche positivamente la capacità di con- 
trarre le abitudini e di acquistare le qualità sociali. (Inai la gravite a mi 
un tale Individuo fi necessariamente abituato, la serietà, il pigliar lo cobo 
par 1 importante, o so non Importano lasciarle, «scindo la possibilità di 
acquistar la leggere**», l'abito di dar peso naturalmente allo cose mi- 
ni ni e, d. Mheraare, d- Interessarsi eoi) verità per lo bagattelle, di trovar 
materia il. discorso dovo anaolUl«tnante non v0 n'ha co. ec, tntte cose ne- 
cessarissime In società : pigliar lo cose, le materie anche importanti o serio, 
«ai iBtonon benportante e non socio, o trattarlo non seriamente, saperli, 
.•lalmcme, scherzevolmente on. co. o come bagattèlle on. ee. e lo profonde 
a flor d'acqua, ee. ec. 



"87 

(3192-3193) PEK8Ute__ 

u Imouo perch' esse vivamente lo rapprese»" 
8iaS \ m 2 vare più vivamente rappresenta l'afono 
tin0 con «p. - 1 . vivii ch6 /e?irfet , per 

ripuhoaU e d ^to un - ^ ifìcar6 , e lungo 

r' farlo o p^ché di un'azione o di un sog- 
S^S;- destano però un. viva opre- 
gente idea (18 agosto 1823). 

10 l"^ 1 »d Ì«a di questi due e di Orazro 
che esp— te dltodo-o^ odanoci 
farlo. Perocché i nostri pedani ^ per ma- 

dotti e degli indotti tengono la lingua g «J l * 
dre della latina. Ma hanno a y»^^^ 
madre della latina, ma sorella, ne p» ne 
incese e la spagnola Siene sorelle ^ 
Ben ò vero che la greca letteratura e (3 «») ^ 
fu, non sorella, ma propna «d»»** 
filosofia latina. Altrettanto per deve accade o a 

attingere, pò dre dolla nos tra, peroc- 

cose. La quale nev ossei imi"! „;, iml lMi-e 
17 , iM-,l>iamo del proprio, stante la singolare 

che noi non 1 abbiamo aei } 1 , 

inerzia d'Italia nel secolo m ohe e a 
d'Europa seno stute e sono pur attive ohe « ^a 
eun' altra. E voler creare di nuovo e di P« J 
filosofia, e quella parte di letteratura che affatto ci 
manca eh' è la letteratura propriamen te moderna) 
oltre che dove sono gl'ingegni da questa 
ma quando anche vi fossero, volerla creare ,djpo eh eUa 
e creata, e ritrovare dopo trovata eh' eli da pi* che 
un .ecolo, e dopo cresciuta e matura, e dopo à Ausa 
e abbracciata e trattata continuamente da tutto 



y;l8 

■ MWUWj (3I93-3I94-3IB, 

mani bambina e s^TSelk^^eS ^ H 

crebbero gli stu di noi t„ì , , mtr °dusflero e 
«te oggi i„ Itdia nL '' b tr. altri Ì W i . 
rinnovSe é iffi, r T Nó P ° rò ossi vollero 

e gli altrui ( f I? 01 ' da 1" csti le misero, 

e ri eC i r Sbracciarono o coltivarono 

de' osCn Hn " 10 ° 1,ÌndoIe doIIa ^ionei 

-.-il il non ornarle ibi . e *■••>. 1 

»s zi t »* 



(3 1 9 5-3 1 96-3 1 9 7 i MuMSIERl JdJ 

ài geiik» o di lingua ce. elio l'italiana), e vostitc di 
modi, formo, frasi o parolo francesi (da tutta l'Eu- 
ropa universalmente accettate, e da buon tempo usato): 
dalla Francia, dico, lo verrà la filosofìa e la moderna 
letteratura, come altrove ho ragionato, e volendole 
ricevere, noi potrà altrimenti che ricevendo altresì 
assai pardo e frasi di là, ad osse intimamente e in- 
divisibilmente spettanti e fatte proprie; (3196) sic- 
come appunto convenne faro ai latini delle voci e 
frasi greche ricevendo la greca letteratura e filosofia; 
e il fecero sonza esitare. E noi colla stessa giustifi- 
cazione, od anche col vantaggio della stessa facilità 
il faremo, essondo la lingua francese .sorella dell' ita- 
liana, siccome della latina il fu la greca, e produ- 
loendo la filosofìa e la filosofica letteratura francese 
una letteratura inodorila ed una filosofìa italiana, sic- 
come già la greca nel Lazio. E tanto più saremo for- 
tunati degli altri stranieri che dal francese attinsero 
voci e modi per la filosofia e letteratura, quanto che 
S noi nel francese avremo una lingua sorella, e non, 
oom'essi, aliena e di diversissima origine (18 ago- 
sto 1823). 

*AUa p. 1011, inargine - fine. Aggiungete ancora 
che la lingua latina è della italiana madre cono- 
sciuta e corta e fuori d'ogni controversia. Non cosi 
accade all' altre lingue d' origine diversa. Si saprà 
per corto che la lingua tedesca è d'origine teuto- 
nica, la svedese d' origine slava, ina quale delle anti- 
che lingue teutoniche o schiavone sia madre della te- 
desca, e della svedese, non si potrà senza moltissimo 
■ controversie, né senza grandi (3197) dubitazioni e in- 
certezze, né più che largamente e mal distintamente, 
determinare ec. ec, *) (19 agosto 1823). 

') Noi saldiamo bone qnal sia e dio cosa aia qneatft lingua latina 

' Ire <lnir ihilmia, passini»» ileliuitiinioiite additarla 8 mostrarla tutta 

Mera. Ma dir clic la teutonica o la slava o simili A madre della tedesca 



l'ENSlUlil 



(3197-3198) 



* In molti luoghi di questi miei pensieri ho dimo- 
strato come l'uomo debba quasi tutto alle circostanze 
all' assuefazione, all'esercizio: quanta parte di ciò che 
si chiama talento naturale, e diversità o superiorità o 
inferiorità di talenti, non sia per verità altro che assue- 
fazione, esercizio ed opera di circostanze non naturali 
né necessarie ma accidentali, e diversità di aHsuefazioni 
e di circostanze, maggiore o minore assuefazione, e 
maggiore o minor favore o disfavore di circostanze 
c di accidenti secondarii: la diversità delle quali cose 
accresce a dismisura lo piccole differenze e le piccole 
superiorità o inferiorità di facoltadi elio si trovano 
naturalmente e primi tivamento tra questo e quello 
ingegno di questo o quello individuo o nazione, in 
questo o quel secolo. Io però non intendo con ciò di 
negare che non v'abbiano diversità naturali fra i 
vari talenti, le varie facoltà, i vari primitivi carat- 
teri degli uomini ; ma solamento afformo e dimostro 
che tali diversità assolutamente naturali, innate e 
primitive sono molto (3198) minori di quello che altri 
ordinariamente pensa. Del resto, che gl'intelletti, gli 
spiriti, insomma gli animi degli uomini differiscano 
naturalmente e primitivamente gli uni dagli altri, con 
minuto differenze bensì, ma pur vere ed offettivo e 
notabili differenze; e che vario sieno le loro naturali 
disposizioni, maggiori in altri, in altri minori, ed 
ordinate in quelli a certi oggetti, in questi a certi 
altri, ò cosa, come da tutti e sempre creduta, cosi 
vera e reale, e dimostrata da molte osservazioni, le 
quali, o alcune di esse verrò qui sotto segnando per 
capi, sommariamente però, ed in modo che sopra cia- 
scun capo potrà e dovrà molto più esten dorsi il di- 
scorso di quello che io sia per estenderlo. 



o della russa ae., r quasi mi .lini in «ri», benché sia rera, nò tinelli pos- 
sono dBflnitamente additaroi q nn i„ Indlvldonlmente sia questa lor Ungili 
madre, né, se no» confusamente e por laceri avanzi, mostrarcela, 



(3 [98-31 99-3200) pensieri 



2-11 



1°, Notabili sono le differenze che passano tra 
l'esteriore figura e conformazione degli uomini, para- 
gonando .secolo a socolo; nazione selvaggia o corrotta 
o civile 1' una coli' altra; nazioni civili tra loro; cosi 
nazioni selvaggie o barbarizzate; clima a clima; fa- 
miglia a famiglia; individuo a individuo. Differenze 
regolari o irregolari; ordinarie o straordinarie; natu- 
rali o accidentali, ma pur (3199) sompro fisiche; mo- 
struosità oc. .La differenza delle lingue dimostra una 
vera differenza negli organi corporali della favella 
tra' vari popoli parlanti; differenza cagionata o dal 
clima o da qualsivoglia altra cagiono naturalo, indi- 
pondento però certo dall'assuefazione nell'essenziale 
e generalo e costante che in essa differènza si trova. 
Negli altri vari organi ostoriori dell' uomo si trovano 
eziandio molto notabili differenze naturali tra uomo 
o uomo, clima e clima, naziono e naziono, individuo 
o individuo; differenze di disposizione, cioè disposi- 
zione a maggiore o minor numero di abilità, a tali 
o tali abilità piuttosto che ad altre, o disposizione 
maggioro o minoro; più o meno scioltezza e spedi- 
tezza o sveltezza fisica, secondo le qualità naturali 
de' muscoli e de' nervi che a quel tale organo ap- 
partengono. Se 1' esteriore adunquo dogli uomini 
differisco notabilmente per natura nell'uno nomo 
paragonato coli' altro, è bon ragionevole che si creda 
notabilmente differirò anche la naturale conforma- 
zione dell'interiore ne'divorsi uomini ; quando non si 
può volgere in dubbio la manifesta analogia e per- 
fetta corrispondenza (3200) che passa tra l'esterno e 
interno dell'uomo sotto qualunque rispetto. E nel 
particeli re dell' ingegno, la divorsa conformaziono 
estorioro del capo ne'divorsi individui e nazioni, la 
quale è visibile o non si può nogaro, dimostra chia- 
ramente una diversa conformazione di ciò che nel 
ca l»o si contiene, noi elio risiedo l'ingegno; onde 
Vltì 'w a esser provato che. tra gli nomini v'hadiffo- 
Lkopaudi. - Panieri, V. 10 



242 



PENSIERI 



(3200-3201) 



ronza naturale d'ingegno. E infatti è quasi dimostrato 
che la fronte spaziosa significa grande e capace in- 
gegno naturale, e per lo contrario Li fronte angusta; 
e cosi lo altre differenze esteriori del capo osservate 
dai craniologi; le osservazioni de' quali se non sono 
tutto vere, non lasciano di provaro generalmente una 
differenza naturale di spirito e d' indolo ne' diversi 
uomini ; nel giudizio delle quali differenze se coloro 
spesse volto s'ingannano, ciò nasce porch'ei non guar- 
dano che il fisico; ma l'assuefazione e le circostanze 
talora accrescono, talora cancellano, talora volgono 
affatto in contrario lo differenze dello disposizioni 
naturali; delle quali sole possono pronunziare i cra- 
niologi, non do' loro effetti, che da troppo altro 
cause (3201) sono infiniti, e spesso riescono contrarli 
ad esse disposizioni. E vedi a questo proposito il fatto 
di Zópiro e Socrate, ap. Cic, Tose, lib. IV, cap. 37. 
Qua pur si dove riferire la diversità delle fisonomie. 
dogli ocohi, che tanto esprimono e dimostrano del- 
l' animo e dell' ingegno, o 1' arte de' fisionomi. 

2°, Differenze generali, regolari e costanti si 
trovano fra i caratteri, i talenti, le disposizioni spiri- 
tuali dello diverso nazioni, massimo secondo i diversi 
climi. Quelle d'ingegno grossissimo, come i lapponi, 
questo d'acutissimo, come gli orientali; altro pigre, 
altre attivo; altre coraggioso, altre timide; in altre 
provalo l'immaginazione, in altre la ragione, e ciò in 
altre più, in altre mono; altre riescono e riuscirono 
sempre eccellenti in una parte, altro in altra oc. ec"., 
e tutto questo costantemente. Non si può negare che i 
principii o lo fondamenta di tali differenze non siono 
naturali, e quindi non si può negare che non v'abbia 
una vera primitiva differenza d'indole o d'ingegno 
tra nazione e nazione, clima e clima, come v'ha roale, 
visibile, naturalo o, generalmente parlando, costante 
differenza di esteriore, di fisonomia ec. tra nazioni e 
climi, selvaggi o civili ec. ec. Dunquo proporzionata- 



(320 1-3202-3203) pensieri 



243 



mente (3202) ò da dire che anche tra individuo e 
individuo di una stesati o di diverse nazioni esiste 
dalla nascita una reale differenza d'indole o di ta- 
lento, o vogliamo diro un principio e ima disposizione 
:4i differenza, che ad idem, redit. 

8°, Lasciando da parte il tanto che si potrebbe 
dire sull'influsso fisico, ossia sulla naturale aziono 
del corpo e de' sensi, e quindi degli oggetti esteriori, 
sull'animo indipendentemente dall'assuefazione, ne 
toccheremo solamente alcune coso che più fanno al 
proposito. Ho udito di uno abitualmente scempio o 
tardissimo d'ingegno, che, caduto di grande altezza, e 
percosso pericolosamente il capo, divenne, guarito ohe 
fn, d'ingegno prontissimo e furbissimo, o questi an- 
cora vivo. Ho udito d'altri molto ingegnosi, per si- 
mile accidente divenuti stupidi e sciocchi. Lasciando 
questo, egli è certissimo cho la malattia del corpo (o 
cosi la sanità) influisce grandissimamente sull'inge- 
gno e sull'indole. Tacendo dello minori influenzo, che 
tutto giorno si osservano, si può notare quello che 
narra il Oalnso nella lettera appiè della Vita di Al- 
fiori, circa i versi d'Esiodo, da Ini una (3203) sola 
volta letti, eli' oi recitava francamente nella sua ul- 
tima malattia. E mi fu raccontato da testimoni! di 
udito del maraviglioso spirito, dogli aleutissimi motti 
e risposte, di ima prontezza affatto straordinaria di 
mento e di lingua, di una prodigiosa facilità, fecon- 
diti'! e copia d'invenzioni che si fece osservare in un 
vecchio cardinale (Eiganti) (non molto usato a face- 
zìe, né di molto spirito, e di carattere ben diverso 
dalla energia e rapidità e mobilità) dopo poco essere 
stato còlto da una apoplessia (della quale infermità 
rimase impedito nolle membra, o mori parecchi mesi 
appi-osso), o stando in lotto. Esempio di Ermogene e 
do' «noi simili elio puoi vedere nella Dissertazione, del 
Cancoll lori sugli Smemorati oc. Corrispondenza che, 
geuerabiionto parlando, si osserva tra gl' ingegni e i 



244 raNSrjsm (3203-3204-3205) 

caratteri degli uomini por una parte, e le rispettive 
complessioni dall'altra. Pazzi e frenetici; febbricitanti, 
deliranti. La malattia, cambia talora, eoin' è detto, 
l'ingegno o il carattere, o per sempre o per momenti 
o per più o men tempo: ciò massimamente quando 
ella interessa in particolare il cerebro. Il quale, se può 
essere notabilissimamente diversificato dallo malattio 
e dalle varie circostanze e accidenti che accadono du- 
rante (3204) la vita a uno stesso uomo, non si può 
non credere e giudicare ohe la tanta e inesauribile di- 
versità dello circostanze e degli accidenti che concor- 
rono nolla generazione de' vari individui, non diver- 
sifichi, siccome le loro, complessioni, e questa o quella 
parto del corpo, cosi eziandio quella in che risiede 
l'ingegno e l'animo, cioè il cerebro, o quindi il ta- 
lento e l'indole nativa e primitiva de' vari individui, 
nazioni oc. 

4°, L'uomo, ancheindipendentemente affatto dalle 
assuefazioni, ossia in parità di studi, di esercizi, di 
scienza, di pratica ec, si trova, per cosi dir, vario 
d'indole e di talento da se medesimo ancora, non solo 
dentro la vita, ma dentro la stessa giornata eziandio. 
Oggi il mio ingegno sarà svegliatissimo, la mia in- 
dole piacevolissima, domani tutto l'opposto, senz' al- 
cuna cagiono moralo né apparento, ma certo non sonza 
cagioni fisiche, lo quali diversamente affettando l'ani- 
mo, lo tramutano effottivamonte d'ora in ora, di giorno 
in giorno, di stagione in istagione (fu chi disse ch'ei si 
trovava pili atto a comporro nel sommo caldo o nel 
sommo freddo cho nello medie temperature dell'anno; 
la (3205) mattina che la sera oc.) ec. ec. e lo ritor- 
nano nello stato di prima, ed ora lo rendono atto a 
una cosa, ora a un'altra, ora a più cose, ora a meno, 
ora più, ora meno atto ec. ec. Le diverso circostanze 
fisiche cho evidentemente influiscono, cambiano, re- 
cano, tolgono, accrescono, scemano, diversificano ec. ec. 
Iti passioni o inclinazioni in uno stesso individuo, in 



PENSIERI 



2<ir> 



Riversi individui, in vario nazioni o climi o tempi ec, 
Iidipondent.emento affatto e dalla volontà e dall'aBsae- 
fazione; non tante e, si vario che infinito sarebbe il 
volerlo onnmerarc e descriverò, coi loro (evidentis- 
simi o incontrastabili) effetti. 

5», Spessissimo l'indegno è svogliato da cause 
fisioho manifeste od apparenti, corno un snono dolco 
0 penetrante, gli odori, il tabacco, il vino oc., 1 ) o quel 
che dico dell'ingegno dicasi dello passioni, de' sen- 
timenti, dell' indolo ec; e quel cho dico dolio svogliare, 
dicasi dol sopire, dol muoverò, doli' affettare, modifi- 
care C ome ohe sia, dell'accrescere, dolio sminuire, del 
produrrò, dol distruggere o per sempre o por certo 
tempo oc. Tutti questi effetti noi casi qui considerati 
non -hanno a far coli' assuefazione, e dimostrano per 
conseguenza che lo sjririto doli' uomo (3206) può es- 
ser modificato e diversamente conformato da cause, 
circostanze o accidenti tisici diversi dalle assuefa- 
zioni. Cosi, per esempio, la luce è naturalmente ca- 
giono di allegria, siccome il suono e le tenebro di 
malinconia; quella eccita sovente l' immaginazione od 
ispira; questo la deprimono ec. Un luogo, un appar- 
tamento, un clima chiaro e sereno, o torbido o fosco, 
influiscono sulla immaginativa, sull'ingegno, siili' in- 
dolo dogli abitanti, sicno individui o popoli, indipen- 
dentemente dall'assuefazione. Cosi una stagione, una 
giornata, un' ora nuvolosa o serena ; il trovarsi per più 
o men tempo in un luogo qualunque oscuro o luminoso, 
senza però abitarvi, tutte queste circostanze fisiche, 
indipendenti dall' a ssuo fazione e dallo circostanze mo- 
rali, affettano, quali momentaneamente, quali durevol- 
mente, lo spirito dell' nomo, e variamento lo dispon- 
gono , o ne producono le assuefazioni e le differenze 
di queste ec. ec. ec. (19 agosto 1823). Vedi p. 3344. 

* Dimostrato che nelP idea dol bollo non conven- 

') Tetìi p. 33SE, fine. 



pensieri (32Q6-3207-3208Ì 

gono né gli uomini naturali fra loro, né gli spiriti 
incorrotti e «empiici corno quelli de' fanciulli, e quindi 
ch'essa idoa non si trova una in natura; e olio d' al- 
tronde gli uomini cólti, savi, esercitati, profondi; (3207) 
gli artisti medesimi e i pooti ec. disconvengono circa 
il bollo, ed anche in coso essenziali, più. o meno, so- 
condo la differenza delle nazioni, climi, opinioni,' as- 
suefazioni, costumi, generi di vita, secoli; disconven- 
gono, dico, eziandio bene sposso dove credono di 
convenire (perocché tra loro non s'intendono); discon- 
vengono tra loro . o dai fanciulli e dagli uomini o 
naturali o ignoranti; e che tali difforenzo circa l'idea 
del bello si trovano fra individuo e individuo in una 
stessa nazione, si trovano in un medesimo individuo 
m diverse otà e circostanze, si trovano, e costante- 
mente, fra nazione e naziono, clima e clima, socolo e 
sooolo, civili o non civili; si trovano fra barbarie 
barbari, dotti e dotti, ignoranti e ignoranti, selvaggi 
e selvaggi, cólti e cólti, più e men barbari, più 0 men 
civili, fanciulli e fanciulli, adulti e adulti, intendenti 
e intendenti, artisti ed artisti, speculatori e specula- 
tori, filosoli e filosofi; dimostrato, dico, tutto questo, 
come ho già fatto in molti luoghi, viene a esser pro- 
vato che il bello ideale, unico, eterno, immutabile, 
universale è una chimera, poiché né la natura l' inse- 
gna o lo mostra, né i filosofi 0 gli artisti l' hanno mai 
scoperto o lo scuoprono, a forza di osservazioni (3208) 
o di cognizioni, come si sono scoperte e si scuoprono 
le altre idee stabili e invariabili appartenenti allo 
scienze del vero oc. ec. (20 agosto 1823). 

* Ohe quello che nella musica è molodia, cioè l'ar- 
monia successiva do' tuoni, o vogliamo dire l'armonia 
nella successione de' tuoni, sia determinata, come qual- 
sivoglia altra armonia, ovver convenienza, dall' assue- 
fazione o da loggi arbitrarie; ossorvisi oho le melodie 
musicali non dilettano i non intendenti, so non quanto 



3208-3203-32 10) pbhbibiu 



217 



la successione o successiva collegazione do' tuoni in 
esso è tale clic il nostro orecchio vi sia assuefatto; 
cioè in quanto esse melodie o sono dol tutto popolari, 
sicché il popolo, udendone il principio, ne indovina il 
mezzo o il line o tutto l'andamento, o s'accostano al 
popolare, o hanno alcuna parte popolare o che al popo- 
lare si accosti. Né altro è nello melodie musicali il 
popolare, se non so una successione di tuoni alla quale 
gli orecchi del popolo, o degli uditori genoralmente, 
siano per qualche modo assuefatti. E non per altra 
cagione riosco univorsalmente grata la musica di Ros- 
sini, se non perché (3209) le suo melodie o sono to- 
talmente popolari e rubato, per cosi dire, allo bocche 
del popolo; o più di quelle degli altri compositori si 
accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo 
generalinento conosce ed alle quali osso è assuefatto, 
cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili 
ovver più simili che dagli altri compositori non s'usa, 
al popolare. E siccome le assuefazioni del popolo e 
dei non intendenti di musica, circa le varie succes- 
sioni de' tuoni non hanno regola determinata e sono 
diverse in diversi luoghi e tempi, quindi accade che 
tali melodie popolari o simili al popolare altrove piac- 
ciano più, altrovo meno, ad altri più, ad altri meno, 
secondo eh' elle agli uditori riescono o troppo note e 
usifato; o troppo poco; o quanto conviene, colla com- 
petente novità elio lasci però luogo all' assuefazione di 
far sentire in quollo successioni di tuoni la melodia, 
la qual dall'assuefazione degli orecchi è determinata. 
Onde una medesima melodia musicalo piacerà più ad 
uno che ad altro individuo, più in (32 1 0) una che in 
altra città, piacerà universalmente in Italia, o piacerà 
al popolo o non agi' intendenti, e trasportata in tran- 
cia o in Germania non piacerà punto ad alcuno, o 
piacerà agi' intendenti e non al popolo ; secondo che 
le assuefazioni di ciascheduno orecchio circa le suc- 
cessioni de' tuoni saranno pili o meno o nulla conformi 



I'Ensieri (3210-3211-3212) 

o affini agli clementi o membri ( v .é\r.) che comporranno 
essa metodi», ovvero a quello che si chiama il motivo 
E di qui, o non d'altronde, nasce la divorai ti. 
de gusti musicali no' diversi popoli. Dico ne' popoli, e 
non dico negl'intendenti, i quali avendo tutti un'arte 
uniforme, distinta in regole, universalmente abbrac- 
ciata e riconosciuta, co 1 suoi principii fissi e invaria- 
bili e universali, siccome quelli di qualsivoglia altra 
scienza che tale è in Italia quale in Polonia, in Por- 
togallo, in Isvezia; nel giudicare di una melodia mu- 
sicalo non mirano all'orecchio, ma alle regole o a' prin- 
cipii eh' essi hanno nella loro arte o scienza, cioè nel 
contrappunto; ed essendo esse regolo e principii dap- 
pertutto gli stossi e dappertutto ugualmente ricono- 
sciuti, i giudizi che i diversi intendenti pronunziano 
non possono grandemente (3211) disconvenire gli uni 
dagli altri, e tanto meno quanto essi più sono inten- 
denti. Ma non cosi do' popoli e de' non intendenti, i 
quali non hanno altra regola e canone che l'orecchio, e 
questo non ha altri principii che le sue proprie assuefa- 
zioni, o non già alcuni dettati o infusi universalmente 
dalla natura, come si crede. E però le nostre inelodie 
non paiono pur melodie a' turchi, a cinesi né ad altri 
barbari, o diversamonte da noi, civili. Che se questi 
pure alcuna volta se ne dilettano, il diletto non nasce 
m loro dalla melodia, cioè dal senso della successiva ar- 
monia de' tuoni, la qua lo essi non sentono né compren- 
dono, posto pur eh' ella frisse tra noi l' una delle più 
popolari; ma nasce da puri suoni per se, e dalla deli- 
catezza, facilità, rapidità, volubilità del loro succe- 
dersi, moscolarsi, alternarsi (sia nella voco o in istru- 
menti), dalla dolcozza delle voci o degl'istrumenti, 
dal sonoro, dal penetrante e da simili qualità de'me- 
desimi, dalla soavità eziandio do' rapporti rispettivi 
d'un tuono coll'altro in quanto alla facilità e alla de- 
licatezza del passaggio da questo a quello (laddove i 
passaggi nello (3212) musiche do' barbari sono aspris- 



(3212-3213) 'vw ajàm' _ ^ 9 

«imi perdio fatti da tuoni a tuoni troppo lontani o 
T conio a cordo troppo distanti), c insomma da cento 
Salita (por cosi diro estrinseche) della nostra mu- 
£ che nulla hanno a faro colla rispettiva scambie- 
volo' armonia o convenienza do' tuoni nella or suc- 
cessione, cioè colla melodia o col senso e gusto della 
Medesima, che né i turchi né gli altn barba* ude^ 
la nostra musica, non provano punto mai La ^ al 
cosa appunto, salva però la proporzione, accade ai non 
S to,d,iri di musical popolo fra noi, 
odono, come tutto di avviene da quelle 
nulla o troppo poco hanno del popolare. Niun diletto 
ne provano se non quello, per cosi dare estrinseco 
che disopra ho descritto, e che nasce dalle qualità 
della musica, diverse e «dipendenti dall'armonia 
de' tuoni nella successione. Di queste non popola i 
melodie, che sono la più gran parte della nostra mu- 
sica, parlerò poco sotto. E per conchiudere il discolo 
do' barbari e delle nazioni che hanno circa la musica 
ideo o gusti e sentimenti affatto diversi da nos n, 
dico che in ossi, siccome (3213) fra noi, le assuela- 
zioni determinano quali siono le successivo co lega- 
zioni de' tuoni che siono tenuto por melodie, e le as- 
suefazioni cagionano, siccome fra noi, il Beo» e il 
piacere d'esse melodie, quando olle sono udite. E que- 
sto, se in essi popoli non v'ha teoria musicale ac- 
cade a tutta la nazione. Se alcun d' essi popoli ha 
teoria musicale, come l'hanno i cinesi, diversa però 
dalla nostra, gl'intendenti fra loro hanno altra ca- 
giono che determina il loro giudizio e produco m loie 
il diletto circa lo melodie; e questa cagiono si e, come 
nei nostri intendenti, la conformità di quelle cotali 
successioni de' tuoni co' principi! e i canoni della loro 
teoria o arte o scienza musicale, i quali principi! e 
canoni essendo diversi da' nostri, diverso eziandio 
dev'essere il giudizio di quegl' intendenti circa lo va- 
rie, o nazionali o forestiere, melodie, da quello de no- 



250 

_ i'ems ibiu^ (32 1 3-32 14-32 Ifiì 

sferi, e diverso similmente ,1 piacere. E cosi è infatti 
nella Gina , dove o il popolo (che dappertutto do 

stesso modo) e gl'intendenti (il che non potrebbe avi 
venire ne le nazioni barbare che non hanno teoria 
musicale (3214) Sufficientemente distinta per pr S 
m o regole e ordinata e compiuta, come l'hanno 1 
cinesi), giudicarono espressamente più bella la loro 
musica che l'europea, la quale i nostri, favoriti in 
ciò espressamente da un loro imperatore, volevano 
mtrodurvi, insieme colle nostre teorie, li ciò furono 
so ben mi ricorda, i Gesuiti. ' 

Ho eletto in principio che la melodia nella mu- 
sica non è determinata se non dall'assuefazione o da 
leggi arbitrane. Delle melodie determinate dall'assmS 

su™' 6 P ° r - 10 '" 0110 mel0die ' P erohó tali 
successioni di tuoni convengono con quelle cho di 

orecchi sono assuefatti a udire, ho discorso fin qui. 
Le melodie determinate da leggi arbitrarie sono 
quelle che il popolo e i non intendenti non gustano 
«a non se nel modo specificato di sopra, senza* né o- 
noscere ne sentire ch'elle sieno melodie, cioè che quei 
non, oo^ succedendosi e intrecciandosi o alternandosi, 
a mcn mmo C100 conve ngano, tra loro; quelle che pel 
popolo e per li non intendenti non sono infatti melo- 
dio, ma solo per gì' intendenti quello che gì' intendenti 

.oh gustano in vn-tù del giudizio, qualisono infiniti altri 
diletti umani (vedi Montesquieu, Essai sur le goùt. De 
tesew «bzhté^. 892), massime nelle arti; quelle che non 
1*215) sono melodie se non perché ed in quanto oor- 
r . pendono alle regolo circa la successiva eombina- 
2!f A T h Conse ^ at6 ™ ™a scienza o arte, non 
dettata dalla natura ma dalla matematica, universale 
sono mC ^° ric0n08ci uta * Europa, come lo 

sono tutte lo altre arti e scienze in questa parte del 
mondo legata ausieme dal commercio o da una modo- 
«ima civiltà eh- ella stessa si è fabbricata e comuni- 



vr^- — 



(32 [ 5 -32 I G 32 1 7 ■ rEMsmui . 251 

Lta di nazismo a nazione, ma non riconosciuta fuori 
d'Europa né dallo nazioni non civili, né da quelle elio 
hanno un' altra civiltà da osse fabbricata o d'altronde 
venut i; final ù sopra tutte la nazion cinese, la quale 
0 d ha una scionza musicale e in essa non conviene 
plinto con noi. Ho dotto che la nostra scienza o arte 
musicalo fu dottata dalla matematica. Doveva dire 
costruita. Essa scienza non nacque dalla natura, né 
in essa ha il suo fondamento, come lo piò dell'altre; 
ma ebbe origine ed ha il suo fondamento in quello che 
alla natura somiglia o supplisce e quasi equivale, in 
quello eh' è giustamente chiamato seconda natura, ma 
che altrettanto a torto quanto (3216) facilmente e 
sposso ò confuso e scambiato, come nel caso nostro, 
colla natura medesima, voglio dire noli' assuef aziono. 
Lo antiche assuefazioni de' greci (per non rimontar 
più addietro, che nulla rileva al proposito) furono 
l'origine o il fondamento della scienza musicale 
da' greci determinata, fabbricata, e a noi no' libri e 
nell'uso tramandata, dalla qual greca scienza viene 
per commi consenso o confessione la nostra ouropoa, 
che non è se non se una continuaziono, accrescimento 
e perfeziono di quolla, siccome tanto altre e scienze ed 
arti (anzi quasi tutto le nostre) che la moderna Eu- 
ropa ricevè dall'antica Grecia o perfezionò, e a molto 
cangiò faccia a poco a poco del tutto. La greca mu- 
sica popolare, le ragioni della quale non altrove erano 
che nell'assuefazione (siccome quelle di qualsivoglia 
musica popolare), fu l'origine, il fondamento o per cosi 
dir l' anima, e l' ossatura dolla musica greca scientifica, 
e quindi altresì della nostra, elio di là vieno. Ma sic- 
come accado a tutte le arti ch'elio eoi crescere, col 
perfezionarsi, col maggiormente determinarsi, si di- 
lungano a poco a poco da ciò che fu loro origine, fon- 
damento, subbietto primitivo o ragione, o fosse la 
natura (3217) o 1' assuefazione o altro, e talvolta giun- 
gono Uno a perderlo affatto di vista, ed esser fonda- 



l'ENSiEiu (3217-3218) 



mento o ragiono a se stesso, il die ó intervenuto in 
buona parte alla poetica, intervenne ancora all'arte 
musica. ') Quindi è che spessissimo sia giudicato 
buono ed ottimo dàgl 1 intendonti, e perciò piaccia 
loro sommamente, e elio sia melodia per essi, quollo 
che dal popolo e da' non intendenti ò giudicato o me- 
diocre o cattivo, elio poco o uhm effetto produce in ossi, 
ohe poco o nulla gli diletta, che per essi non è assolu- 
tamelo molodia: sebbene ei lodano sovente ed am- 
mirano cotali composizioni di tuoni, o in vista dolio 
qualità indipendenti dall' armonizzare della loro com- 
binazione successiva, che di sopra ho descritto, o mossi 
dalla fama del compositore o dalla voce degl'inten- 
denti o dal favore o dal dilotto altro volte ricevuto 
nelle composizioni del medesimo o dalla coscienza 
della propria ignoranza o dalla maraviglia delle dif- 
ficoltà o stranezze che in tali composizioni ravvisano 
o dalla stossa novità, benché per essi nulla dilette- 
vole musicalmente, o in fine da cento altre cause 
estrinseche e accidentali, o diverse e indipendenti dal 
dilotto che nasce dal senso della molodia, cioè della 
convenienza scambievole de' tuoni nel succedersi (32 1 8) 
l'uno all'altro. E per lo contrario interviene spessis- 
simo che quelle successioni de' tuoni, lo quali per il 
popolo sono squisitissime, carissimo, bellissimo, spic- 
catissime e dilettosissimo melodie, non ardisco diro non 
piacciano agli orecchi degl'intendenti, ma con tutto ciò 
dispiacciano al loro giudizio.e ne sieno riprovate, tanto 
che por ossi talora non sieno neppur melodie quelle che 
per tutti gli orecchi e por li loro altresì' sono melodie 
l 

) MfcggJormente sconvenevole- por» ai è questo nella musica elio 
nella poesia. Perócohé la solente musicalo, in ordino alla musica, odi pili 
bosso e lieti pia lontano rango, cho non è la poetica in ordine alla potai». 
Il contrappunto è ni musico qnol ohe al poeta la grammatica. La musica 
non ha un'urto clic risponda a quel oh' è 1» poetica alla poesia, la retto- 
rie» air oratoria, Jlen potrebbe averla, ma niuno ancora ha pensato a ri- 
durre n prlnoipii o regole le cagioni degli effetti morali della musica o 
061 diletto che da lol deriva, o i mera! di produrli eo. 



(3 21 B-32 19-3220) ^jmmu__ 

■Lintisaime evidentissimo, notabilissime o giocondis- 
fe l c e , ,mò vedere in fatto nel giudizio degl'i*- 
Kn ito" ìl comporr, di Bobini, e gencralmen te 
Era il modo della moderna composizione, la qua e 
I tut i " sentita esser piena di melodia molte più 
| e e antiche e classiche e da chiunque sa e giudi- 
ca non resero in grammatica ed essere scorretUs- 
£x e irregolare. Tutto ciò non per altro accade se 
non perché gl'intendenti giudicano, e 
tono (cioè col fattizio, ma reale sensorio dell mtcl 
tto e della memoria), secondo i principii e le norme 
Illa loro scienza; e i non fendenti sentono e sen- 
tendo giudicano secondo le loro assuefazioni relatne 
al proposito. Le quali assuefazioni segue e si pio 
Ione (32.9) o loro si accosta il moderno modo d 
comporre, assai più che 1' antico, ignorando o t ascn 
rande più o manco i canoni dell'arte, di che gli antichi 
furono peritissimi e religiosissimi ^servaton. 
Con queste considerazioni s'intenderà 
I perché nelle melodie sia, come si dice, difficili* in >a 
e rarissima la novità, cioè solo difficilissimamente e 
di rado possa il musico trovare nuove melodie il 
che' mirabilmente conferma le mie osservazioni, le-, 
rocche veramente il disporre in nuove maniere , 
scambievole successione do' tuoni secondo le i egole 
dell'arte musicale, non è punto difficile, essendo in- 
finite le diversità di combinazioni successive sia Qi 
tuoni sia di corde (cioè generalmente di notè) a cu esso 
regole danno luogo. Ma limitatissimo e poche e non 
più assolutamente che tante, sono le assuefazioni 
de' nostri orecchi; ond'è che pochissime nono, quelle 
combinazioni successive di tuoni (dico pochissime ri- 
spetto all'immenso numero d'esse combinazioni asso- 
lutamente considerate) che possano parer melodie 
all' universale, o al più di una nazione o secolo, e 
produrre in osso il dilotto ohe nasce dal senso della 
melodia. Ed infatti nuove melodie, (3220) che tali 



L 



^ wwBimtt^ (3220-322 1 ) 

siono per gl'intendenti e ri 8 petto~dl^~ n ^ s ~~ 0 
m venta punto rare, né difficili a invento™ a ói 
esse N rompono la massima parte di qualsClt 
opera musicale, non solo antica e classica, ma SS 
te» Udini eziandio, benché lo moderne Ttalil 
ab biano, come ho detto, più melodia popolare oh 
antiche e straniere; cioè maggiormente seguano e 
assuefai de' nostri orecchi, ed un più gran nun e o 
delle Joro melodie contraffacciano o imitino, o in 3 
0 -1 -tivo somiglino le sueèes! 
Mon di tuoni e noto, a cui sono assuefatti generai 
mente gli uditori. E in verità S e non fosse la memoria, 
che anche involontariamente e inavvertitamente su- 
bentra a pigkar parte nella composizione, più diffi- 
do sarebbe forse al compositore l'abbattersi a trovar 
melodie non popolari già da altri trovato ohe non il 
trovarne (ielle nuove, conformi alle regolo musicali. 

berto è che la principale, anzi la vera arto de- 
gi inventori di musica, e il vero, proprio, musicalo e 
grand* ^effetto do le loro invenzioni, allora solo 8 
manifesta ed ha luogo quando lo loro melodie son « 
,in™ 1 + P ° P ° fralmente tutti gli uditori ne 
s ono colpiti e maravigliati come di (3221) melodia 
nuova, e nel tempo medesime, per essere in verità 
assuefatti a quelle tali successioni di tuoni, sentano 
al primo tratto eh' ella è melodia. Il qua! effetto, 
proprio, anzi solo proprio della vera musica, e solo 
grande, solo vivo, solo universale, non altrimenti si 
ottiene che coli 'adornare, abbellire, giudiziosamente e 
o al debito segno variare, nobilitare, per dir cosi, 
mutamente fra loro congiungere e disporre, presen- 
a, e sotto 1Jn nuovo aspetto le melodie assolutamente e 
termalmente popolari, e tolto dal volgo, e le vario 

™ 7 , m0 dÌ succossioni di °ote, che gli orecchi 
generalmente conoscono, e vi sono assuefatti. Non 
alternanti che il poeta, l'arto del quale non consisto 
già prinoip-alntente noli' inventar cose affatto ignote 



(3221-3222-3223) pensieri 2y5 

e strane e a tutti inaudito, o nello sceglier lo cose 
meno divulgate, anzi ciò facondo egli piuttosto pecca 
e perde e toglie all'effetto della poesia, di quel che 
gli aggiunga; ma l'arto sua è di scegliere tra lo coso 
noto lo più belle, nuovamente e armoniosamente, cioè 
fra loro eonvonieutonicnto, disporre (3222) lo coso 
divulgato e adattate alla capacità doi più, nuovamente 
vestirlo, adornarlo, abbellirle coli' armonia del verso, 
collo metafore, con ogni altro splendore dello stile, 
dar lume e nobiltà alle cose oscure od ignobili, no- 
vità allo comuni; cambiar aspetto, quasi per magico 
incanto, a elio che sia che gli venga alle mani; pigliare 
vorbigrazia i personaggi dalla natura, e farli natural- 
mente parlare, e nondimeno in modo che il lettore, ri- 
conoscendo in quel linguaggio il linguaggio ch'egli è 
solito di sentire dallo simili persone nello simili circo- 
stanze, lo trovi pur noi medesimo tempo nuovo e più 
bello, senz'alcuna comparazione, dell'ordinario per gli ' 
adornamenti poetici, e il nuovo stile, o insomma la 
nuova forma e il nuovo corpo di eh' egli è vestito. 
Talo è l'officio del poeta e tale ne più. né mono del 
musico. Ma siccome la poesia bone spesso, lasciata 
la natura, si rivolse per amore di novità e per isfog- 
gio di fantasia e di facoltà creatrice a sue proprio 
e stravaganti e inaudito invenzioni, e mirò più alle 
regolo e a' principii che l'erano stati assegnati, di 
quollo che al suo fondamento ed anima, eh' ò (3223) 
la natura; anzi lasciata affatto questa, elio aveva ad 
essere l' unico suo modello, non altro modello ri- 
conobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su 
d'osso modollo gittò mille assurde e mostruoso o mi- 
sere e grette opere; laonde abbandonato l'officio suo, 
ch'è il sopraddetto, sommamente stravolse e perde, o 
por una o per altra parte, di quell'effetto elio a loi pro- 
priamente ed essonzialmente si convenia di produrre 
0 di procuraro; cosi l'arto musica, nata por abbellirò, 
innovare decontomcnto e variaro o por tal modo mol- 



25 G FEHSOta (3223-3224-3225) 

fcìplicare; ordinare, regolare. Biinmetri zzare o proporl 
zionaro, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le 
melodie popolari e generalmente note e a tutti g]$ 
orecchi domestiche; com'ella ebbe assai regolo e prinl 
cipii, e d'altronde s'invaghì soverchiamente della noi 
vità e dell'ambiziosa creazione o invenzione, non 
mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in 
mano lo melodie popolari por su di esse esercitarsi e 
farne sua materia, corno doveva per proprio istituto; 
si rivolse alle sue regole, e su questo modello, sen- 
z altro, gittò le sue composizioni (3224) nuove vera- 
mente e strano; con elio ella venne a perdere quel-J 
l'effetto che a lei essonzialmente appartiene, ch'ella 
doveva proporsi per suo proprio fine, e eh' ella da 
principio otteneva, quando cioè lo cercava, o quando 
coi debiti o appropriati mozzi lo procurava. 

Perocché io non dubito che i mirabili effetti 
Òhe si leggono aver prodotto la musica e le melodie 
greche si ne' popoli, ossia in intori uditorii, si negli 
eserciti, siccome quelle di Tirteo, si ne' privati, come 
in Alessandro; effetti tanto superiori a quelli che 
P odierna musica non solo produca, ma sombri pure, 
assolutamente parlando, capace di mai poter produrre; 
effetti che necessitavano i magistrati, i govorni, i le- 
gislatori a pigliar provvidenze o fare regolamenti 
e quando ordini, quando divieti, intorno alla musica, 
come a cosa di Stato (vedi il Viaggio cTAwicarsi, 
cap. 27, trattenimento secondo) (e parlo qui degli ef- 
fetti della musica greca che si leggono nello storio e 
avvonuto fra' greci civili, non di que' che s' hanno 
nello favolo, accaduti a'tompi salvaticln), non (3225) 
dubito, dico, che questi effetti, e la superiorità della 
greca musica sulla moderna, che pur quanto a' prin- 
cipi! ed alle regolo, dalla greca deriva, non venga 
da questo, ch'essendo fra' greci l'arte musicalo, seb- 
bene adulta, pur tuttavia ancora scarsa, non offriva 
ancora abbastanza al compositore da coniare o invon- 



(3225-3226-3227) PKNHllilil _ 257 

tar di pianta nuovo melodie che niun'altra ragione aves- 
sero di essor tali se non le regole sole dell'arte; né da 
poter git.ta.nie sopru questo regole unicamente, o riopra 
lo formo e melodie musicali da altri inventata di pianta, 
delle anali non poteva ancora avervi cosi gran copia, 
corno ve n'ha tra' inodorili. Ma quel eli' è prò, l'arte, 
Bebben cominciò anche tra' greci a corrompersi e de- 
clinare da' suoi principi i o da' suoi proprii obbietti 
o fini e instituti, anzi molto avanzò nella corruzione 
(vedi Viaggio # Allocarsi, Le.), non giunso tuttavia di 
gran lunga ad allontanarsi tanto come tra noi, e cosi 
decisamente e costantemente, dalla sua prima ori- 
gino, dal primo fondamento e ragione delle sue re- 
golo, dalla prima matoria dolle suo composizioni, cioè 
le popolari melodie; né a dimenticare, (3226) come 
oggi, impudentemente e totalmente il suo primo e 
proprio fino, cioè di dilettare e muovere l'universale 
degli uditori od il popolo; nó, molto meno, giunse a 
rinunziar quasi interamente e formalmente a questo 
fino e scambiarlo apertamente in quello di dilettare 
o maravigliare o costringere a lodare e applaudirò 
una sola e sempre scarsissima classo di persone, cioè 
quella degl'intendenti: il quale per verità è il fine clic 
realmente si propone la musica tedesca, inutilo a tutti 
fuori che agl'intendenti, e non già superficiali, ma 
ben profondi. Non fu cosi la musica groca. E in quosto 
ravvicinamento della modorna musica al popolare, rav- 
vicinamento cosi biasimato dagl'intendenti, e che sarà 
forse cattivo per il modo, ma in quanto ravvicina- 
mento al popolare è non solo buono, ma necessario, e 
primo debito della moderna musica; in quosto ravvi- 
cinamento, dico, vediamo quanto l'effetto della musica 
abbia guadagnato e in estensione, cioè nella univer- 
salità, o in vivezza, cioè nel maggior diletto, ed anche 
talor maggior commovimento dogli animi. (3227) Che 
so in ninna parte, a meno in quest'ultima, gli effetti 
della modorna musica sono per anche paragonabili a 
Lkuimuuji. — i'ensieii, V, 17 



~ __^»R^ _ (3227-3228) 



quelli che si leggono della greca, è da considerarsi che 
luomo oggidì è disposto in modo da no, lasciarsi \ a j 
6mente r° V6re a — a F"*»; -aTo 



gamento a questa generale disposizione, neanche ì« 

S e E a a ZÌ Ut r ate P ° POlarÌ d '°^ di ™ tal^ 
di tal natura elio possano facilmente ricevere dal 

composi ore una forma da produrre in veruno animo un 
Pia che tanto effetto; e che in ultimo i compositoi- non 
colgono né quelle melodie popolari o part/di es ehi 
loglio ■ adatterebbero alla forza e profondità doll'ef- 
letto, no in quelle che scelgono, ci adoprano quei mezzi 
dio si rieleggono a produrre un effetto simile, né cosi 
le lavorano o dispongono conio converrebbe per tal 
uopo; o ciò non fanno perché noi vogliono e perché noi 
sanno. Noi sanno, perché privi essi medesimi d'inspi- 
ri? TT Ut °, SUblÌme 0 d ^na, o di sentimenti 
tori, e profondi nel comporre in qualsia genero, non 

SSSTSd T g ÌT ? llsar lo scelto ia mod ° da 

(8228) produr negh uditori queste siffatto sensazioni 
oli ossi mai non provarono né proveranno. Sol vogliono, 
perche, appunto non conoscendo tali sensazioni, nulla 

al,*?! 1 aTJ° * tm T> nÒ altr ° tinò 6i Propongono 
ohe il diletto superale e il grattar gli orecchi, al 
che di gran lunga pospongono le grandi e nobili e 
torti emozioni, di cui mai non fecero esperimento. Ma 
che maraviglia? Quando gli antichi musici erano i 
poeti, quegli stessi che per la sublimità de' concetti, 
per la eleganza e grandezza dello spirito brillano nello 
carte che di loro ci rimangono, o perdute queste coi 
>tmi d a loro mymtatì 6 applicatiyÌ! viyouo . m _ 

mortai! i loro nomi nella memoria degli uomini, e 
n L 5 l0ra . 1 f ziandi0 PW egregi o magnanimi fatti? E 
iuando all' incontro i moderni musici, stante le cir- 
costanze della loro vita o delle moderne costumanze 
a loro riguardo, sono por corruzione, per delizio, per 

ro X nel t S T Za " ^ del WS** Z 

cojo elio nelle storie si conti? la feccia della feccia 



3228-3229-3230) PENjatMBl 



259 



dolio jjouoraxiioiri ? Da vita opinioni e costumi vili, 
adulatoci . dissipati, (3229) effeminati, infingardi, come 
può nascer concetto alto, nobile, generoso,, profondo, 
vii-ile, energico? Ma questo discorso porterebbe troppo 
innanzi, e cond urrebbe necessariamente al parallelo 
delia musica e de' musici colle altre arti e loro pro- 
fessori, a quello do Ila moderna musica coli' antica, e 
dello moderne usanze collo antiche relative al pro- 
posito; e finalmente a trattare della funesta separa- 
zione della musica dalla poesia e della persona di 
musico da quello di poeta, attributi anticamente, e 
secondo la primitiva natura di tali arti, indivise e 
indivisibili (vedi il V iaggio d' Armarsi, l e, partico- 
larmente l' ultima nota al e. 27). Il qv&\ discorso da 
molti è stato fatto, e qui non sarebbe che digres- 
sione, fero lo tralascio. 

Tornando al nostro primo proposito, il qua] fu 
di mostraro che l'armonia o convenienza scambievole 
do' tuoni nelle loro combinazioni successive è deter- 
minata, siccome ogni altra convenienza, dall'assuefa- 
zione; si vuol notare che quest' assuefazione, in fatto 
di melodio (corno anche di armonie), non è sempre 
»òxó|icito ? del popolo, (3230) ma bone spesso in lui 
prodotta e origina ta dalla stessa arto musica. Perocché 
a forza di udir musiche e cantilene composte poi- 
arte (il elio a tutti più o meno accade), anche i non 
intendenti, anzi affatto ignari della scienza musicalo, 
assuefanno l'orecchio a quello successioni di tuoni 
elio naturalmente essi non avrebbero né conosciute ne 
giudicato per armoniose (o ch'elle sieno inventato di 
pianta dagli uomini dell' arte o da loro fabbricate 
sulle melodie popolari' o di là originate), in virtù 
della quale assuofaziono, essi giungono a poco a poco, 
e senza avvedersi del loro progrosso, a trovare armo- 
niose tali successioni, a sentirvi una melodia, o quindi 
a provarvi un dilotto sempre maggiore, e a formarsi 
Circa lo melodie una più capace, più vai ia. più estesa 



260 



[•EHSiEltJ 



(3230-3231) 



facoltà di giudicare, la qua] facoltà, che in altri ar- 
riva a maggioro in altri a minor grado, è poi per 
ossi cagiono del diletto che provano nell'udir musi* 
ohe ; giudizio e diletto determinato, dettato e cagio- 
nato, non già dalla natura primitiva o Universale, ma 
dall'assuefazione accidentale e varia socqndo i tempi, 
i luoghi o lo nazioni. (3231) Io di mo posso accer- 
tare che nel mio primo udir musiche (il che molto 
tardi incominciai) io trovava all'atto sconvenienti, in- 
congruo, dissonanti e discordevoli parecchie delle più 
usitate combinazioni successivo di tuoni, che ora mi 
paiono armoniche, e nell' udirle formo il giudizio o 
percepisco il sentimento della melodia. 

Né più né meno accade nella pittura, scultura, 
architettura. Scnz' alcuna cognizione della teoria, né 
dolla pratica immediata dell'arte, a forza di veder di- 
pinti, statue, edifizi, moltissimi si formano un giudi- 
zio e una facoltà di gustare e di provar piacere in 
tal vista e nolla considerazione di tali oggetti, la qual 
facoltà non aveano per l' innanzi, osi acquista a poco 
a poco por mozzo doll'assuofaziono, la quale determina 
in questi tali (e sono i più che parlino di bello arti) 
l' idea dello convenienze pittoricho ce, del bello ec. e 
quindi anche del brutto ec, col divario che il soggetto 
dolla pittura e scultura si è l' imitazione degli og- 
getti visibili , della quale ognun vede la verità o la 
falsità, ondo le idee del bello e del brutto pittorico 
e scultorio, in quanto queste arti sono imitative, è 
già determinata in ciascheduno prima dell' assuefa- 
zione. Non cosi nell'architettura e nella musica, meno 
imitativo, o questa imitativa di cose non visibili ec. 
Cosi discorrasi in ordine alla poesia ed al gusto e 
giudizio cho l'uomo se ne forma o n'acquistava. 

Nel detto modo si formano i mozzi intendenti, 
più o meno capaci di giudicare o quindi di provar 
diletto nelle composizioni musicali, cioè che più o 
meno hanno udito e riflettuto in questo genere e po~ 



Ofìl 

(3231-3232-3233) pbnsiEM_ 

7tov7at.ten Z ione. I quali mMtendeati costitui- 
to la maxima parte di quelli che parlano d 
mnsica 6 di quel pubblico che dà espressamente il 
Co voto circa lo composizioni musica i che campan- 
do, giacche i periti veramente della scorza mu- 
gica o conoscitori di esse per elementi e regole sono 
ben pochi rispetto al pubblico. 

Or dunque molto che si chiamano melodiepopo- 
L hanno il loro fondamento nell'assuefazione 
do' mezzi-intendenti, o del popolo in quanto (32321 
assuefatto a udir musiche. E delle composmoni suc- 
cessive di noto, altre riescono melodie a tutti gli orec- 
cln. altre a quelli dì chiunque è pure un poco inten- 
dente (cioè assuefatto), altro ai mozzi-intendenti pu 
avanzati, altre ai soli veri e perfetti intendenti ed 
altro a questi più a quelli meno, o viceversa eccetera. 
E cosi il giudizio e il senso della melodia sempre 
nasce e dipendo ed è determinato dall' assuefazione o 
dalla cognizione di leggi che non hanno la IpT? ra- 
gione nella natura universale, ma nell'accidentale e 
particolare uso presente o passato, e m altre tali cose, 
lo quali leggi ho chiamato di sopra arbitrano 

E tutto ciò sia aggiunto por «piegare e distin- 
guere e quasi classificare quello ch'io intenda per po- 
polare nella musica, por melodia popolare, e per as- 
suefazione degli orecchi determinante la scambievole 
convenienza delle noto nella loro scambievole succes- 
sione o collegamento. , . 

Del resto poi le assuefazioni che di sopra ho chia- 
mato rówaatoi del popolo (voglio dire dell'univer- 
sale) nascono ed hanno origino da vane cagioni, e ira 
l'altre dalla natura, indipendentemente poro da ve- 
runa naturalo (3233) convenienza scambievole di quali 
si sieno tuoni, ma solo in tanto in quanto, per esempio, 
certe passioni naturalmente e universalmente amano 
certi tali tuoni e certi tali passaggi da un tal tuono 
a un tal altro. La qual cosa dio nulla ha che fare col- 



202 



(3233-3234) 



l'assoluta convenienza di tal tuono a tal tuono (pe- 
rocché qui la ragione della convenienza de' tuoni non 
istà nella natura loru, ne nei loro naturali rapporti, 
ma e relativa alla natura dell' uomo che, indipenden- 
temente dalla convenienza, ama in qnel tal caso qnej 
tuono e quel passaggio) fu l'origine delle melodie, lo 
quali furono da principio, siccome sempre avrebbero 
dovuto e dovrebbero essere, imitative; bensì tali che 
abbellivano ed ornavano e variavano la natura, colla 
seePa, colla disposiziono, coll'atta mescolanza e con- 
giungimento e di più colla delicatezza, grazia, mo- 
bilità ec. degli organi o naturali (coltivati ed eserci- 
tati) o artifiziali inventati e porfezionnti. Nò più né 
manco di quello che le poesie debbano, imitandola, 
ornare, abbellirò, variare o mostrar sotto nuovo abito 
la natura. Vegga si a questo proposito la citata nota 
ultima al capo (3234) 27 del Viaggio d' Anacarsì e 
quello che altrove ho dotto sopra l'imitativo della 
musica o sopra quella convenienza musicale che ha 
nella imitazione sola la sua ragione ed origine. 

E notisi che se nulla v' ha nella musica,, sia 
nell'armonia sia nella melodia, che universalmente da 
tutti i popoli civili e barbari sia riconosciuto o pra- 
ticato, o che in tutti faccia effetto, ciò si dee riferire 
alla natura operante nel modo dotto di sopra, o in altri 
che si potrebbero dire; operante prima dell'assuefa- 
zione e indipendentemente da lei, ma indipendente- 
mente altresì dolla convenienza e senz'aldina rela- 
zione all'armonia. Oltre all'altre cagioni di universalo 
offotto nella musica, indipendenti puro dalla con- 
venienza, parto dolio quali ho annoverate di sopra 
p. 3211, seg., parte altrove, parte potrei annoverare 
(20-21 agosto 1823). 

* Alla p. 2999, ultima linea. Crepo is ui itum sa- 
rebbe corno strepo ?*s ài itum, da Cui strepitare, come 
appunto da ei-ttpo a* o is, crepitare. E crepo as ri ter- 



(3234-3235-3236) pensieri ^ Mr-> 

jeble o torrebbo in prestito il perfetto e il superlativo di 
crepo is, cioè crcpui, i.tum,, coinè appunto accubo ec. 
quelli di accumbo ec. cioè accubiti itum. Profiigo (3235) 
as è à&jligo it. onde alligo is, confiigo i» ec. che hanno 
i continuativi afflicto confitelo ec, fatti regolarmente 
da' participi]. Vedi Porcellini in l'rofiigo e profilativi 
p2 agosto 1823). Vedi p. 3246, 3341 e 3987. 

* Saluto as si deriva da salus. Ma io 1' ho in forte 
sospetto di continuativo fatto da salveo-salvitus (an- 
tico), mutato in salviti», ovvero da salvo, mutato il 
participio snlvatus parimenti in salititi» (vedi Forcellini 
in saluto, fino e in salvo). Giacché spessissimo la lin- 
gua latina, massime antica, scambiava tra loro l'i* e 
il v, mutando questo in quello, o per lo contrario. 
Cosi lavo no' compoeti diviene Ivo : ed ahlutvs si dice 
in luogo di ahltmdw. Cesi tatttu» per lavatus, fautum 
per javitum. A questo proposito noterò il continua- 
tivo lav'ito. Forcellini Cerelmim, in fine. E eoinmentor 
e commento a participio comnientus verbi commin'iscor 
(forso anche comminisco) . dico il Forcellini e notate 
che qui non dice dal supino , cioè da commentum , 
corno suole (22 agosto 1823). 

* Platone nel Sofista, verso il fine, edizione del- s 
l'Astio, Opp. di Platone, Lipsia, 1819, sgg., t. IL p. 362, 
v. 3, sgg., A, penultima pagina dol Dialogo llóìhv nu* 
!&VO|j.a Év.f/.tspc[) ti; fiv />Yj<ie*a[ Jipér.ov; S-f-jloy S-ì] y/tXs7iòv riv, 
Siott ttj; tiT>v -fsvoiv x«i* e*t3"/[ SiciipéoedJS naXaia tic, u){ toi- 
x;v, iliiv (Io. àfiòt». Ast.) iole, £(juipoo(hv xal à&'ivvoo; ita- 
P^v , <7iats |iT(S J wi/sipeìv p.-^Sévot Statpeìaftou ■ xnfrò 84} 
xtùv 2>vo[i.àTu>v àvdv v -'f| F'1 =>'fóopa sòrcoptìv : (3236) linde 
iam nomen utrique eorum quisquam arripiet conve- 
fiiens f an dubium non est quin difficile, sii, propUrm 
quod ad generum in specie» distribvtionem vetustam 
quondam, ut videtur et ineonsidnratam superiore» l>a- 
bebimt ojfe.nsìnnem aique fmiidivm, ita ut ne conaretur 



PRNSIKRI 



(3236-3237) 



quidam ullus dividere; guoairca etiam immina non natia 
nobis possimi in promptu osse, f Astius. Vuol dir Pla- 
tone e si lagna elio gli antichi greci (e cosi tutti gH 
antichi d'ogni nazione) ebbero poche idee elementare 
onde la loro lingua (e cosi tutte le lingue fino a unti 
perfetta maturità e coltura, e fino che la nazione non 
filosofa) mancava di termini esatti e snffioient i n i 
bisogni del dialettico, massimamente, e del metafisico. 
Ond' ò che Platone, il quale volle sottilmente filoso- 
fare ed esercitare l' esatto raziocinio , c considerare 
profondamente la natura delle cose, fu arditissimo nel 
formare do' termini di questa fatta, ed abbonda som- 
mamente di voci nuove e sue proprio, esatte e logiche 
ovvero ontologiche, ') che da ninno altro si trovano 
adoperate o che da' suoi scritti furono tolto. E notisi 
che Platone faceva questa lagnanza della sua (3237) 
lingua, la più ricca, la più feconda, la più facile a 
produrre, la più libera, la più avvezza e meno intolle- 
rante di novità, ed oltre a questo, nel più florido, 
perfetto ed aureo secolo d' essa lingua,- o quasi an- 
cora nel più libero e creatore. Nondimeno a Platone 
parvo scarsa a' bisogni dell' esatto filosofare la stessa 
lingua greca nel suo miglior tompo, o trattando ma- 
terie sottili egli ebbe bisogno di parere ardito agli 
stessi greci in quel secolo, e di fare scusa e addur la 
ragione dol suo coniar nuove voci. Ne certo si dirà che 
Platone le coniasse o per trascuratezza e poco amoro 
della purità ed eleganza della lingua, di eh' egli è ira 
gli attici il precipuo modello, né per ignoranza d'.ossa 
lingua e povertà di voci derivante da questa ignoranza 
(22 agosto 1823). 

* Chiunque esamina la natura delle cose colla pura 
ragione, senz'aiutarsi dell' immaginazione né del sen- 
timento, né dar loro alcun luogo, eh' è il procodere 



1 ) Vedi In prefazione ili Timeo ;il suo Lessico Platonico, oppo il Fa- 
Ijricius, HihUolh.-ca arama, edit rot,, IX, iffi. 



(3237-3238-3239, n^v.m. ________ 

^Utìtedesclii ') «olla filosofia, ne dire nello me- 

tfiXa o nella politica, potrà ben quello ohe suonai 

Sura ma o< non potrà mai ricomporla, voglio due 
'potrà mai dallo »uo osservazioni e dalla sua 
analisi tirare ima grande o generalo conseguenza ; 
toi «gore e condurre le detto osservazioni in un gran 
Ss Uato; o facendolo, corno non lasciano di farlo 
fumeranno; e cosi veramente loro interviene^ 
oglto anche supporrò cH'cgli arrivino co Ila loro ana- 
li fino a scomporre e «^ei-e la natma bb suo 
menomi ed ultimi elementi, e oh- egli ott fugano di 
conoscere ciascuna da se tutte le parti della wtjra. 
Ma il tutto di essa, il fino e il rapporto S ca»ntoo 
di esse parta tra loro, e di ciascuna verso il t utlo lo 
scopo di queste tutto, e 1' intenzien vera epo o da 
della natura, quel ch'ella ha destinato, la cagiono (la- 
sciamo ora star l'efficiente) la cagion fin alo uel suo 
essere e del suo esser tale, il perche e a ^ ^ 
disposto e cosi formato le sue partì, nella cognizione 
dello quali cose dee consistere lo scopo del fa osoio e 
intomo alle quali si aggirano insomma tutte le venta 
generali veramonte grandi e importanti, questo cose 
dico, è impossibile il ritrovarle (3239J e 1 intendete 
a chiunque colla sola ragiono analizza ed esamina a 
natura. La natura cosi analizzata non differisce punto 
da un corpomorto. Orasupponghia.no che noi fossimo 
animali di specie diversa dalla nostra, anzi di natili a 
diversa dalla; general natura dogli animali che cono- 
sciamo, e nondimeno fossimo, siccome siamo dotati 
d' intendimento. Se non avendo noi mai veduto no 
uomo alcuno ne animale di quelli che realmente esi- 



i) Coai «nota parecchi inglori o gcncruhuonto coloro ri,« no» 
sono «wau-taui o non «mescono altro che stn.li « cose iU «iu 

oUo di tali llWanfi, nastalUi,-:, ,».UUci. .naleiuatid. .ri n».li, ™ » ha . 
copia fra' teWhi e clipei fra inpleri «ho altrove, orni» ... H»"Ci« 
Italia. 



26fi pen sièri (3239-324(3-3241) 

stono, o niuna notila avendono, ci fosso portato""^ 
danzi un corpo amano morto, e notomizzandolo noi 
giungessimo a conoscerne a una a una tutto le più 
mcnome parti, 6 chimicamente decomponendolo arri- 
vassimo a scoprirne ciascuno ultimo elemento; perciò 
torse potremmo noi conoscerò, intendere. Hh™<.™ 



concepno quffl fosse il destino, l'azione, lo funzioni I 
virtù, lo forze oc, di ciascheduna parte d'esso coreo 
rispetto a se stesse, all'altre parti ed al tutto, quale 
lo scope e l'oggetto di quella disposizione e di quel 
tal ordine che in esse parti scorgeremmo e osservo 
remrao pure co' proprii occhi, e collo proprio man 
tratteremmo; quali gli effetti particolari e l'effetto m 
noralo o complessivo di esso ordine e del tutto di esso 
corpo; quale il fine di questo tutto; quale insomma e 
che cosa la vita dell'uomo,, anzi se quel corpo fosse 
mai e dovesse esser vissuto; (3240) anzi pure, se dalla 
nostra stessa vita non l'arguissimo, o se alcuno po- 
tesse intendere senza vivere, concepiremmo noi e ri- 
trarremo in alcun modo dalla piena e perfetta e ana- 
litica ed elementare cognizione di quel corpo morto, 
1 idea della vita? e vogliamo solamente dire l' idea di 
quel corpo vivo ? e intenderemmo noi quale e che cosa 
tosse 1 uomo vivente e il suo modo di vivere esteriore 
o interiore ? Io credo che tutti sieno per rispondere che 
ninna di questo cose intenderemmo ; che volendole con- 
getturaro, andremmo le mille miglia lontani dal vero, 
o sarebbo a scommetter milioni contro uno che di 
nulla mai, neanche facendo un milione di congetturo, 
ci apporremmo ; finalmente eh' egli sarebbe cosa pro- 
babilissima, eh' esaminato e conosciuto quel corpo 
morto, in questa conoscenza ci fermassimo e neppur ci 
venisse in sospetto eli' ei fosse mai stato altro, né fosso 
mai stato destinato ad osser altro che quel che noi lo 
vedremmo e tale qual noi lo vedremmo, né della sua 
passata vita né dell' uom vivo ci sorgerebbe in capo la 
pia menoma conghiettura. (3241) 



;1 

> 
i 

o 



OR? 

■|l -3242) vsssam _ _ ^^^^1 

replicando questa similitudine al mìo proposito 
dico che scoprire od intendere qual sia la natura viva, 
^alo il modo, quali le cagioni e gli effetti, quali gli 
Lamenti o i procossi, quale il fine o i fini, la inten- 
zioni i destini della vita della natura o delle cose, 
Anale' la vera destinazione del loro essere, quale insom- 
ma lo spirito della natura, colla semplice conoscenza, 
per dir cosi, del suo corpo, e coll'analisi esatta, im- 
Laiosa, materiale dello suo parti anche morali, non si 
può dico, con questi soli mozzi scoprire ne intenderò, 
he felicemente o anche pur probabilmente congetturare. 
Si può con certezza affermare che la natura , o vo- 
gliamo diro l'università delle coso, è composta, -con- 
formata e ordinata ad un effetto poetico , o vogliamo 
dire disposta e destinatamente ordinata a produrre 
un effetto poetico generalo ; od altri ancora partico- 
lari; relativamente al tutto, o a questa o quella 
parto. Nulla di poetico si scorgo nelle sue parti, so 
parandole 1' mia dall' altra , ed esaminandole a una 
a mia col semplice lume della ragione esatta e geo- 
metrica: nulla di poetico ne' suoi mozzi, nelle sue 
forzo o mollo interiori o esteriori, ne' suoi processi 
in questo modo disgregati e considerati: nulla nella 
natura decomposta e risoluta, o quasi fredda, morta 
esangue, immobile, giacente, per cosi dire, sotto il 
coltello anatomico, o introdotta nel fornello chimico 
di un (3242) metafisico che niun altro mezzo, mun 
altro istrumento, niun' altra forza o agente impiega 
nelle sue speculazioni, no' suoi osami o indagini, nello 
suo operazioni o, come dire, esperimenti, so non la 
pura e fredda ragione. Nulla di poetico poterono né 
potranno mai scoprire la pura o semplice ragiono e 
la matematica. Perocché tutto ciò ch'è poetico si sente 
piuttosto che si conosca e s' intonda, o, vogliamo anzi 
dire, sentendolo si conosce e s'intende, né altrimenti 
può esser conosciuto, scoperto ed intoso, che col sen- 
tirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno 



^ 68 .pensieri (3242-3243-3244) 

sensorio alcuno. Spetta all'immaginazione e alla sen- 
sibilità lo scoprite o l'intendere tutte le sopraddotte 
code; ed elio il possono, perocché noi, ne' quali ri- 
siedono osse facoltà, siamo pur parte di questa natura 
o di questa università eh' esaminiamo r o queste fa- 
coltà nostre sono osse solo in armonia col poetico 
eh ù nella natura; la ragiono non lo è: onde quelle 
sono molto più atto e potenti a indovinar la natura 
ohe non è la ragione a scoprirla. E siccome alla sola 
immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi 
conoscere ciò oh' è poetico, però ad essi soli è possi- 
bile od appartiene V entrare e il penetrare addentro 
ne grandi misteri della vita, dei destini, dello in- 
tenzioni si generali, si anehe particolari, della (3243Ì 
natura. Essi soli possono mono imperfettamente con- 
templare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto 
della natura, il suo modo di ossero, di operare, di 
vivere, i suoi generali o grandi effetti, i suoi fini. 
Essi, pronunziando o congetturando sopra queste cose, 
sono meno soggetti ad errare, e soli capaci di ap- 
purai talora al voro o di aecostarsegli. Essi soli sono 
atti a concepire, creare, formare, perfezionare un si- 
stoma filosofico, metafisico, politico che abbia il meno 
possibile di falso, o, so non altro, il più possibile di 
simile al voro, o il meno possibile di assurdo, d'im- 
probabile, di stravagante. Per essi gli uomini con- 
vengono tra loro nelle materie speculative e in molti 
punti astratti, assai più che per la ragione, al con- 
trario di quel che parrebbe dover succedere; peroc- 
ché egli è cortissimo che gli uomini, discorrendo o 
congluotturando por via di semplice ragione, discor- 
'Uuio per lo più tra loro infinitamente, s'allontanano 
le mille miglia gli uni dagli altri, e pigliano e seguono 
tutt altri sentieri; laddove, discorrendo por via di sen- 
timento o d' immaginazione, gli uomini, lo diversis- 
simo (3244) classi di essi, le nazioni, i secoli, bone 
spesso, e costantemente, convengono del tutto fra loro, 



te si può vodoro in moltissimo proposizioni (si- 
imi) ed um-ho puro supposizioni, dall' immaginava 
fXl cuore' o trovate o formato, o da essi soli de- 
vote c autorizzato, o in ossi soli fondato lo qua 1, 
m ,mo sempre e sono tuttavia ammesse e tenute da 
tutto o da quasi tutte lo nazioni in tutti i tempi, e 
dall'universale d«i?li uomini avute, anoho oggidì por 
verità indubitabili, e da' sapienti, quando non al ro 
por più vorisimili o più universalmente aocottal.l 
L alcun' altra sul rispettivo proposito. Il che torse 
di ninna ipotesi (generalo o particolare, cioè costi- 
tuente sistema, o no ec.) dettata dalla pura ragione 
6 dal puro raziocinio, si vedrà essere intervenuto ne 
intervenire. Finalmente la sola immaginazione od I 
cuore, e le passioni stesso; o la ragione non altii- 
menti che colla loro efficace mtervenzmne, hanno 
scoperto e insegnato e conformato le più grandi, pn 
eonorali, più sublimi, profonde, fondamentali, o più 
importanti verità filosofiche che si posseggano, e ri- 
velato (32*5) o dichiarato i più grandi, alti intimi 
misteri che si conoscano, della natura e de lo cose, 
come altrove ho diffusamente esposto (22 agosto l&M). 

* In conferma del sopraddetto si osservi che i più 
profondi filosofi, i più penetranti indagatori del vero, 
e quelli di più vasto colpo d'occhio, furono espressa- 
monte notabili e singolari anche per la facoltà del- 
l' immaginazione e del cuore, si distinsero por una 
vena e per un genio decisamente poetico, no mederò 
ancora insigni prove o cogli scritti o colle azioni o coi 
patimenti della vita che dalla immaginazione e dalla, 
sensibilità derivano, o con tutte queste coso insieme. 
Fra gli antichi Platone, il più profondo, più vasto, 
più sublimo filosofo di tutti essi antichi, che ardi 
concepire un sistema il qnnle abbracciasse tutta 1 esi- 
stenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu noi 
suo stile, nelle sue invenzioni ec. cosi poota come 



270 



(3245-3246-324?) 



tutti sanno. Vedi il Fabricius in riatone. Fra,' moi 
domi Cartesio, Pascal, quasi pazzo por la forza doliti 
fantasia sulla fine della sua vita; Rousseau, Mad, <li 
StaSl co. (23 agosto, udita la morte del .Papa Pio VII, 
olio fu a' 20 di questo. 1823). (3246) 

:i: A quoi pochi monosillabi latini da mo altrove 
raccolti, aggiungi pax, voce eh' esprime una cosa elio 
dovette esser dello prime o delle più antiche nomi- 
nate ; onde pacare, patisti, pactum ce. Il greco corri- 
spondonto è trisillabo : elp^v») ') (23 agosto 1823). 

* Alla p. 3235. Placeo es~ 'placo as. Placco ha pur 
placito as. Notisi elio questo placo viene da un verbo 
della seconda maniera, non della terza. Convivo is- con- 
vivo <ts e convinor-aris. Convitare e combidar (frane. 
convier), quasi completare è un regolar continuativo di 
convivo is- convictus. Quando però non fosse o una cor- 
ruzione o piuttosto un fratello (comune, come vedete, 
a tutto lo tre lingue figlio), d' invito as, il qual verbo 
donde viene ? torso da vita ? o l'orse è un continua- 
tivo dell' anomalo continuativo inviso is-invisus, quasi 
invitare, mutata la s in t, corno non di rado si scam- 
biano quosto lettere ne' participii {fixm-fictus etc.), 
o è una diversa inflessione d' inviso is medesimo, e 
più regolare ? Dol resto, so non convivo is, corto il suo 
semplice vivo is ha forse il regolare continuativo 
vieto as, e senza dubbio il frequentativo vietilo. Vedi 
poi il glossario se ha nulla in proposito per le sud- 
detto coso (28 agosto 1823). Vedi p. 3289. (3247) 

* È cosa nota ohe le favello degli uomini variano 
secondo i climi. Cosa ossorvata dev' essere altresì ohe 
le differenze de' caratteri dello favello corrispondono 
alle differenze de' caratteri delle pronunzie, ossia del 
snono di ciascuna favella genoralmonto considerato ; 



') Similmente rticiisi Ai «a-, mulo «mi», éfuào oc, 



(3247-3248) _r^&SfBB< _ 

F^7n U a"u.i-Ma di suono aspro ha un carattere o un 
°" (c o una lingua di «nono dolce ha un cavat,- 

f!r e nTùio molle e doluto: una lingua ancora 
ba r 0 ivominzia ed andamento rozzo, e cm> 
S» raddolcendosi e ripulendosi il carattere della 
■ r^lla dicitura, raffinandosi, divenendo rego- 

r a tle e de la pZlia, cosi i caratteri delle P ro- 
X on-ispoldono allo nature dei clinn e quindi 
alle quaHtà fisiche degli «un che vivono n essi 
climi e alle lor qualità morali che dallo fisiche prò 
Sreh.reo. ^pondono. O.lo no' ,diun sc^trHj- 
nali dove gli nomini indurati dal troddo da pati 
Ìli o daflc fatiche di provvedere a> propri biaogn 
in tori- (3248Ì naturalmente sterili e sotto un eie lo 
toiquo e fortificati ancora dalla fredda temperatura 
SS», Bono più ohe altrove robusti di corpo e ™ 
raeeiosi d' animo, e pronti di mano, lo prono»» e 
K ehe aitile Lti ed energiche e nehiedon 
un grande spirito , siccome e quella della bug a te 
desca piena d'aspirazioni, e ohe a P™™»"^ P£ 
che ridderà tanto fiato quant' altn può avere in 
po to ndf a noi italiani, udendola da' nazionah par 
oh' e 'facciano grande fatica a parlarla, e gnm fi™ ■ * 
petto ci adoppino. Per lo centrano accado nelle lingue 
L'olimi meridionali, dove gli uomini sono pei nata a 
molli e inclinati alla pigrizia e all' oziosità, «dttuno 
dolce e vago de' piaceri, e di corpo men vige o so che 
mobile e vivido. Ond' egli è proprio oaPatteie deUa 
pronunzia non mono che della lingua, por esempio te- 
desca, la forza, e dell' italiana la dolcezza e dolio, 
E poste nelle lingue queste proprietà rispettavo de una 
lingua all' altra, no segue che anche assolutamente e 
considerando ciascuna lingua da se nella lingua por 



272 



esempio italiana, sia, pregio la delicatezza e dolcezza 
(3249) ondo lo scrittore o il parlatore italiano, appo cui 
la lingua (sia nello stile, sia nolla combinazione delle 
voci, sia nella pronunzia) è più delicata e più dolce 
«ho appo gli altri italiani (salvo che queste qualità 
non passino i confini clic in tutte le cose dividono il 
giusto dal troppo, sia per rispetto alla stessa lingua 
in genero, sia in ordine alla materia trattata), più si 
loda che gli altri italiani, appunto perocché la lingua 
italiana nella dolcozza e delicatezza avanza l' altre 
linguo. Ma per lo contrario f ra' tedeschi dovrà mag- 
giormente lodarsi lo scrittore o il parlatore appo cui 
la lingua riesca più forte cho appo gli altri tedeschi, 
perocché la lingua tedesca supera l'altre nella forza, 
e suo carattere è la forza, non la dolcezza : né la dol- 
cezza ò pregio per se,neppur nella lingua italiana, ma in 
ossa, considerandola rispetto alle altre linguo, è qua- 
lità non pregio, o nello scrittore o parlatoro italiano 
è pregio, non in quanto dolcezza, ma in quanto propria 
e caratteristica della lingua italiana. Cosi civiliz- 
zandosi le nazioni, e divenendo, rispetto alle primi- 
tivo, delicate di corpo, divonne altresi progio negl'in- 
dividui umani la maggior (3250) delicatezza delle 
forme, non perché la delicatezza sia pregio per so ; 
che anzi la rispettiva delicatezza delle formo era cer- 
tamente biasimo, e tornito per difetto, o per causa di 
minor pregio d'esso forme, àppo gli uomini primitivi ; 
ma solo perché la delicatezza fisica oggidì, contro le 
leggi della natura, e contro il vero ben essere e il 
destino dell' umana _ vita, è fatta propria o caratteri* 
stica delle nazioni e persone civili Laonde ben s'in- 
gannarono quei tedeschi (ripresi da Mad. di Stael 
noli' Ale-magna) che cercarono di raddolcire la loro 
lingua, credendo farsi tanto più pregevoli degli altri 
tedeschi quanto più dolcemente di loro la parlassero o 



') l'imi vodoro lo ]m£g. 3084-90. 



°73 

(3250-3251-3252) i>ensieki_ . 

tessero o elio 1« dolcezza, procurandola alla lingua 
^ 1,'avc*» a«l ««r pregio, contro la natura e 
foto il caratt.ro della lingua, il quale è la forza e 
£ta forza richiede nello scrittore e nel parlatore 
Luta possa non varcare i conimi present i dalla 
Llità d'ossa bugna, o da quella delle parUcolan ma- 
terie in essa trattate; ed esclude, colle medesime con- 
cioni, la doleva, come vizio nella lingua_ « 
non pregio, perché opposta alla sua natura. (325". 

Tornando al proposito, debbono esser, come ho detto, 
cose osservate queste proporzioni che passano , tra e 
diverse naturo dei climi e i diversi caratteri dello 
rispettive pronunzio e genii dello rispettive bugne, ed 
altresì il modo di questo proporzioni, cioè il modo m 
che il clima opera sullo favelle e da quali proprietà del 
clima quali proprietà derivino alle pronunzie e alle 
lingue. Ma forse non sarà stato egualmente notato 
che trovandosi in un medesimo clima e paese esseio 
stati in diversi tempi diversi caratteri di pronunzia 
l e di lingua, queste diversità corrispondettero sempre 
alle qualità' fisiche degli uomini che ciascuna d esse 
pronunzio e lingue, l' una dopo l'altra, usarono, le 
quali fisiche qualità variarono secondo le diverse cu- 
costanze morali, politiche, religiose, intellettuali ec. 
che in diverse generazioni in quel medesimo clima e 
paese ebber luogo. Ond' è che sebbene il clima meri- 
dionale naturalmente ispira dolcezza ne' caratteri delle 
pronunzie e de' suoni, tuttavia il suono della lingua 
greca, e quello della lingua romana, certo più mono 
che non era a quel tempo, o che adesso non e, il suono 
dello (3252 ) lingue settentrionali pur fu molto men de- 
licato e più forte di quello che oggi si sente nella 
nuova lineo a dello stesso Lazio e di Roma e d Italia. 
E ciò non per altra cagione fìsica immediata, se non 
perché, stante le loro circostanze morali e politiche o 
il lor genero di vita e di costumi, gli antichi greci e 
romani (il che anche por mille altri segui o notizie si 

18 

Leopaulh. — Pensieri, V. 



274 



PENSI BRI 



(3252-325® 



prova) furono di corpo molto più forti che i moderni 
italiani non sono. La stessa pronunzia, della moderna 
lingua francese (e cosi delle altro) si è addolcita coi 
costumi della nazione, come dice Voltaire oc, giacché 
un di s-i pronunziava come oggi si scrive ce. Ond'è cìj 
siccome la pronunzia francese per la geografica posi- 
zione e naturai qualità del suo clima, eh' è mezzo tra 
meridionale e settentrionale, tiene quasi tanto 'delle 
pronunzie del sud quanto di quelle del nord ') ed è un 
temperamento dell' ime e dell' altre e un anello che 
questo a quelle congiunge, 2 ) cosi il carattere delle 
pronunzie greca e latina tiene, non dirò già il proprio 
mozzo tra il settentrionale c il meridionale, ma tra 
il carattere dell' italiana, eh' è uno estremo delle mo- 
derne pronunzie meridionali, e l'estranio assoluto della 
dolcezza ; e quello della pronunzia settentrionale meno 
aspra e che più (3253) s' accosti a dolcezza, e sia 
per questa parte 1' estremo delle pronunzie settentrio- 
nali, alle meridionali più vicino. 0 volessimo piutto- 
sto dire che le pronunzie greca e latina siano medie 
tra P italiana, eh' ò la pili meridionale, e la francese, 
che non è né ben meridionale né per anco settentrio- 
nale. Le linguo orientali, la greca moderna, la turca, 
quelle de' selvaggi e indigeni d'America sotto la 
zona, parlato e scritte in climi assai più meridionali 
che quel d' Italia o di Spagna, sono tuttavia molto 
inen dolci dell'italiana e della spagnuola, e taluna 
anche delle settentrionali ouropee. Ciò perla rozzezza 
o per la acquisita barbarie de' popoli che 1' nsano o 
che 1' usarono, per li costumi aspri e crudeli ec., an- 
tiche o moderne eh' esse lingue si considerino (28 
agosto 1S2Ì5). 

l'uà lingua strettamente universale, qualunque 
ella mai si fosse, dovrebbe certamente essere di nc- 



') Pendolilo iiol'ò ni sud. 
') Póól vodeio In jmg. 2389-Sl. 



(3253-3254-3255) ^j^stem^_^_______ 

t7tà c V»or sua natura, la più schiava, povera, ti- 
k£ monotona, uniforme, arida e brut a lingua, la 
Èf incapace di qualsivoglia genere di bellona la pn, 
, opria all' imaginazione, e la meno da tei dipen- 
dente anzi la più da lei per ogni verso ^giunta, la 
E esangue od inanimata e morta, ohe mar Si possa 
£ceph-e 8 : uno scheletro, un'ombra di lingua putte- 
Z ci e lingua veramente; una lingua non viva, quando 
Ciò»* "da tutti scritta e unrversalmente intes^ 
anzi più morta assai di qualsivoglia lingua che più 
K si parli né scriva. Ma si può puro sperare che 
porchó gli uomini siono già fatti generalmente sud- 
diti infermi, impotenti, inerti, avviliti, scoraggiati 
languidi o miseri della ragione, ei non diverranno 
ET mai schiavi moribondi e incatenati (325* della 
geometria. E quanto a questa parte di una qualunque 
lingua strettamente universale, si può non tanto spe- 
rare ma fermamente e sicuramente predire che i 
mondo non sarà mai geometrizzato; non meno di quel 
che si possa con cortezza affermare ch'ei non ebbe 
una tal favella mai, se non forse quando gli uomini 
erano cosi pochi, e di paese cosi ristretti, e mente 
vari di opinioni, costumi, usi, riti, governo e vita, 
ohe la lingua era universale solo perciò che più d una 
nazione d'uomini, almeno parlanti, non v aveva onde 
universale ora la lingua, perch'era una al mondo, ne 
altra lingua mai s'era udita eduna era e sempre era 
stata la lingua, perché una sempre la nazione mtmo 
allora, o una, se non altro, la nazione cho di lingua 
avesse uso e notizia (23 agosto 1823). 

* Quello poi ohe ho dotto cho una lingua stretta- 
1 mento universale dovrebbe di sua natura essere anzi 
un'ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente, 
• anzi esattamente conviene a quella lingua caratteri- 
stica proposta fra gli altri dal nostro Soave (nelle 
Biflesnoni intorno (3255) all' istituzione d una lingua 



— TI 



2 76 pensieri (3255-3256) 

universale, opuscolo stampato in Eoma, o poi dal me 
desumo autore rifuso nell'Appendice 2* al capo ilo 
del libro III del Saggio filosofico dì Giovanni Locke «j 
l'umano intelletto compendiato dal Dott. Winne tradoÀ 
e commentato da Francesco Soave O. li. S., tomo II I 
intitolato Saggio sulla foniamone di una Lingua Uni 
versale), la qual lingua o maniera di segni noi 
avrebbe a rappresentar le parole, ma lo idee, beni 1 
alcuno delle inflessioni d'esse parole (come quelle] 
de' verbi), ma piuttosto come inflessioni o modifica- 
zioni delle idee che delle parole, e senza rapporto a 
mun suono pronunziato, né significazione e dinota- 1 
zione alcuna di esso. Questa non sarebbe lingua, per- 
ché la lingua non è che la significazione .felle idee ] 
fatta per mezzo delle parole Ella sarebbe una scrit- 
tura, anzi nemmeno questo, perché la scrittura rapi ] 
presenta le parole e la lingua, e dove non è lingua 
né parole quivi non può essere scrittura. Ella sarebbe i 
un terzo genere, siccome i gesti non sono né lingua ] 
né scrittura, ma cosa diversa dall' una e dall' altra. \ 
Quest'algebra di linguaggio (cosi nominiamola), (3256) 
la quale giustamente si è riconosciuta per quella ma- 
niera di segni eh' è meno dell'altre impossibile ad j 
essere strettamente universale , si può pur confìden- 1 
temente e certamente erodere eli e non sia per essere né ' 
formata ed istituita, né divulgata ed usata giammai. J 
-Diro poi ancora eh' ella in verità non sarebbe stret- j 
tornante universale, perch' ella lascerebbe a tutte le ] 
nazioni le loro lingue, siccome ora la francese. Ella ! 
di più non sarebbe propria che dei dotti o cólti. Ma ,] 
% f ' uttj 1 dotti 9 cólti lo è pure oggidì la francese. ] 
«nato utilità dunque di quella lingua? la quale non J 
sarebbe forse niente più facile ad essere generalmente ] 
nella fancmllezza imparata di quello che sia la fran- j 
ceso che benissimo e comunissimamente nella fanciul- 
lezza 8. impara. E tutti i vantaggi che si ricaverebbero 1 
eia -lucila chimerica lingua, tutti, e molto più e mag- j 



(3256-3257-3258) ihkhiuhi *ii 

«ieri e l'orso con più facilità, si caverebbero dalla 
Ifngua francese, divenendo, so pur bisogna, più comune 
e più studiata e coltivata di quo! eli' ella già sia. 

Quanto poi ad una lingua veramente (3257) uni- 
versale, cioè da tutte le nazioni senza studio e fin 
dalla prima infanzia intosa o parlata come propria, 
lasciando tutto lo impossibilità accidentali ed estrin- 
seche, ma assolutamente insormontabili, che ognun 
conosce e confossa ; dico oh' olla è anello impossibile 
por sua propria ed assoluta natura, quando pur gli no- 
mini elio F avrebbero a usare non fossero, come sono, 
diversissimamente conformati rispetto agli organi ec. 
della favella od alle altro naturali cagioni che diver- 
sificano lo lingue ; di modo che, quando anche supe- 
rato ogni ostacolo, una qualunque lingua, per impos- 
sibile ipotesi, fosso divenuta universale nella maniera 
qui sopra espressa, la sua universalità non potrebbe a 
patto alcuno durare, e gli uomini tornerebbero bon 
tosto a variar di lingua, por la stessa natura di quella 
tal favella universale, in cui le condizioni medesimo 
che la farebbero atta ad esser talo sarebbero in 
espressa contraddiziono colla durevolezza della sua 
universalità, e formalmente la escluderobbono. Peroc- 
ché una lingua appropriata ad ossero strettamente uni- 
versale, devo, come (3258) in altri luoghi ho lar- 
gamente esposto, ossero di natura sua sorvilissiina, 
poverissima, senza ardire alcuno, senza varietà, schiava 
di pochissime, esattissime o stringentissime regole, 
oltra o fuor delle quali trapassando non si potesse in 
alcun modo serbaro nó il carattere né la forma d'essa 
lingua, ma in diversa lingua assolutamente si parlasse. 
Né senza una buona parte o similitudine almeno di 
queste qualità e di ciascuna di esse, la lingua fran- 
cese sarebbe potuta giungere a quel grado di universa- 
lità largamente considerata, in cui la veggiaino : né 
certo mantenervisi, seppur momentaneamente vi fosse 
giunta, come vi giunso un di la greca. Perocché queste 



278 pensieki _^3258-3259-3260) 

qualità indispensabilinento richieggonsi ad una -in 
corché non assoluta o stretta, universalità durevole di 
una lingua. Ora una lingua cosi formata e costituita 
e di tali qualità in sommo grado (come a una lineuì 
strettamente universale si ricercherebbe) fornita a 
pochissimo andare, per cagione di queste medesime 
qualità, si corromperebbe o traviserebbe (3259) in modo 
che più non sarebbe quella ; come altrove ho dimo- 
strato di tali lingue non libere, coli' esempio (fra l'altre 
cose) della latina, la quale, siccome ogni altra, quan- 
tunque servilissima, che si conosca, fu ed è ben lon- 
tana dall'avere queste qualità in sommo grado, come 
si richiederebbe di necessità ad una lingua che avesse 
ad essere strettamente e durabilmente universale Cosi 
quelle medesime condizioni che da una parto cagione- ' 
rebbono, e in modo che senza esse non potrebbe staro, 
la propria, o vogliam dire esatta o durevole univor- 
sahtà di una lingua; d'altra parto, e nel tempo stesso, I 
per propria natura loro, rendono assolutamente inevi- '] 
tabile e inevitabilmente prontissima una totale corni- ì 
zionc e mutazione della lingua medesima. Onde né 
senza osse la stretta universalità di una lingua può 
stare, ne qualsivoglia universalità durare, come si è \ 
altrove provato ; e parimente con esse non può durare 
ne la stretta universalità né il proprio stato di una ' 
lingua. Perocché, quanto al proprio stato, è evidente 
che una lingua di necessità corrompendosi e cangian- '' 
dosi (3260) del tutto, di necessità lo perde, cioè perde 
la sua forma, proprietà, carattere e natura. E quanto 
alla stretta universalità, dato ancora che una lingua, 
corrompendosi appo una sola naziono, si corrompesse 
ugualmente, di modo eh' ella, quantunque mutata da 
quella prima, fosse pur sempre una sola in essa na- 
zione, e a tutta comune ; egli è fisicamente impossibile 
a seguire e assurdo a supporre che una medesima lin- 
gua, corrompendosi appo molte o diversissime nazioni 
e cambiandosi affatto da quella di prima, pur corrom- 



279 

,3260-3261-3262) pbhbieR^^ 

Td"o7<l l i-oi- tutto ugualmente, e facendo da per 
Sto n n medesimo tempo gli stessi pass, si man- 
Snesso sempre una sola appo tutte le dette nazioni 

La irruzione non ha legge, e 
Tri-, troi.ia schiavitù e cim»s«u-i»iouO -I una 
K « -i, ed è più cicca che ogni altra; ne 

Sove non v'ha redola alcuna, né acambievolo conven- 
ne consenso (il che sarebbe contrario alla natura 
del corruzione di una lingua), - inforni a di crr- 
„„ utlll „„ (lU i v i im ò essere uniformità. La quale, so « 
mp^bil in una sola nazione, dal contro 
oZercì, e da (3261) tante altre °£ 
Munta .insieme e fatta una, quanto pm tra molte na 
Ci semi e per quanto commercio possano avere m- 
, me d Sun o o ita so diverse ! L si è infatti veduto 
$Z1Ì&™ ^sso la corruzione della lingua latina 
nelle diverse nazioni in oh' ella si propago 1 no a 
' produrrò vario affatto distinte e se parate e p<uata 
mente rosolate e costituito favello, elio tuttavia^ 
parlano. E ciò quantunque la hngua lata* uontajo 
d'assai cosi sovvile oc. come e necessario supporre una 
' lingua strettamente universale. Resta dunque provato 
che una lingua strettamente univer sale, pe cagione 
di quelle stesse condizioni ond' ella sarebbe divenute 
e con cui sole sarebbe potuta <^™ m ™™*£'° 
senza cui l'universalità sua non potrebbe dm ai e se 
non momentaneamente, per causa, dico, di queste me 
desime condizioni, subitamente ™™^™>*™\ 
derebbesi ben tosto, per causa di tal 
quindi por causa di quelle medesime condizioni, che 
naturalmente e necessariamente l' occasionerebbero, m 
diverso lingue, e perderebbe conseguen emente U b a 
(3262) universalità, la durata della quale sarebbe fatta 
impossibile da quelle medesime condizioni che a tal 
' durata indispensabilmente richieggonsi. 

Questo che ho detto di una lingua universa - 
mento parlata come propria, devesi pur dire di una 



280 peks ieri^^ (3262-3263) 

sognata lingua che in tutte le nazioni civiliTdoi 
e gl indotto scrivessero corno propria, rimanendo 1« 
vane lingue nazionali pel solo uso di favellare a un 
di presso nel modo ohe ai bassi tempi le varie fa 
velie o dialetto volgari, scrivendo tutti, anche no 
tai ec, ogni sorta di scritturo in latino , corrotto e 
barbaro e secondo i diversi luoghi diverso, ma pur da 
per tutto latino. ' 1 

E conchiudo che una lingua universalmente da 

ti 6 aH f lle S0le civili > o parlata o scritta] 

0 uno e 1 altro, ed intesa come propria è impossi- 
bile, non solo estrinsecamente e per ragioni estrin- 
seche, ma per sua propria ed intrinseca natura e qua- 
lità e proprietà ed essenza, non relativamente nJ 
accidentalmente, ma essenzialmente, di necessità ed 
assolutamente (24 agosto, di di San Bartolomeo, 

* Mowre ncutro -- 0 ™ forma ellittica per movere se 
o movere castra, come tra noi muovere (3263) neutro ' 
o ellittico (e cosi trarre), del die mi sembra avere 
altrove notato un esempio di Ploro, vedilo appo Sve- 
tomo in Ihvo Julia, cap. LXI, § 1 0 quivi le note degli 
«uditi. Vedi pure, se ti piace, a questo proposito il ' 
Poliziano, Stanze, I, 22, dove troverai muovere neutro, 
senza 1 accompagnamento del sesto caso, come ancora 
m latino (24 agosto, di di S. Bartolomeo, 1823). 

Alla p. 2889. Tumultuo e tumultuar da tumultua, 
us. Acuo da acus MS ò della terza coniugazione per 
una che stante la moltitudine, anzi la pluralità degli 
esempi dimostranti che tali verbi sono regolarmente 
'iena prima, possiamo chiamare anomalia. Cosi statuo 
^s oa status us. Arcuo as da arem us (26 agosto 1823). 

* Grasso?, aris continuativo di gradior eris. il cui 
participio „ us oggi irregolarmente è .^m^, in an- 



PENSIERI 281 



(3263-3264-3265)^ 

71 come dimostra il detto continuativo, più rego- 
larmente In Grama bensì no' composti i 
anali ciano molti altri, mutano Fa di gradior m e; 
Imredinr nqnrcdiov ec. Cosi ascendo ce. da scando, e 
gSi wlò™ ili P. 2843 (26 agosto 1823). (3264) 

* Mia p. 2864. Castello, chàteau, eastillo tengono 
fra noi \l luoyo dol positivo costruiti, col <i" alc auohe 
in latino bene sposso indifferentemente si scambiava 
castdlum. o sì usava equivalentemente ec. (26 ago- 
sto 1823). 

* Francesismi familiarissimi, usitatissimi e volga- 
rissimi in anolla. nazione, tatui mieux, tant pis, frasi el- 
littiche o irregolari, e cho paiono veri idiotismi fran- 
cesi, non sono ohe latinismi, anzi idiotismi, cioè 
volgarismi, latini. Vedi gli eruditi alla l'avola 5,lib. Ili, 
di Fedro. Acsojms et Petulans. ,Vodi anche il Por- 
cellini so ha nulla, la Crusca ec. Noi pur diciamo 
volgarmente e scriviamo tanto meglio, tanto peggio, ma 

. in senso mono ellittico, più naturalo e regolare anzi 
;■ per lo più rogolarissimo, o meno sovente assai do' fran- 
| cesi (26 agosto 1823). 

* Alla p. 2996, margine - vengono, ered'io, da medeor 
I {medeo ancora si disse, poiché medeor si trova pure 
passivo), non da medkus. Lo deduco appunto dal 
veder mudimi- deponente come medeor (laddove me- 
dico corrisponderà all'antico medeo), e dal vedere an- 
cora che medivatus e medicati*» sum suppliscono pel 
verbo medeor ohe manca del protorito e del participio 
in us. Vedi Porcellini in Medeor, line. Voggasi la 
p. 3352. sjrg., circa il continuativo meditar di medeor 
fatto dal suo participio in us (26 agosto 1823). (3265) 



* Si può diro che le viste, i disegni, i proponimenti, 
i finirle sporanzo, i desiderii doll'uomo, tutto ciò in- 



282 ' pensieri (3265-3266) 

somma clic ne' suoi pensieri ha relazione al futuri 
tanto più si stendono, cioè tanto più mirano o ten ' 
dono, o giungono, lontano, quanto minoro naturali 
monto è lo spazio di vita elio gli rimano, o viceversa 
Niim pensiero del bambino appena nato ha relazione' 
al futuro, se non considerando come futuro l'istante 
che dee succedere al presente momento, perocché il 
presento non è in verità cho istantaneo, e fuori di 
un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato 
o futuro. Ma considerando il prosente e il futuro non 
esattamente e matematicamente, ma in modo largo 
secondo che noi siamo soliti di concepirlo o chia- 
marlo, si dee dire cho il bambino non pensa cho al 
prosente. Poco più là mira il fanciullo; ond' è che 
proporro al fanciullo (per esempio negli studi) uno 
scopo lontano (come la gloria o i vantaggi ch'egli 
acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, 
0 anche pur nella giovanezza), è assolutamente inu- 
tile per muoverlo (onde è sommamente giusto ed utilo 
l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli onori 
o vantaggi eh' egli (3266) possa o debba conseguire 
ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come 
un ravvicinare a' suoi occhi lo scopo della gloria 
e della utilità degli studi, senza il quale ravvici- 
namento è impossibile eh' ei fìssi mai gli occhi in dotto 
scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri allo 
fatiche e alle sofferenze ripugnanti alla natura, che ; 
gli studi richieggono). Più si stendono lo viste del 
giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo ma- 
turo e riposato, i cui calcoli sul futuro oltrepassano 
bene spesso, senza eh' ei se n'avvegga, lo spazio 
di vita naturalmente concesso ai mortali. Perciocché 
1 uomo maturo comincia già a compiacersi suprema- 
mente e contentarsi della speranza, e. pascerne la sua 
vita. Della quale speranza si nutro parimente, e con 
essa favella o delira ancho il giovano, o il fanciullo 
altresì; ma non in modo che d' essa si contentino, o 



(3266-3267-3268) votimi ^^283- 

v , cerchino di prontamente effettuarla e recarla 
foZ o venire al fatto. Il che Basca dall'ardore 
S età, dall'attività dell'animo unita e cospi- 
ro con quella del corpo, dalla (3267) freschezza e 
P deliro amor ^ ^«Sg * 
efficacia deMoro d -^r^^^l^Kc: 
«prò non soitertmti rli piopoisi un 
^Lno o eh' e, non credano di potere in poco = o 
e dentro mi picciolo tornirne conseguire; 
dall' inesperienza eh' egli hanno intorno alla vaniti 
delle umane speranze, alla difficoltà che V nomo prova 
in condurle a fino, e alla nullità oziarlo degli sto s 
beni sperati, la quale, inevitabilmente apparisce cosi 
tosto coni' ci sono posseduti. Le contrarie cagioni pro- 
ducono la lunghezza e lontananza delle viste nel- 
l'uomo maturo e l'eccesso di dette contrarie qualità prò 
ducono l'eccesso del centrano effetto nella vecchiezza, 
la quale, ridotta a non potersi ragionevolmente pro- 
mettere più che un brevissimo avanzo oh vita pine 
' nella estensione dello suo viste supera di gran Itmga 
tutto le altro età dell'uomo. Perocché il vecchio pei 
la debolezza di corpo e d' animo, e pel disinganno 
de' boni umani già provati, e per lo illanguidimento 
dell'amor proprio che va di pari colla quasi diminu- 
zione e raffreddamento (3268) della vita, non e ca- 
pace se non di lievoli desideri!, e quindi si contenta 
di propor loro uno scopo lontano e in esso tornarli, 
e i suoi desideri! si contentano di rimanervi; per a 
diuturna esperienza fatta della vanità e del tristo 
esito delle speranze, con un quasi stratagemma le 
indirizza a luoghi cosi lontani ch'elle non possano, 
so non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli 
e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione pro- 
pria dell'età sua, rimettendo ogni azione al dipoi, e 
costretto di rimetterò eziandio e quasi ditìeriro le 
sue speranze, e gli oggetti de' suoi desideru, e il 
loro conseguimento ch'ei si propone, o oh'ei si com- 



r 



<28é PE Xsirani (3268-3269-3270Ì 

piace, per dir meglio, di vagheggiare; e per Patito 
della tardità e lentezza Dell'operare a cui la gravosa! 
e 1' impotenza dell' età lo costringe, e per la pigrizia 
e negligenza o torpore dell' animo che ne deriva e 
n'è pur cagione, i suoi desiderii altresì e le sue spe- 
ranze ne divengono tarde e pigre e lente e quasi tra- 
scurato (benché sempre però bastantemente vive per 
mantenerlo e quasi allattarlo, corno alla vita umana 
(3269) indispensabilmente ricorcasi), ed ei giungo a 
persuadersi fra se stesso non con l'intelletto, ma con 
r ini maginazione e con la non ragionata abitudine 
dell' altre facoltà del suo spirito, che il tempo e lu- 
natura e le coso sian divenuto ed abbiano a riusci, 
cosi lente e pigro coni' esso necessariamente è (26 
agosto 1828); 

♦-•Il poeta lirico nell'ispirazione, il filosofo nella 
sublimità della speculazione, l'uomo d'immaginativa 
e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l'uomo 
qualunque nel punto di una forte passione, nell'en- 
tusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezza- 
namente riscaldato dal vino, vedo e guarda le cose come 
da mi luogo alto e superiore a quello in che la mente 
degli uomini suole ordinariamente consistere. Quindi 

0 che scoprendo in un sol tratto molte più coso ch'egti 
non è usato di scorgere a un tempo, e d'un sol colpo 
d occhio discornendo o mirando una moltitudine di 
oggetti, ben da lui veduti più volte ciascuno, ma non 
mai tutti insieme (se non in altro simili congiunture), 
egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti 
scambievoli o per la novità di quella moltitudine 
(3270) di oggetti tutti insieme rappresentantisegli, 
«gli e attirato o a considerare, benché rapidamente, 

1 detti oggetti meglio che por l' innanzi non averi 
fatto, e eh' egli non suole; e a voler guardare e no- 
tare i detti rapporti. Ond'è ch'egli ed abbia in quel 
momento una straordinaria facoltà di generalizzare 



286 

(3270-3271) fe__i_i__ ______ 

tlia almeno relativamente a lui ed all'or- 
£ no del 8 uo animo), e ch'egli l'adoperi; 6 ^ 
Lia scuopra di quello generali e pei cu, 

fc ttHLdi o importanti, che indarno fuor di 
C Punto e di quella ispirazione o quasi !-- ? 
^"filosofico o passionato o poetico 0 altro 
damo dieo, con lunghissime e pazientisene ed «at- 
Se ricerche, esperienze, co ,ȣ ^^ggJT 
menti meditazioni, esercizi della mente dell ingegno 
E facoltà di pensare di riflettere ^ osserva ed 
ragionare indarno, ripoto, non solo quel tal uomo 
S filosofo, ma uaW altro o poeta o mge- 
°no p^nque ò filosofo acutissimo « penetrassimo 
anzi pur molti filosofi insieme cospiranti e i secoli 
ZIZl successivo avanzamento dello sparto — , 
cercherebbero di scoprire o d'intendere o *>g£H* 
siccome (3271) colui, mirando a ^ "J^ 1 ^ 
facilmente o perfettamente e pienamente fa a se desso 
in quel punto, e di poi a se stesso ed agli altri pu 
eh' ei sia capace di ben esprimere i propri concetti, 
f£ blT 3 e chiaramente e distintamente presti 
le coso allora concepito e sentite (2fa agosto 1823). 

* Secondo ch'io osservo ') e che si 
colle ragioni da me recate in altri luoghi, 1 abito 
' compatire, quello di beneficare o d, operare in qua- 
lunque modo per altrui, e mancando ancora la face a 
l'inclinazione alla beneficenza e all'adoperarsi in 
degli altri, sono sempre (supposta la parità delle ^altie 
circostanze di carattere o indole, educazione, coltura 
di spirito o rozzezza, e simili cose) in ragion diretta 
della forza, della felicità, del poco o muri bisogno 
che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui ed m 
proporzione inversa della debolezza, della infelicità, 
dell'esperienza dello sventure e dei mah, sieno passati, 

') Veggansi le imgg- 3765-8. 



pensieri (3271-3272-3273) 

o massimamente presenti, del bisogno che l'uomo h a 
degli altrui soccorsi ed uffici. Quanto più V mmo è 
in fatato di esser (3272) soggetto di compassione o 
di bramarla, o di esigerla, e quanto più egli la brami 
e 1' osigo, ancho a torto, e si persuado di meritarla 
tanto meno egli compatisce, peroeck' egli allora ri- 
volge in se stesso tutta la naturai facoltà o tutta 
l'abitudine, che forse per lo innanzi egli aveva, di 
compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della 
beneficenza altrui, tanto meno egli è, non pur bene- 
fico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli non 
solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che 
dagli altri desidera o pretende, o crede a torto o a 
ragione di meritaro, o di abbisognarne. L' uomo de- 
bole o sempre bisognoso di quegli uffici maggiori 
o minori che si ricevono e si rendono nella società, 
e che sono il principale oggetto a cui la sociotà ò 
destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe ser- 
virò la scambievole comunione degli uomini; pochis- 
simo o nulla inclina a prestar la sua opera altrui, 
c di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, 
ancor dov'ei può, ed ancora agli uomini pili deboli e 
più bisognosi di lui. L'uomo assuefatto alle sventure, 
e (3273) massime quegli a cui Ja vita è sinonimo e 
compagno del patimento, nulla sono mossi, o del tutto I 
inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri 
mali e travagli e dolori. L'amor proprio in un ossero 
infelice è troppo occupato perdi' egli possa dividero 
il suo interesse tra questo essere e i di lui simili. 
Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue I 
proprie sventure; sieno pur molto minori di quelle 
che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. 
So le proprie sventure sono presenti, la compassione, 
come ho detto, tutta rivolta e impiegata sopra se stesso, 
in osso Ini si consuma, e nulla n'avanza per gli altri. 
Se sono passate, posto ancora cho piccolissime fos- 
sero , la rimembranza di osse fa che l' uomo non 



(3273-3274-3275) PENSnSKI __ 287 

KTnulla di straordinario né di terribile no' pa- 
timenti c disastri dogli altri, nulla che meriti di 
Lio corno rinunziare al suo amor proprio por im- 
piegarlo in altrui beneficio; come già pratico del Bol- 
lire erti si contenta di consigliar tacitamente e fra 
«e «tosso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte, 
| S i credo in diritto di esigerlo, quasi (3274) egli 
medesimo n'avesse già dato l'esempio;- perocché cia- 
scuno in qualche modo si persuade di aver tollerato 
h di tollerare lo suo disgrazie e lo sue pene viril- 
mente al possibile, e con maggior costanza, che gli 
altri o almeno il più degli uomini, nel caso suo, non 
farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa 
che ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o 
essoi-o stato indegno do' mali ch'ei sostiene o sostenne. 
Oltre di che l'abito d'insensibilità verso 1 altrui scia- 
gure contratto nel tempo eh' ei fu sventurato, non e 
facile a dispogliarsene, si perdi' esso è troppo con- 
formo all'amor proprio, che vuol dire alla natura del- 
l'uomo, si perché grande o profonda è l'impressione 
: che fa nel mortale la sventura, e quindi durevole 
l'effetto cho produce e che lascia, e ben sovente de- 
cisivo del suo caratteri per tutta la vita, e perpetuo. 

Io osservo (e n' ho presento a me stesso non un 
solo esempio), che i giovani non poveri, o non op- 
pressi né avviliti dalla povertà, sani e robusti di 
corpo, coraggiosi, attivi, (3275) capaci di fornir da so 
stessi a' loro bisogni, e poco o nulla necessitosi, ov- 
ver poco o nulla ' desiderosi degli altrui soccorsi e 
dell'altrui opera o fisica o morale, almeno abitual- 
mente ; non tocchi ancora dalla sventura, o piuttosto 
(giacché qual'ò l'uomo nato che già non abbia sof- 
ferto?) tocchi da essa in modo ch'essi pel vigore della 
età e della complessione, e per la freschezza delle forze 
dell'animo, la scuotono da se, e poco caso no tanno; 
questi tali giovani, dico, ancorché da una parte in- 
tolleranti fin della' menoma ingiuria, ed anche prò- 



288 



PENSIERI (3275-3276-3277) 



clivi all'ini; inclinati ed usi di motteggi Lire i pr J 
senti e gli assenti ancor più ohe gli altri non tì0 no- 
soverchiatori anzi che no, sia di parole, sia d'opere 
eziandio ;- vedi p. 3282-3942, dall'altra parte, ancor- 
ché abbandonati da tutti, e forso da quelli stossi che 
avrebbero il più sacro dovero di prenderno cura, an- 
corché sperimentati nella ingratitudine degli uomini, 
e fatti accorti per prova della ninna utilità e gra- 
zia, ed eziandio dol danno, che spesso risulta dal far 
beneficio ; ancorché pronti e perspicaci d' ingogno, e 
non ignari del mondo, e ben consapevoli quanto il 
costume degli uomini sia rimoto dal beneficare e dal 
compatire, e quanto altresì (3276) le loro opinioni ne 
gli allontanino, o quanto gli uomini sieno genoral- 
mente indegni ch'altri ne prendano cura; con tutto 
ciò questi tali sono prontissimi a compatire, dispo- 
stissimi a sovvenire agli altrui mali, inclinatissiini a 
beneficare, a prestar l'opera loro a chi no li richiede, 
ancorché indegno, a profferirla pure spontaneamente, 
sforzando l'altrui ripugnanza d'accettarla e conoscendo 
quella di ricercarla ; apparecchiati senza riservo o 
senza cerimonie ai bisogni ed a procurare i vantaggi 
degli amici : ed in effetto sono quasi continuamente 
occupati per altrui più che per se stessi ; le più volte 
in piccoli, ma pur faticosi, noiosi, diffìcili uffizi e 
servigi, la cui moltiplicità, se non altro, componsa la 
piccolezza di ciascuno ; talora eziandio in cose grandi 
o notabili e che richieggono grandi o notabili cure, 
fatiche ed anche sacrifizi. E ciò facondo, né presso 
se stessi, ne presso i beneficati, né presso gli altri 
attaccano un gran pregio ai loro servigi, né gran 
conto ne fanno, né se ne reputano di gran merito 
(quasi accecati e dissennati da Giove, corno dice 
Omero di Glauco quand' egli scamhiò le sue armi 
d'oro con quelle del Tidide ch'erano di rame): di 
più poca o niuna gratitudine esigono, quasi ei fos- 
sore stati tenuti a beneficare, (3277) o nulla avesse 



PENSIERI 



289 



Joro costalo il benefizio ; non mai si credono in di- 
ritto di ripetere il benefizio, o, costretti a farlo, lo 
fauno con grandissima riserva e senza pretensione 
alcuna, e riavendone puro una parte, o domandata o 
spontanea, si tengono per obbligati essi a chi gli ul- 
to» da loro prestatigli scarsamente rimunerò. 

\ Tutto questo o parte, più o meno, nr è avvenuto 
li notare ne' giovani della qualità sopra descritta, e 
non solo in quelli elio per inesperienza elei mondo e 
gentilezza di natura, con pienezza di cuore e con buona 
fedo e semplieemonro sono trasportati versola virtù, 
la generosità, la magnanimità, ponendo il loro mag- 
gior piacerò o desiderio nel far bene e negli atti 
eroici, e nella rinogazione e rinunzia e sacrificio di 
se stossi ; ma eziandio, né disingannati del mondo e 
posti in quelle circostanze che di sopra ho notate o 
in alcune di esse o in altre somiglianti. Tatto ciò, 
.dico, ho notato avvenire in questi cotali giovani, 
mentre essi godono e sentono i vantaggi della gio- 
ventù, della sanità, del vigore, e sono in istato da 
bastare a so stessi. Ma o coll'età (3278) o innanzi 
all'età, sopravvenendo loro di quegl' incomodi, di quegli 
accidenti, di quei casi, 'di que' disastri fisici o morali, 
da natura o da fortuna, elio tolgano loro il bastare a 
se medesimi, elio li renda abitualmente o spesso bi- 
sognosi dell'opera e dell'aiuto altrui, che scomi o di- 
strugga in essi il vigore del corpo, e seco quello 
dell' animo ; questi tali, come ho pur veduto per ispe- 
rienza, di misericordiosi o benefici divengono a poco 
a poco, in proporzione dell'accennato cambiamento di 
circostanze, insensibili agli altrui mali, o bisogni, o 
comodi, solleciti solamente dei proprii, chiusi alla 
compassione, dimontichi della beneficenza, e intera- 
mente circa l'ima e circa l'altra cangiati e vòlti in 
contrario, si di costumi, si di disposizione d' animo. 
Né solo a poco a poco, ma eziandio rapidamente o 
Ttasi in un tratto, e nello stesso fiore della giovanezza, 

Leopahui. — Pensieri, V. 10 



290 



PENSIERI (3278-3279-3280) 



lio io veduto accadere tale cangiamento in persone 
sopravvenute da improvvisa o rapida calamità di corpo 
o di spirito o di fortuna, ondo il' loro animo fu attor- 
rato e prostrato, subitamente o in poca d'ora, o crollato 
e penduto mal fermo, e la loro vita fu soggettata 
agi' incomodi e alla trista necessità dell'aiuto altrui, 
(3279) e la sanità scossa, o il corpo svigorito, e si- 
mili coso contrario alla loro prima condizione. In- 
somma, al subito o rapido cangiamento delle circo- 
stanze sopra notate, lio veduto con pari subitaneità 
o rapidità corrispondere il cangiamento del cai-attore 
e costume di tali persone rispetto al compatire, al 
beneficare c all'adoperarsi in qualunque modo per 
altrui. 

E quelli che da natura, o per qualunque cagione, 
fin dalla fanciullezza o dalla prima giovanezza e dal 
primo loro ingresso nel mondo son tali quali i so- 
praddotti divennero, cioè deboli di corpo e di spirito, 
timidi, irresoluti, avviliti dalla povertà o da qualsi- 
voglia altra causa fisica o inorale, estrinseca o intrin- 
seca, naturalo in loro o accidentale e avventizia; sem- 
pre o sovente bisognosi dell'opera altrui, avvezzi fin dal 
principio a soffrire, a mal riuscire nelle loro intra- 
prese, o ne' desiderii loro, e quindi a sempre scon- 
fidai' delle coso c dolla vita e dei successi, e quindi 
privi di confidenza in se medesimi ; più domestici 
del timore o della trista espettazione che della spe- 
ranza; questi tali, e quelli elio loro somigliano in 
tutto o in parte, sono più o meno, fin dal principio 
della loro vita o fino dalla loro ontrata (3280) nella 
società, alieni o dall' abito e dagli atti della compas- 
sione e della beneficenza, e dalla inclinazione o di- 
sposiziono a queste virtù; interessati per so soli, poco 
o nulla capaci d : interessarsi per gli altri, o sventu- 
rati o bisognosi, o degni o indegni che siono dell'aiuto 
altrui, meno ancora capaci di operare per olii clic 
sia ; poco o nulla per conseguenza atti alla vera ed 



(3280-3281-3282! ri^sii-nn 291 

«jficaoe ed operosa amicizia, ben simulatori di essa 
per ottenerne ciarli altri gli aiuti o la pietà di che 
hanno mestieri, ed abili a farla servire ai soli loro 
vantaci; .simulatori o dissimulatori eziandio gene- 
ralmeuto in ogni altra cosa. E queste qualità diven- 
gono in loro caratteristiche, di modo che l'amor pro- 
prìo non e in essi altro mai ch'egoismo, o l'egoismo 
è il loro cai-attore principalissimo; ma non veramente 
per colpa loro, piuttosto per necessità di natura ; e 
neanche [ter natura che di sua mano immediatamonto 
abbia posto negli animi loro più che negli altri questo 
pessimo vizio, ma perché dalle circostanze in che essi 
o per natura o per accidente si sono trovati fin dal 
principio, 1 328 1 ) nasce naturalmente c necessariamonte 
questo tal vizio, l'orso più necessariamente e inevita- 
bilmente c maggiore che da verun'altra cagiono. Vedi 
p. 3846. 

Da'quali pensieri si dee raccogliere questo corolla- 
rio, che le donno, essendo per natura pivi deboli di corpo 
c d'animo, e quindi più timido o più bisognose dell'opera 
altrui che gli uomini non sono. sono ancho generalmente 
e naturalmente meno degli uomini inclinate alla com- 
passione e alla beneficenza, non altrimenti eli' elle, 
per universale consenso, sieno generalmente e regolar- 
mente meno schiette dogli uomini, più proclivi alla 
menzogna e all'inganno, più feconde di frodi, più si- 
mulatrici, più finte; tutte qualità, con molte altre 
analoghe (che nelle donno generalmente si osservano), 
derivanti per natura, niente più niente meno che la 
sopraddetta, dalla debolezza d' animo e di corpo e 
dall' insufficienza dolle proprie forze, de' propri mezzi 
0 di so stesso a se stesso. K si può concludere che le 
donne sono, generalmente parlando, più egoiste degli 
Uomini, o più portate all'egoismo por natura (sebbene 
le circostanze sociali che spesso rovesciano la natura, 
e fanno (3282) talora le donno, anche prima che ab- 
ituici formato il loro carattere, signore degli uomini, 



202 l'KNSiRiu (3282-3283) 

oggetti dello lor cure spontaneo, de' loro omaggi, sup- 
pliche ec, ec, possano ben render vana questa dispo- 
sizione), e naturalmente si troverà un maggior numero 
di donne egoiste che non d'uomini. Cosi le nazioni e 
i secoli più infelici, tiranneggiati oc. si vede costan- 
temente che furono e sono 1 più egoisti ec. oc. (2(5-27 
agosto 1823). Vedi p. 3291, 3361. 

* Alla p. 3275, margine. Anzi quanto più questi, 
tali son franchi, coraggiosi, non timidi dell' altrui 
aspetto né dell'altrui conversaziono , schietti, aperti, 
liberi noi parlare, nei modi, noli' operare, intolleranti 
di dissimulare o di mentire (anche, talvolta, ecces-; 
sivamente): e quanto più sono vendicativi dello in- 
giurie, fieri con chi gli offende o insulta o disprozza 
o danneggia, quanto mono molli o facili ai nemici, 
agi' invidiosi, ai detrattori, ai maldicenti, agli oltrag- 
giatori, agli offenditori qualunque ; ed eziandio quanto 
più pendono a una certa soverchieria di parole o di 
fatti verso chi non è né compassionevole né bisognoso, 
amico o indifferente o nemico che sia ; proclivi o fa- 
cili all'ira, anche durevole; tanto più sono misericor- 
diosi e benefici verso gli amici o gli indifferenti (dan- 
dosene loro 1' occorrenza e la facoltà ec, e in questi 
il bisogno o 1' utilità ec.), o verso i nemici stessi e 
gli offenditori, vinti che sieno, o già puniti, o chie- 
denti scusa o perdono, o riparata che hanno 1' offesa, 
o anche senz'altro caduti in grave disgrazia o bisogno, 
ed avviliti ec. (tale fu Giulio Cesare, come si vede in 
Svetonio). E il contrario accade negli uomini di con- 
traria qualità: (3283) il contrario, dico, si quanto al- 
compatire o beneficare chi che sia, si quanto al rimet- 
tere o dimenticare le ingiurio. E di contraria qualità 
sono gli uomini timidi, di maniere legate, deboli ili 
corpo e d'animo ec, quali ho descritti a pagg. 3279-80 
(27 agosto 1823). 



(3283-3284; PENSIERI^ _____ __ __ 

mconfidito da confingo-conftetus o dal semplice 

* issare o /wrtre, Recare, ^tor, Jtxer, fieher, da. figo- 

f nv . Affinare, o da 

E cw/fr/o oc ^orao anche /ito snstantivo e affittare 
U d'altronde vengono che da .^«s, altro participio 
di ,;, /0 , traendo il nome -dall'avviso pubblico che s noie 
Lw« ali, sua casa o a' cantoni della citta ec. chi 
Sole affittare essa casa, o possessioni, terre ec; il 
Lle avviso o avvisi pubblicamente affitti n chiamano 
in franceso affiches, da noi volgarmente ,#.«. Sebbene 
la preposizione « in <tf*»« sembra essere espressa- 
Lente a-iunta al sostantivo jìtóo per esprimere il dare 
nUcome ni francese ^ da /e«e, e tra n 
volgarmente enotere (3284) da nolo Vegga* per tutto 
le suddette voci il glossario se ha nulla (27 ago- 
sto 1K23). 

* Al detto da me circa 1' anomalo participio arso 
' che il Perticar! credo di ornare e non di ardere, del 
quale egli è puro in latino, cioè di ardeo ar««; si 
può aggiungere che la lingua italiana (ed anche le 
sue sorelle) bene spesso, secondo che la lingua latina 
ha diversi participi! d> un solo verbo diversi n ha 
ella pure, cioè quelli stessi che ha la latina, regolari 
o irregolari che siano quanto all'analogia latina o ita- 
liana. Ter esempio da figo-fixus-fictus, jiggere-fisso, 
fitto. Talvolta ella ha quello ohe corrisponde ali ana- 
logia italiana, e insieme quello che il verbo ha nel 
latino, sia regolare participio o anomalo m esso a- 
. tino. Del che ho detto altrove. Talvolta ec. ec. (27 
agosto 1823). 

* La lingua greca, secondo che si può vedere a 
p. 2774-2777, e più largamente o distintamente per 
capi presso i grammatici, ebbe in costume di alte- 



2 94 l'ENSrrcm (3284-3285-3286) 

rare notabilmente le sue radici, ') per esempio i teil 
de' suoi verbi, anche fuori affatto dei casi di deriva- 
zione e di composizione, e senza punto alterarne il 
significato, ma (3286) semplicemente la forma estrin- 
seca e gli elementi del vocabolo. Ondo i verbi j n .» li 
trasmutavano in verbi in u, 1; dei temi ad altri aggiunì 
gevano le lettere av, o li facevano terminare in «v«3 
ad altri aiv, e li terminavano in «ivo), ad altri zv~4> 
e li finivano in axoi ( ma questi non erano sempre al- 
terati dal tema, ma da un altro tempo del verbo: 
vedi i grammatici), ad altri duplicavano la primi 
consonante, interponendo una vocale, corno l'iota 
(jttnpàoxu») ec. Spesso si mutava la desinenza, vol- 
gendola in E{u> ec. senza mutazione di significato: v:,u- 
oàai-vejieotfa,, Birctto-gaittJt*, ec. ec. E di questi verbi 
e temi cosi alterati materialmente senz' alcun' altera! 
zione di significato, altri restarono soli venendo a 
mancare il tema o verbo primitivo e incorrotto, altri 
restarono insiome con questo, altri insieme con altri 
verbi fatti per tali alterazioni dal medesimo tema ec. eoi 
Ed altri interi, altri difettivi, suppliti dal verbo pri- '. 
mitivo in molte voci, anomali, regolari oc. ec, del che 
vedi i grammatici. E queste alterazioni do' verbi pri- 
mitivi e de' temi (e cosi dell'altre radici), alterazioni 
affatto diverse, distinte e indipendenti dalla deriva- 
zione e dalla composizione che anche nello altre lingue 
hanno luogo: alterazioni che per niun conto influivano 
né modificavano il significato (come influisce e modifica, 
o suole por lo più, e regolarmente fare , la composi- 
zione e la derivazione), non furono (3286) già nella lin- 
gua greca quasi casuali, rare, fuor di regola e di costu- 
me e d'ordino, quasi anomalie, aberrazioni, non proprio 

) Ciò o per In varietà de'dialetti, o per altro, in modo puro che la 
voci formate per tali alterazioni sono goneraltnento proprio degli »t;rit- ; 
torrgreof o do' poeti; ondo a noi partoriscono la stessa difficoltà, qiinl ss 
','-"„. , ral »' 1 ""' ) 0 '' o ri 8iao o quando questa pur lusso particolare, I" 
qimouKà Afta noi no viene è ordinaria e generate eo. 

*) Da k:^ o da iptOu tql 7X5fuu, dóppia alterazione. 



(3286-3287i iiswfe " Jh> 

Knalin-ua, ma frequentissime, ordinarie, usitate, abi- 
& o Scolari, «ri» fatto per regola, come appansce 
'ran numero di temi e verbi che si trovano alterati 
k questo o quello do' suddetti modi e degli altri die 
g 'ebbero dire; onde i grammatici distinguono 
siffatto alterazioni o modificazioni affatto material! 
- in molti diversi generi, e sotto ciascun genere radu- 
Hano un -ran numero di verbi o temi, in quella tal 
Lea uniformemente alterati dal primo loro essere. 
fLesta tal sorta di alterazione, questo modo di alte- 
rare le voci, indipendente e diverso affatto dal deri- 
vare e dal comporre, e del tutto scompagnato dalla 
mutazione o pur modificazione di senso, non si trova 
Unto nel latino; certo non vi si trova per costume 
né por regola né d'assai cosi frequente, ne cosi 
vario oc Perloché anello di qui si faccia ragione 
quanto più nel greco che nel latino sia difficile il 
rintracciare le origini, l'antichità, il primitivo o \ an- 
tico stato dello voci e della lingua, o della (32871 
grammatica, le radici, l'etimologie oc, Massime con- 
siderando che detta materialissima alterazione _ si _ la- 
tto» mica in uno o in duo, ma in molti diversissimi 
' modi, tutti però frequentatissimi e usatissimi; elio 
moltissimi verbi o vocaboli cosi alterati hanno man- 
dato in disuso i non alterati ec, die naturalmente 
moltissimi verbi cosi alterati, essendo perduti quelli 
della primitiva forma, saranno da noi creduti aver 
la forma primitiva, e pigliati per radici, quando non 
■ saranno che alterazioni di queste, più o mon lontane, 
mediate o immediate, maggiori o minori ec. ec. 

Usa ancora la lingua greca alcune derivazioni 
di voci, per esempio di verbi, ohe nulla pero cambiano 
il significato, e il non cambiarlo non è m esse ano- 
malia, o cosa non ordinaria, come lo sarebbe m la- 
tino, ma ordinaria e regolare. Voglio dir, per esempio, 
di quella maniera siracusana di formare dal perfetto 
de' tomi un nuovo verbo, come da ™W,v.« di *v«» 



236 



pensieri (3287-3288-3289) 



l'aro TsS-vf|Kuj, da £o«]xa di oxàui, éai'fjv.iu, da nsiouxa di 
ifiim, itsyóxto (e queste maniero, con siffatti verbi, BO no 
ricevuti!, massima da' poeti, ma anche da' prosa- 
tori greci, generalmente) ; e di queir altra manieri 
greca di l'are dal futuro primo de' tomi un nuovo 
verbo, aggiungendovi il %, conio da xpii*» (inusitato] 
Tpiicoj, Tfióav.uj inusitato, ondo TiTpioay.cu. (vodi i gramma- 
tici se però è vera questa maniera, e non piuttosto si 
fa, per esempio, Tpiócxio dal tema stesso, cioè , in- 
terpostovi or., come da ?C«> ì£óvu>, interposto (3288) l'av- 
verbio ec.ec). Questo o tali altro molte derivazioni senza 
cambiamenti di significato, che perciò appunto hanno 
contribuito sommamente a perdere o distruggerò le voci 
originarie, e contribuiscono a nasconderle, e renderno 
difficile F investigazione e confondere l'erudito, e di- 
videre i grammatici in cento diversi sistemi c opi- 
nioni, si circa le regole più o men generali, si circa 
le particolari etimologie ee. ec; non hanno luogo nella 
lingua latina, o certo assai meno senza confronto oc. oc. 
(27 agosto 1823). 

* Ajwtter quasi adiunctare, aggiuntava, spagnuolo 
jimtar, da adiungere. Anche il nostro giuntare, è da 
iungerc. Vedi la Crusca in Giungere , § 7 e il glos- 
sario in iunctare, adiunctare. ec. se ha nulla (28 ago- 
sto 1823). 

* Succenseo è verbo, secondo me, indubitamente for- 
mato dal participio in us d'altro verbo, cioè di suo* 
cendo (vedi anche il Porcellini in Censeo, fine). Ma 
oltre al non essore della prima maniera, ei non solo 
non è di senso continuativo, ma è neutro nel mentre 
che succendo è attivo. Onde nulla ha cho fare colla 
nostra teoria : se non eh' è notabile, come fatto da un 
participio passivo, della qua! formaziono (3289) non 
mi ricordo adesso altro esempio che sia fuori del nu- 
mero de' nostri continuativi e frequentativi (28 ago- 
sto 1823). 



297 

(3289-3293' _-' 

^Wor «W- ftr-art-fto* -Verbo 
Lmo con «, e s' altro yo n ha (fato 

da ,m toma monosillabo), dove Va del participio 

R»*» si muti, nella formazione del continua* 
l tivo, in /: a-osto 1823). 

' * Mi-i li 3246. *Wwp> a< da f«/o il (vedi Forcel- 
U „iì to nata etimologia 6 vera (noi abbiamo g», 
Rimonte fali<,a, trance se spaglinolo JU«a. 
' So ( Sta sia li radice di tal verbo ? Certo ella è 
, voce comune a tutte tre le VW *f^™j£ 
' caso dovrei»!»' olla esserlo ancora di fatecc pe «« 
; ^o ì il che non parrebbe probabile. Vedi U glos- 
C; selm nulla). ^ ha dal participio ^ 
-v acMo, e dall'antico e rog lai 
Potato continuativo o frequentativo ^ ^ ° r " 

: Uff* «« I»H8a aver nulla che tare con questo discolo 
|' (28 agosto 1S23). 

* Sogliono le opere umane servire di modello sue- 
I cesiamente l'uno all'altre, e cosi a poco a poco pe , - 
: legnandosi il genere, e ciascuna opera o le p g 

d'esse riuscendo migliori de' loro modelli fino a l in 
: toro perfezionamento, il primo modello apparire ed 
essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte 
V altre, per infine alla decadenza e corruzione d esso 
genere', che suole altresì ordinariamente succedere 
all'ultima sua perfezione. Non cosi nell epopea; ma 
per lo contrario il primo poema epico, cioè 1 litote, 
' che fu modello di tutti gli altri, si trova essere il pm 
perfetto di tutta. Più perfetto dico nel modo che ho 
dimostrato parlando della vera idea del poema epico, 
p. 3095-3169. Secondo le quali osservazioni da me 
fatte si può anzi diro che siccome l'ultima perfezione 
dell'epopea (almen quanto all'insieme e all'idea della 
medesima) si trova nel primo poema epico che si co- 
nosca, cosi la decadenza e corruzione di qnosto ge- 



pensieri (3290-329 1-3292) 

nere incominciò non pili tardi che subito dopo il 
primo poema epico a- noi noto. Similmente negli altri 
generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti 
modelli ed opere sono le più antiche, o assolutamente 
parlando, o relativamente alle nazioni e letterature 
particolari, (3291) come tra noi la Commedia di Danto 
è nel suo gonere, siccome la prima, cosi anche la 
miglioro opera (28 agosto 1823). 

* Alla p. 3282. Bisogna distinguere tra egoismo 
e amor proprio. Il primo non ò clic una specie del 
secondo. L' egoismo ò quando l' uomo ripone il suo 
amor proprio in non pensare che a se stesso, non ope- 
rare che per se stesso immediatamente, rigettando 
P operare per altrui con intenzione lontana o non bon 
distinta dall' operante, ma reale, saldissima e conti- 
nua, d'indirizzare quelle medesime operazioni a so 
stesso come ad ultimo ed unico vero fino, il che l'amor 
proprio può ben faro e fa. Ho detto altrove che l'amor 
proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è 
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto mag- 
giore quanto è maggiore la forza e l'attività del- 
l'animo, e del corpo ancora. Ma questo, ch'è verissimo 
dell' amor proprio, non è né si dove intendere del- 
l'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini 
poco sensibili e poco immaginosi sarebbero meno 
egoisti dei fanciulli e dei giovani, degli antichi, degli 
uomini sensibili e di forte immaginazione. (3292) Il 
che si trova essere appunto il contrario. Ma non già 
quanto all' amor proprio. Perocché 1' amor proprio è 
veramente maggioro assai ne 1 fanciulli e ne' giovani 
che ne' maturi o ne' vecchi, maggioro negli uomini 
sensibili o immaginosi che ne' torpidi. >) I fanciulli, i 

) Clio l'amor proprio sin maggiore no' fanciulli o ne' piovani elio 
nell'altro età, segno «' l'i quella Infinita e sensibilissima tBueroisza verso 
w stessi, e (niella suscettibilità o sensibilità e delieatosaa intorno a se 
medesimi ohe coli' andar degli anni o coli' oso della vita proporzionata* 
niente si scema, e infine si suol perderò. 



(3292-3293) ^imtswn 

JtZni, gli uomini sensibili sono assai più teneri di 
Ressi che noi sono i loro contrai. Cosi genera - 
Luto furono gli antichi rispetto ai moderni, e i sei- 
K rispettosi civili, perché più forti di corpo prà 
Irti ed attivi o vivaci d'animo e d> immaginazione 
TU le circostante fìsiche, si per le morali), meno 
disingannati, e insomma maggiormente e pra inten- 
Kmente viventi (dal che seguirebbe che gli antichi 
fossero stati più infelici generalmente de moderni 
secondo che la infelicità è in propomon diret^ . de» 
Caggiore amor proprio, come altrove ho ino sa io 
L l'occupazione e l'uso delle proprie fox», la ^«tor 
Sene e simili cose, essendo state infinitamente mag- 
giori in antico che oggidì; e il maggior grado di 
vita ivtrvmv. essendo stato anticamente più che m 
(3293) proporzione del maggior grado di vita inte- 
re, resta, come ho in mille luoghi provato, che gli 
antichi fossero anzi mille volte meno infelici do mo- 
derni: o similmente ragionisi de' selvaggi e de ci ■ - 
li: non cosi de" giovani e de' vecchi oggidì, perche 
a' giovani presentemente è interdetto il selciente n o 
delle proprie forze e la vita esterna della quale tan o 
ha quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la 
quale e per l'altre cagioni da me in più luogh i accen- 
nate, maggiore presentemente e 1 infelicità del gio- 
vane che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso 
Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto a! 

forti, e simili). ' ■ „„„ 

II sacrifizio di se stesso e dell'amor proprio qua- 

: lunque sia questo sacrifizio, non potendo esser tatto 
(come niun' altra opera umana) se non dall ainoi pro- 
prio medesimo, e d> altronde essendo opera straordi- 
naria, sopra natura, e più che animale (certo m ninno 
altro animale o ente non se ne vede esempio se non 
nell'uomo), anzi più ancora che umana, ha bisogno 
di una grandissima e straordinaria forza e abbondanza 
di amor proprio. Quindi è che dove maggiormente 



300 _j>ENSiwii ^ (3294-3295) 

(3294) abbonda l'amor proprio, e dov'egli ha mZ 
gior forza, quivi più frequenti e maggiori siano i «a- 
crihzi di se stesso, la compassione, l'abito l'inclina- 
tone e gli atti di beneficenza (vedi a questo proposito' 
le pagine 3107-9, 3117-19, 3153-4, 3167-9). Ond'é 
che tutto questo debba trovarsi, e si trovi infatti, mag- 
giore e più frequente ne' giovani, negli antichi; nocli 
uomini sensibili e d'animo vivo, e finalmente ne -li 
nomini, i quali l laim0 , generalmente parlando, mag- 
gior quantità e forza d'amor proprio e minore d' egoi- 
smo; di quello che ne' maturi o ne' vecchi, ne' mo- 
derni (eccetto quanto alla compassione, come ho detto 
no luoghi qui sopra citati; perché gli antichi non si 
sacrificavano elio principalmente per la patria), ne' tor- 
pidi e insensibili c duri e d'animo tardo e morto e 
per nne nello donne; i qua li in genere hanno maggior 
quantità e forza d'egoismo, c minore d'amor proprio 
Restringendo il discorso conchiudo in primo luogo 
tanto esser lungi che l'egoismo sia in proporzion di- 
retta dell amor proprio, eh' egli (3295) n' è anzi in 
proporziono mversa; egli è segno ed effetto o della 
scarsezza e languidezza primitiva, o dello scoiamento 
e afhovolimento dell' amor proprio ; egli abbonda 
maggiormente ed è maggiore ne' secoli, ne' popoli nel 
sesso, negì' individui e nelle età di questi, in che la 
vita o minore, o quindi l'amor proprio pili scarso, più 
debole e freddo. 

Conchiudo in secondo luogo che i vecchi e ma- 
turi, i moderni, gl'insonsibili, le donno hanno mag- 
giore egoismo e minoro e men vivo amor proprio che i 
anciulh e i giovani, gli antichi, i sensibili, gli uomini 
(perocché quelli hanno men vita o vitalità, e l'egoi- 
smo è qualità o passione morta, ossia men vitale che 
si possa). ) E per questa cagione sono naturalmente e 

1' nomo' fZa^T, che lo «»«'<>. «vo-db mono vite <W 

..omo, crocci,,; !■„„„„ Inouo gpiHUl 0 pW ^ fl fl| ^fai*. 



(S295-3296-3297)_ E^SMSi 

LT^isposti e meno soliti di sacrificarsi por ehi o 
ohe che sia, di compatire ^ efficacemente o ineffi- 
Kromente di beneficare, di adoperarsi per altiui. il 
ts'ede effettivamente essere, e non p«ò negarsi 
ErettLto dicasi dei deboli e f ^ 
Ritualmente e degli abitualmente fortunati, o simi 
tutte qualità (3296) alle quali corrisponde e da e 
quali nasce in questi maggiore, in ^f\^7\- 
talità ed abito di maggiore o minore attività , e vite,.) 

Se non che potrà farsi un'eccezione m favor delle 
donne quanto alla compassione, massime inefficace. 
Po cché a questa, come s' è detto .^.^«J* 
qui dietro (p. 3294), si richiede o giova, non solo a 
maggior vita, e quindi la maggior quantità e foiza 
ffimor proprio, ma eziandio la maggiore raffinatezza 
o del Si d'esso amor proprio e dell'animo: nelle 
i« proprietà le donne sono forse, o c. rto son rip- 
to eli, superiori generalmente, e :n parità 4 .«£ 
costanze agli uomini. E cosi pure discorrasi de n o 
£S SpeL agli antichi. In tutto ci6 che ne la 
compassiono o nella beneficenza -^-de Piuttosto de 
licatézza o più delicatezza, finezza, e quasi abilita ea 
STo d'amor proprio, che vivacità, energia, terza 
e opia del medesimo, e che abbondanza 
di vite; in tutto ciò, dico, e in quello eh o ad e» 
^rtieue, le donne, i moderni e «ju# idto ^ 
predette qualità di deiicatezza sono loro analoghi, (3297) 

3to e non vive oc, flettono ayer *mm ^■&^tJg$& 

cresca i'eoolnnio, onde 1- estere il l>in inorganizznto na in cui il 

V "' "tintt ! 3* 1» lo cagioni, corno tofintaoono M pi* . g? 

, nfl „ W 8U l più o mopo deU-a.no» pwprin, e ,u «di « ota *. - 
„ onlndi anche della aiapoalrione nataralo. «la , tìiMrtóoro», 
lenza oc. Veggansi lo pagg. 2757-5, 2926, nn^JS, 



ili. (3297-3298) 

superano, ordintóamènte parlando, gli uomini, gli an- 
tichi, i selvaggi, i villani e cosi discorrendo Coni 
torme appunto allo cose detto nelle succitate pagine 
Und e elio le donne, in quanto più deboli e bi- 
sognose d altrui, sieno meno misericordioso e benefi- 
che dogli uomini; in quanto di corpo e d'animo più 
delicate al contrario. Ma in ciò quelle qualità, cioè 
la debolezza e il bisogno, credo die ordinariamente 
prevaghano e sieno di maggiore e più notabile effetto 
che questo, cioè la delicatezza e simili. Onde tutto 
insieme compensato, lo donne sieno in verità ' se- 
ralmente e per natura, più egoiste, e quindi meno 
misericordiose (massime in quanto alla compassione 
efficace) e meno benefiche degli uomini. Perocché 
molto maggior parte ha nella beneficenza, nella di- 
sposizione e nell'atto del sacrificar se stesso, e nel- 
l'esclusione dell'egoismo, l'intensità, la forza, l'ab- 
bondanza della vita, e quindi dell'amor proprio, che 
la delicatezza e raffinatezza dell'animo disgiunto dalla 
torza ed energia ed attività ed interna vivace vita del 
medesimo. E ciò non pur negli uomini rispetto (3298) 
allo donno, ma generalmente in olii che sia, rispetto 
a chi che sia ') (28 agosto 1823). Vedi p. 3314. 

* Circa il verbo pascito, e il regolare e primitivo 
participio di pasco ch'egli dimostra, cioè paseitus, poi 
contratto in pastus, vedi Porcellini in line di Com- 
pesco, eh' è un composto di Pasco (29 agosto 1823). 

* Distito <h disto, dimostrerebbe il suo participio 
distatits o il supino distatttm, se però quel continuativo 
o frequentativo è vero. Il superlativo statum di sto è 
noto. Del resto veggasi la p. 3848 (29 agosto 1823). 

eran toÌ^*L*r" d 1 i ' ,CM ' ai ,ln ' 1 *■* «ko''I«. mMrime Minella 
gran socieU, ,luV essere la piti egoista porgono urani,» (per natola o re- 
goIavi.ici.te pai-lamio) elio i>o 9 «a concepirai 



<3 298-3299) _ _MKBBttl ■ ■■■ V \ 1 

tluTp. 2843. Compesco, dispesco da . pasco. De- 
Mrpo, discerpo ec. da carpo (29 aguato 1823). 

I * Ofenso as (offemer), deferito as, dfmUo as {di- 
ìfensJé) da offJus, defensus di •#»*>( ^ 
. a g OS to 1823). 

• Pattare, impattare, empatar, non so s' abbiano a 
far nulla con paeiscor-pM. Veggàsi il glossano m 

I proposito (29 agosto 1823). 

* Alla p. 3072. I verbi latini ^^"g* 
Inariamoiite il participio in con «xgmhca to neutio. 
! Quieturus cioè qui quiescet (Svetomo in J^J^r 
i c XVI 5 2), tu»™ cioè qui moneto*, cosww, ci«« 
j 2 „i (3299) «cbt, cioè qui vivet, ft altri tali 
l infiniti. Perché non dunque M <^£"gg £ 

U cioè ? «i ceeidU (massimo avendovx il ve ale co 
Z us fatto, come altrove osservo, esser solito, dal 
SiSic in us) 8C? quando pur sembra clic quei 
|S3i in J 0 derivino o almeno «HQgWg 
participii rispettivi in us Quanto ,» '■«^•^SJjg 
},, st ' ragione , considerando che x loi paiticipn 
n «n ino paUvi ma attivi, non dovrà i *e gran 
maraviglia, nó parere incredibile, che anche i loro par- 
tii in * avessero, oltre il passivo significato, ezian- 

altri due suoi composti e da «nfccelta, vedi il loicel 

Sof^'s'io dico che i continuativi e i ireqnen- 
**hÌa iSvano da' participi in us, piuttosto che 
KpS/^S ^ o ìA -tendo dell'origine di que- 



304 



p ensieri (3299-3300-3301) 



sta formazione e de' suoi (3300) primi tempi e del- 
l' antichità ec. In séguito, quando anclie l'altre pro- 
prietà di tali verbi cosi formati erano già mai note 
trascurate, cambiate ec, come altrove ho detto non 
contendo, che chi voJesBe formare nuovi verbi di' que- 
sto genere non li formasse piuttosto dal supino ohe 
dal participio m us del verbo originale (sia che questo 
participio non esistesse più, 0 che fosse per anebe 
muso), o vero indifferentemente dall'uno o dall'altro- 
o che mancando ancora il supino, non facesse che se- 
guire 1 analogia degli altri verbi cosi formati Sola- 
mente osservo : 1", Glie non perché molti continuativi e 
frequentati*» cha si le S£°™ "egli scrittori dell'aureo 
bempo o de molto posteriori, non si trovino ne' più an- 
tichi, si dee perciò sempre o facilmente conchiudere 
eli essi fossero allora nuovi, o coniati appunto da 
quello o da quegli scrittori, o in quo] secolo in cui lo 
troviamo. 2°, Che l'uso di participi! in us di V6rbl 
neutri, e d'altri di verbi attivi in significati attivi, 
non fu solamente proprio dell'antichissima latinità 
ma anche dell'aurea o della declinante e corrotta 
eziandio (imo forse a passare allo lingue (3301) figlie- 
vedi la p. 3072), come apparisco dal luogo di Veììeio 
altrove da me notato, o dai varii esempii degli autori 
che usarono i cosiffatti participi! da me sparsamente 
notati (i quali esempi si possono vodere nel Porcel- 



ini), sia che li prendessero a uno a uno da' più an- 
tichi, o dall' uso d'ora, o che P uso durasse in ce- 
nere per tutti o quasi tutti i verbi neutri e attivi, 



ad arbitrio dello scrittore e del parlatore, o pur del- 
l' uno soltanto o dell' altro ec. (29 agosto 1823). 

staleT V'i° m0 5* qUaSÌ h,tt0 °^ ra doll ° circo- 
n lui Sì ; <1U K lte dl qrtelIe medesi ™ inali» che 
che non d altronde mai si credono poter derivare che 



"(3301-3302-3303) i'Knkikul _ 30 ^ 

dalla natura, né por ninn modo acquistarsi, a neces- 
sàriamente in Lui svilupparsi o comparire, non altro 
sieno in effetto elio acquisite, e tuli che nell'uomo 

• posto in diverso circostanze, non mai si sarebbero 
f sviluppato, né sarebbero comparsole per ninn modo 
i esistite: come la natura non ponga quasi (3302) ncl- 
U'uonio altro elio disposizioni, ond' egli possa essere 
[ tale o tale, ma ninna o quasi niuna qualità ponga in 
lini- di modo elio l'individuo non sia mai tale quale 

Igìi e, per natura, ma solo per natura possa esser 
talo. o ciò ben sovente in maniera che, secondo na- 
tura, tale ci non dovrobb' essere, anzi pur tutto l'op- 
■ posto: come insomma l'individuo divenga (e non na- 
| sca) quasi tuttociò ch'egli è, qualunque egli sia, cioè 

• sia divenuto. Qual cosa pare più naturale, più inar- 
i tifizialo, più spontanea, meno fattizia, più ingenita, 

mono acquistabile, più indipendente e più disgiunta 
dallo circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere 
di sensibilità con cui P uomo suol riguardare la donna, 
e la donna l'uomo, od essere trasportato l'uno verso 
l'altra; quel tal genere, dico, di affetti e di senti- 
menti elio l'uomo, e massimamente il giovane nella 
prima età, senz'ombra di artifizio, senza intervento 
di volontà, anzi tanto più quanto egli è più giovane, 
più semplice ed inesperto, e quanto meno il suo^ea- 
rattoro (3303) è stato modificato e influito dall'uso 
del mondo e dalla conversazione degli uomini e pra- 
tica della società, «noi provare alla vista o al pen- 
siero di doune giovani e belle, o nel trattenersi seco 
loro; o cosi le donno giovani cogli uomini giovani e 
belli ? quel trassailkment, queir emoziono, queir on- 
deggiamento e confusione di pensieri e di sentimenti 
tanto più indistinti e indefinibili quanto più vivi, 
che parto par che abbiano del materiale, parte dello 
spirituale, ma molto più di questo, in modo che par 
eh' egli appartengano interamente allo spirito, anzi 
alla più alta e più pura e più intima parte di esso? 

LftOF Aitili, — PettffÉWi, V. 2fl 



806 



Or questo genero di sentimenti e di affetti e di pon- 
siori, questa qualità del giovano, cioè questa tale 
sensibilità, o la facoltà ed abito di provare questi sif- 
fatti sentimenti, non è por ninn modo naturalo né 
innata, ma acquisita, ossia prodotta di pianta dalle 
circostanze, e tale che so queste non fossero state, 
V uomo neppùr conoscerebbe né potrebbe pur conce- 
pirò questa qualità, né anche sospettare d' esserne ca- 
pace. (3304) Il genere umano naturalmente è nudo, e, 
seguendo la natura, almeno in molte parti del globo, 
egli non avrebbe mai fatto uso de' vestimenti, sic- 
come lo vesti sono affatto ignote, per osempio, ai Ca- 
lifornia Né l'uomo né il giovane non avrebbe mai 
veduto né immaginato nelle donne (e cosi la donna 
negli uomini) nulla di nascosto. E nulla vedendo di 
nascosto, né potendo desiderare o sperar di vedere, 
o ben conoscendo fin dal principio la nudità e la for- 
ma dell'altro sesso, egli non avrebbe mai provato pol- 
la donna altro affetto, altro sentimento, altro deside- 
rio, che quello che per le lor femmine provano gli altri 
animali ; né avrebbe concepito intorno a lei altro pen- 
siero che quello di mescersi seco lei carnalmente : né 
l'aspetto o il pensiero o la compagnia della donna 
avrebbo in lui cagionato, neppnr nella primissima 
gioventù, verun altro effetto che un desiderio il più 
puramente o semplicemonte sensuale che possa mai 
dirsi, un impoto a soddisfare tal dosiderio, ed un 
piacoro (molto languido in so stesso per 1' abitudine 
e l' assuefazione incominciata sin dalla nascita, e 
sempre continuata) altrettanto carnale che quel de- 
siderio, e interamente, unicamente (3305) o manife- 
stissimamonto matoriale, cioè appartenente o d eri vanto 
dalla sola materia o dal senso, né pili né mono che 
quel piacere che in lui avrebbo prodotto la vista di 
un color rosso bello e vivo o altra tal sensazione; se 
non solamente che quel diletto sarebbe stato per na- 
tura maggioro di questi; siccome tra gli altri dilotti, 



'(3305-330G-3307) p e nsieri ^ 

feralmente o por circostanze, qual è maggioro 
tìnft l ò minore, non in so, ma rispetto agli uomini 0 
Lli animali, insomma agli esseri che h provano, o 
ne' quali ossi diletti nascono ed hanno 1' essere. 

Tale sarebbe stato l'uomo in natura per rispetto 
alla donna, o la donna per rispetto all'uomo. Ma in- 
trodotto l'uso do' vestimenti (e di più que' costumi e 
amilo le<ri fattizio od arbitrario di società che im- 
pediscono o diffidatane il torli di mezzo quando si 
voglia od occorra), la donna all' «omo (massime al 
, giovane inesperto) e l'uomo alla donna sono divenuti 
esseri quasi misteriosi. Le loro forme nascosto hanno 
lasciato luogo all'immaginazione di chi le mira cosi 
vestite. Per 1' altra (3306) parte l' inclinazione e il 
desiderio naturalo dell' un sesso verso l'altro non ha, 
per questo cangiamento di circostanze esteriori, po- 
tuto né cessare né scemare nel genere umano, mente 
più che negli altri animali. L'uomo dunque (e cosi 
la donna verso 1' uomo) si è veduto sommamente e 
sopra tutto le cose trasportato, coni' ei fu sempre, 
verso un essere il quale non più, come prima, se gii 
rappresentava e se gli ora sempre rappresentato di- 
nanzi tutto aperto e palese, e tale e tanto qua e e 
quanto osso ò; ma verso un essere quasi del tutto a 
lui nascosto, un essere che sin dalla sua nascita non 
so gli è rappresentato né agli occhi né al pensiero, 
o non suole rappresentarsegli, che velato tutto e quasi 
arcano. Ecco da una circostanza cosi estrinseca, cosi 
accidentale, cosi removibile, coni' è quella do vesti- 
menti, mutato affatto, massime nella fanciullezza e 
nella prima gioventù, il carattere e le qualità doli un 
sesso rispettivamente all'altro. La vista, ir pensiero, 
la conversazione di (3307) questo essere sopra tutti 
e invincibilmente amato e desiderato, ma le cui torme 
non cadono (almeno abitualmente) sotto i suoi sensi, 
e che por conseguenza, essendone celato lo formo 
(ohe sono si gran parte e dell' uomo e d' ogni cosa), 



(3307-3308) 



e di phi impeditane o fattane difficile la libera con- 
versaziono, e quindi anche l'intera conoscenza del suo 
arimo, costumi oc, per conseguenza, dico, è dive- 
nuto per lui tutto misterioso; il pensiero, dico, e la 
vista e il consorzio di questo essere l' immerge in 
una quantità di concezioni, d'immaginazioni, d'illu- 
sioni, di sentimenti vivissimi e profondissimi, porclió 
quell' essere gli è per natura dolcissimo e carissimo, 
ma nel tempo stesso confusissimi, incertissimi, per 
lo più falsissimi, sublimi, vasti, perché quel mede- 
simo essere trovandosi essergli quasi tutto misterioso 
e quasi cosa segreta ed occulta, i pensieri o i senti- 
menti eli' esso gli desta sono tutti capitalmente e 
quasi esclusivamente governati o modificati o figu- 
rati, e in gran parte prodotti e creati, dalla fantasia, 
e questa (3308) gagliardamente mossa. Nello stato 
naturale 1 ! inclinazione innata dell' uomo verso la 
donna, trovando tutto aporto e palese, e niun luogo 
avendovi alla immaginativa, ella non proci ucea che pen- 
sieri e sentimenti semplicissimi, distintissimi, chiaris- 
simi, materialissimi. Ora essa inclinazione, esso amoro 
ingenito e naturalmente fortissimo e ardentissimo, tro- 
vando il mistero, o i loro effetti congiungondosi nol- 
l'animo umano colla idea del mistero, o vogliamo dir 
con un'idea oscura e confusa, oscurissimi o confusissimi, 
ondeggianti, vaghi, indefiniti, cento volto meno sen- 
suali e carnali di prima (poiché la detta idea non viene 
immediatamente dal senso ec), o finalmente quasi 
mistici debbono essere i pensieri e gli affetti che ri- 
sultano da questa mescolanza di sommo desiderio 
e tendonza naturalo, o d' idea oscura dell' oggetto di 
tal desiderio e tendenza. ') E cosi da una circostanza 

') K perù 1' uomo si rappresola In donna in gonere, o in ispocio 
qnella ch'egli ama, corno cosa divina, etmit: un onto dì stirpo direna 
dulia alia ec. Psrocchtì la Datura gliela proponi? conio dcsuìm-abilissima « 
iiiiuUiilÌBHima. , liì eireoHlaiuo gliola rendono dusidoratissimn (perocoli 1 »i 
1\oì\ pnc\ i'acilmonte 116 subita ottenerli) ed eawe nitrosi gli nascondono 
quale ella sia teraiuente oc. 



ano 

(3308-3309-3310) viimmm 



Lu materiale, com'è inolia do' vestimenti (e come 
Za l'altro cagionato dai costumi o leggi sociali 
L donno), nasce nell'uomo un effetto il più spirituale 
rt309 ) quasi, che abbia mai luogo nel suo ammo; » 
wnsiori e i .sentimenti più sublimi e più nobili e più 
Lpri dello spirito, la persuasione di non esser mosso 
che da esso spirito ec. ec; da una circostanza cosi reale 
e visibile o determinata nascono in lui lo maggiori 
illusioni i più vaghi, incerti, indeterminati pensieri, 
la maggioro oporaziono della più fervida e più deli- 
rante e sognante immaginativa; da una circostanza 
cosi accidentale un effetto cosi intimo, cosi generale 
noi più de' giovani (almeno per un corto tempo), 
cosi costante, cosi connesso e proprio, a quel che 
pare del carattere dell'individuo; finalmente da una 
circostanza non naturale nasce un effetto che univer- 
salmente si considera come il più naturalo il più 
proprio dell' uomo, il più assolutamente inevitabile, 
il mono acquistabile, il meno fattibile, il meno produ- 
cibile da altra forza che dalla stessa mano della natura, 
il più congenito oc, secondo che ho detto di sopra. 

Cosi e per questo cagioni nacque noi genero umano 
tra 1' uno o l'altro sesso la tenorezza, la quale ì sel- 
vaggi non provano e non conoscono (né gli uomini 
primitivi provarono, né una nazione dove non s usino 
lo vestimenta ec. (3310) proverà o conoscerà mai) sic- 
come niun altro degli effetti sopra descritti, anzi nep- 
pure, propriamente parlando, l'amore, ma 1 ^ina- 
zione e T impoto da lei cagionato, l'wT» 1 abito e 
l'atto della tendenza; perché non è propriamente amore 
quello che noi ponghiamo, per esempio, ali oro e al 
danaro. Vedi p. 3636 o 3907. 

Altra prova delle proposizioni da me esposte nel 
principio di questo pensiero può essere, fra le mille, 
la seguente. Qual uomo civile udendo, eziandio la più 
allegra melodia, si sonte mai commuovere ad alle- 
grezza? non dico a darne segno di fuori, ma si sente 



310 



PKNS110RI 



(3310-331 1-33! 2 



puro internamente rallegrato, cioè concepisce quella 
passiono cho si chiama veramente gioia? Anzi ella è 
cosa osservata che oggidi qualunque musica general- 
mente, anche non di rado la alleare, sogliono ispirare e 
muoverò una malinconia, bensì dolco, ma ben diversa 
dalla gioia; una malinconia ed una passion d' animo 
che piuttosto cho versarsi al di fuori ama anzi per 
lo contrario di rannicchiarsi, concentrarsi, e restringo, 
per cosi dire, l'animo in se stesso quanto più può, e 
tanto più quanto ella è più forte, e maggioro l'effotto 
(3311) dolla musica; un sentimento cho serve anche 
di consolazione delle proprie sventure, anzi n' è il 
più efficace e soavo medicamento , ma non in altra 
guisa le consola, che col promuovere le lagrimo , o 
col persuadere e tirare dolcemente, ma imperiosa- 
mente, a piangere i propri mali anche, talvolta, gli 
uomini i più induriti sopra se stessi e sopra le lor 
proprie calamità. Insomma, generalmente parlando, 
oggidì, fra le nazioni civili, l'effetto della musica è il 
pianto, o tende al pianto (fors'anche talor di piacoro 
e di letizia, ma interna e simile quasi al doloro): e 
certo egli è mille volte piuttosto il pianto che il riso, 
ool quale anzi ei non ha mai o quasi mai nulla di si- 
mile. Questi effetti della musica su di noi ci paiono 
si naturali, si spontanei ec. oc, cho non pochi vor- 
ranno e vogliono che sia proprio assolutamente della 
natura umana l'essere in tal modo affetti dall'armonia 
e dalla melodia musicalo. 

Ora, tutto al contrario di quollo che avviene co- 
stantemente tra noi, sappiamo che (3312) i selvaggi, 
i barbari, i popoli non avvezzi alla musica o non av- 
vezzi alla nostra, in udirne qualche saggio prorom- 
pono in ècleOs di giubilo, in salti, in grida di gioia, 
Sri rompono dalle risa per la grande contentezza, e' 
insomma cadono in un entusiasmo e in un' intera e 
decisa ebbrietà e furore o smania di pura allegria 
(29-30 agosto 1828). 



311 

(33 1 2-33 1 3-33 1 4) ^jnMS*BM__ _ 

Tm t 7c «e. da wwo-wte. ^ *»f ? ^" 
L oc voUsi il ^tto da me nella teoria de' eon- 
Pa^i ^ca il verbo ptoi. Xfg^J* 
t r „reatus. Veggano ^«^'SSÌ 
[feionari francese e spaglinolo (31 agosto, ao 

1823). 

* Palulus sembra un diminutivo di p^, andato 
L piona dimenticanza, restando in sua vece ,1 dot to 
din inntìvo. - A quello che altrove ho detto di fai ala 
» ambo sieno diminutivi, o quello posavo 
Lesto diminutivo, aggiungi lW 
faculus positivi, bacUlum diminntwo. E ve d i luogo 
di Sant' Isidoro appo il Forcelhm m Bacdlum, (3313) 
fine (31 agosto 1823). 

* Circa quello che ho dotte altrove della melodia, 
: basti il tenore ohe il principio, pW*^^ 
lamento, ossia la ragione ormale dol peiehc ^ 
Svoglia successione melodiosa di tuoni sia ^<g"£ 
enarmonica successivamente; o 
prima fonte e ragione della convenienza ^ 
de' tuoni nella successione non fu e non è qy« ^ 
tro che l'assuefazione solamente la quak ben £è su_ 

libile di «f-^ * «^fS ^SiE 
nazioni, di applicazioni diversissime, ai aiv 

combinatora delle sue parti; ™\ % f°. t ^™™_ 
infatti avuto ed hanno continuamente Jag^g^ 
Sica e nelle composizioni del musico, il cui u h-o non 
è originariamente e principalmente alt o A*"" 
buon'uso delle assuefazioni generali g^LlTSto 
cioè la convenienza, successiva o ^^ ea ^ 
noto delle corde, dogli stromenti, voci ec, eo., servata 
" to o .io, ambievole degl'intervalli, ossia del 
tempo £n può il musico modificare in assaissimo 
giZ quosto assuefazioni, ma dee però sempre ricono- 
scerle (3314) e seguirlo è in loro mirare, come fon- 



i'emmei» (3314-3315) 

dainonlo e ragiono dell'arte sua (31 agosto dome- 
nica, 1823). 

* Alla p. 3298. Un uomo (o donna) di carattere na- 
turalmento pacifico, placido, quieto, riposato, ordinato 
inclinato a una certa pigrizia, è por natura portato 
all'egoismo. Quanto più l'uomo o per indole e condii 
zion primitiva, o per effetto dell'età, o per istanchezza 
del mondo, por disinganno ec. ama il riposo, la pace, 
l'ordine, l'uniformità della vita, è lontano dal calore' 
dai desideri: vivi, dai disegni vasti o impetuosi, o 
fervidi, o attivi oc, è dedito all'inazione, al metodo; 
anzi quanto più egli è tollerante dello ingiurio e degli 
stessi patimenti per debolezza d'animo o di corpo o 
d' ambedue, quanto è più disposto e solito di rinun- 
ziare al risentimento, di chinare il capo allo circo- 
stanze, alla necessità, di sacrificare o di posporrò qua- 
lunque cosa alla conservazione dolla sua quieto interna 
ed esterna o della sua inattività; quanto più l'uomo 
o vile e codardo; quanto più suolo appagarsi del 
presente, soddisfarsi di ciò che gii accade, pigliar le 
cose corno vengono; tanto mono egli è disposto e so- 
lito di sacrificarsi o adoperarsi (3315) per altrui; 
tanto mono à accessibile alla compassione, tanto più 
e inclinato e tanto più ha d'egoismo. L'abitudine 
dell'ozio in qualsivoglia età è sempre conciliatrice 
d'egoismo. Insomma, per tutte queste osservazioni, e 
por qualunque altra si voglia fare intorno ai vari ca- 
rafctcn degli uomini, apparisce, o sempre apparirà, 
elio la natura dell'egoismo è un ghiaccio doll'auimo; 
un freddo, un congelamento, una quasi concrezione' 
lina durezza o un indurimento, una secchezza o un 
disseccamento dell'amor proprio, una povertà, una 
scarsezza di vita ; una inattività effettiva o un' incli- 
nazione alla medesima oc. ; o naturale o avventizia 
che sia, o morale o fisica, o l'uno o l'altro, o portata 
dalla nascita e cresciuta poi e confermata coli' assuefa- 



^315-3316-3317) 



l'ENSlKKI 



318 



giano, collo circostanze, cogli avvenimenti della vita oc, 
b da questo prodotta in contrario c in dispotto del- 
l' indolo primitiva oo. (31 agosto 1823). Io credo po- 
terò assoriro elio generalmente gli uomini meno sog- 
getti a passioni veementi, quelli clie non amano il 
piacere, quelli elio mai non vissero per li piaceri, 
mai non furono trasportati da' piaceri e (3316) dal de- 
siderio o furore di questi (sieno piaceri corporali o 
spirituali) o che più noi sono; anche i mono iracondi, 
i più pazienti, e simili, per natura o per abito con- 
tratto , sono i più inclinati all' egoismo, i più alieni 
atiii nalinento dal compatire e dal beneficare, spesso 
anche i più ingiusti por volontà riflettuta. E i con- 
trari viceversa. 

Sono moltissimi elio amano, predicano, promuo- 
vono od esercitano esclusivamente la giustizia, l'one- 
stà, l'ordine, l'osservanza dello leggi, la rettitudine, 
1' adempimento do' doveri verso chi elio sia, l' equa 
dispcnsaziono de' premi e dolio pone, la fuga dello 
colpo; ma ciò non per virtù nó corno virtù, non per 
tinozza o grandezza o forza o compostezza d'animo, 
£on per inclinaziono, non por passione, ma per viltà 
e povertà di onoro, per infingardaggine, per inatti- 
vità, per debolezza esteriore o interiore, perché non 
potendo (per debolezza) o non volondo (per pigrizia) o 
non osando (por codardia) nó provvedersi né difen- 
dersi da se stossi, vogliono che la leggo e la società 
vegli per loro, e provvegga loro e li difenda senza 
loro fatica, e in modo eh' essi se ne riposino su di lei; 
perché la via del retto è la mono pericolosa, la sola 
che nel mondo (3317) sia palesemente permessa; per- 
ché l' onestà delle azioni avendo (almeno apparcnto- 
monto) mono ostacoli a combattere, cagiona meno im- 
barazzi, esige meno attività, meno travagli, produco 
conseguenze meno moleste ; perché non ardiscono con- 
travvenire aUe leggi, né farsi alcun nemico, molto 
meno quei che comandano e cho vegliano all' osecu- 



(3317-3318) 



zione d'esse leggi; perché toniono il castigo, la ri- 
prensione, il biasimo pubblico, si lasciano imporre 
dall'apparenza dell' opinione universale, la quale opi- 
nione mostra di stimare o di non molestare né deni- 
grare i buoni, e di odiare e biasimare i cattivi oc; 
perché non hanno spirito d' aspirare a cose straordi- 
narie, né di procacciarsi o beni o piaceri, né di avan- 
zare il loro stato ec, col subire qualche, ancorché mi- 
nimo, pericolo, col combattere qualche ostacolo ec, né di 
nulla tentare fuor del consueto e doli' ordino, e nulla 
rischiare oc. Questi tali, benché incapaci di far male 
o torto (volontariamente) ad alcuno, o d'offendere 
altrui in verun modo, di soverchiare oc, sono grandis- 
simi egoisti, chiusi alla compassione, ignari della be- 
neficenza. Sono altri eh' esercitano ed amano al modo 
stesso la giustizia, non por virtù, né anche por viltà, 
ina porche stanchi e disingannati del mondo,, e nulla 
più curandosi di quanto si possa acquistare o coli' in- 
giustizia o comunque, non cercano più che la pace, la 
quale non si trova fuor dell'ordine, e però sono amici 
dell'ordine. Questi ancora sono per lo più egoisti o 
nati o divenuti (1 settembre 1823). 

* Italianismi nell' uso della voco umts. Vedi Sve- 
tonio, in Itti. Caes., cap. XXXII , § 1 e quivi il Pi- 
tisco ec. col Foreelliui ec. (1 sottombre 1823). (3318) 

* Un francese, un inglese, un tedesco che ha colti- 
vato il suo ingegno, e elio si trova in istato di pen- 
sare, non ha che a scrivere. Egli trova una lingua 
nazionale moderna già formata, stabilita e perfetta, 
imparata la quale ei non ha che a servirsene. Xé dal 
principio della loro letteratura in poi è stato mai bi- 
sogno ad alcuno scrittore di queste nazioni, quel ch'ei 
si fosse, il formarsi una lingua inodorila, cioè tale che, 
volendo scriverò, come ognun devo, alla moderna, ei 
potosso col di loi mezzo esprìmere i suoi concetti in 



3318-3319-3320) vi-insieiu 315 

qualsivoglia gonere. Come dal principio dello loro 
letterature in poi quolle nazioni non hanno mai in- 
termesso di coltivar esse medesime gli studi in esso 
introdotti; o . creando e inventando nuovi generi o di- 
scipline, con osse hanno naturalmente o sin dal loro 
principio creato o l'ormato il linguaggio che loro si 
conveniva: o accettando generi o discipline fore- 
stiere, non mai per ancora in osse nazioni cono- 
sciuto o trattate, insieme con essi generi e disci- 
pline accettarono senza contrasto alcuno quei modi 
e quei vocaboli, ancorché forestieri, che con esse 
erano congiunte, e che a volerle trattare indispensa- 
bilmente si richiedevano ; cosi non è stato mai tempo 
alcuno in (3319) cui gli scrittori di quelle nazioni, 
avendo che scrivere, non avessero come scrivere; mai 
tempo alcuno in cui quello nazioni non avessero lin- 
gua nazionale moderna por qualunque gonere di lette- 
ratura e per qualsivoglia disciplina da loro trattata. 

Ben diverso è oggidì il caso dell'Italia. Come noi 
non abbiamo se non letteratura antica, e come la lingua 
illustre e propria ad essere scritta non è mai scompa- 
gnata dalla letteratura, o segue sempre le vicende di 
quosta, e dove questa manca o s' arresta, manca ossa 
puro e si ferma ; cosi, fermata tra noi la letteratura, 
formossi anche la lingua, e siccome della letteratura, 
cosi pur della lingua illustre si deve dire, che noi 
non ne abbiamo se non antica. Sono oggimai più di 
centocinquant'anni che l'Italia né crea, né coltiva 
por se verun genere di letteratura, perocché m niun 
->-enoro ha prodotto scrittori originali dentro questo 
tempo, c gli scrittori elio ha prodotto, non avendo 
mai fatto o non facondo altro che copiare gli antichi, 
non si chiamano coltivatori della letteratura, perché 
non coltiva (3320) il suo campo chi per esso passeg- 
gia e sempre diligentemente 1» osserva, lasciando pero 
le coso come stanno ; né per rispetto di questi scrit- 
tori verun genere della nostra letteratura s'è per 



PENSIERI 



(3320-3321-3322) 



ninna parte avanzato o migliorato, niun genero nuovo 
introdotto ; la nostra letteratura ò d' allora in poi, 
quanto a questi scrittori, affatto stazionaria ; or que- 
sto si chiamerà avor coltivato la nostra letteratura ? 
potremo dir elio sia stata coltivata senza profìtto al- 
cuno : ciò viene a esser la stessa cosa. 

In questo spazio di tompo la letteratura francose 
e la tedesca sono nate, la letteratura inglese si è 
primieramonto formata o stabilita. Quosto tre lette- 
rature, quanto elle sono e quanto abbracciano, s' in- 
cludono, si può dir, tutto, quanto al tompo, ne' cento* 
cinquantanni della immobilità della nostra letteratura. 
La depravazione e quindi il cominciamonto dell' ozio 
e della inoperosità della letteratura italiana furono 
([itasi il segnale alle altro letterature più famose d'Eu- 
ropa di sorgere e comparire (3321) nel mondo. Elle 
sono sorto, o in breve spazio hanno avanzato o pas- 
sato i tornimi da noi già tócchi, e il progresso uni- 
versale della letteratura e delle cognizioni umane 
no' contocinquant' anni ultimi è stato cosi rapido e 
cosi grande, ch'egli equivale, per cosi dire, a quello 
fatto por tutti i secoli addiotro infino all' opoca no- 
minata. Ciò singolarmente si può dire in quanto alla 
filosofia, la quale rinata dopo la detta opoca, o tutta 
nuova, fa parerò più che pigmea la filosofia di tutti 
gli altri secoli insieme. Ella è divenuta la scienza, il 
carattere, la proprietà de' moderni ; ella regge, do- 
mina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna, 
ella ne è la materia e il subbiotto ; olla insomma è 
il tutto oggidì negli studi, e in qualsivoglia genere di 
scrittura ; o corto nulla è senza di lei. 

Era queste generali vicende e questo progresso 
della letteratura, l' Italia, corno di sopra dissi, nulla 
ha fatto por se. Gli scrittori alquanto originali ch'ella 
ha prodotti in questo tempo, gli scrittori cho possono 
meritar nome di moderni, non (3322) sono stati suf- 
ficienti, né por originalità né por numero, a darle una 



(3322-3323) pensieri _ 

lingua nazionale moderna, nello stesso modo ch'ei non 
sono stati sufficienti a fare ch'olla avesse una lotte- 
ratina moderna nazionale. 

b quanto alla lingua, V insufficienza loro a far 
che l'Italia n'avesse una moderna sua propria, é ve- 
nuta principalmente da questa cagione. Trovando in- 
terrotta in Italia la letteratura, essi hanno trovato 
^'interi-otta la lingua illustro; antica quella, antica an- 
cora questa. Una lingua antica non può esser buona 
a dir coso modorne, e dirle, come devesi, alla mo- 
derna: né la nostra lingua in particolare era buona 
ad esprimere le nuove cognizioni, a somministrare il 
bisognevole a tanta e si vasta novità. Introducendosi 
fra noi a poco a poco la notizia delle letterature e 
discipline straniere, que' pochi italiani, ch'eccitati da 
ueste nuovo cognizioni si trovarono un capitale di 
ente da poter loro aggiungere qualche cosa di 
oro; quei molti che invaghiti della novità, o mossi 
a qualunque altro motivo, deliberarono, (3323) senza 
ero aver nulla di proprio da scrivere, d'introdurre o 
divulgare, come si doveva, in Italia i nuovi generi, le 
nuovo letterature e discipline, la nuova filosofia, anzi, 
per meglio dire, la filosofia, non bastando a ciò la 
lingua italiana antica, intieramente la distessero e 
come di facoltà e di pensieri, cosi di lingua anda- 
rono a scuola dagli stranieri; e da cui toglievano le 
cose, sia por solamente ripeterle, sia pur talora por 
accrescerlo e in qualche parte migliorarle, da essi 
tolsero anche le voci o le maniere e le forme dot 
favellaro e scrivere. Gli scienziati propriamonto dotti, 
rispetto ai quali la nostra nazione non fa quasi per 
alcun tempo seconda a verun'altra, sempre però poco 
curanti della lingua, seguirono la barbane venuta m 
uso, corno il linguaggio ch'era loro alla mano, e come 
indifforentemento avrebboro seguito qualunquo altro 
linguaggio o puro o impuro che avessero avuto in 
pronto o che fosso stato comune, il che sempre ave- 
vano fatto qui ed altrove. 



318 



PEK SIERI (3323-3324-3325) 



Tristo veramente e difficile era il caso loro, ma 
peggio il partito a cui s'appigliarono. Difficilo il caso, 
perocché quanto è facile il continuare a una nazione 
la sua lingua illustre insieme colla sua letteratura, 
tanto è difficilo, interrotta por lungo spazio la lette- 
ratura, e dovendo quasi ricrearla, riannodare la lin- 
gua a lei conveniente colla già antiquata lingua il- 
lustre della naziono, colla lingua che fu propria della 
nazionale letteratura prima che questa fusse total* 
mento interrotta. (3324) 

In questo caso non si trovò l'orse mai nazione 
veruna (se non se oggidì la spngnuola quando ella 
intraprendesse di ristorare la sua quasi spenta lette- 
ratura). Ma questo appunto è il caso nel qualo si 
trova oggi l'Italia. 

Koi abbiamo una lingua; antica bensì, ma ricchis- 
sima, vastissima, bellissima, potentissima, insomma 
colma d' ogni sorta di pregi, perocché abbiamo una 
letteratura, antica ancor essa, ma vasta, varia, bel- 
lissima, abbondantissima di generi e di scrittori, 
splendidissima di classici, durata per ben tre secoli 
e più, tale ohe rispetto all'età ch'ella aveva, quando 
fu tralasciata, l'età che hanno presentemente 1' altre 
letterature è affatto giovanile. Per questo cagioni, 
e per altre che ora non accade specificare, questa 
lingua italiana cho noi ci troviamo, supera di ric- 
chezza, di potenza, di varietà tutte le lingue moderne, 
salvo forso la tedesca; di bellezza avanza d'assai tutto 
queste lingue senza eccezione né dubbio alcuno, d'altri 
pregi ò superiore, non solamente a esse lingue, ma 
allo antiche eziandio. Tale si è (3325) la lingua ita- 
liana per so od intrinsecamente. Ma olla è antica; 
cosa estrinseca; ed ossondo antica non basta, né si 
adatta, tal quale ella è, a chi vuole scriver coso mo- 
derne in maniera moderna. Perciò forse potrà un 
uomo sano volere o concedere che una tal lingua si 
gitti e dimontichi corno divonuta del tutto inutile, e 



(8325-3326) 



319 



che dando all' Italia una letteratura moderna propria 
se lo debba dare con essa insiomo una lingua affatto 
nuova, conio finora s' è fatto, o pigliandola dagli stra- 
nieri, oh' è pur quel elio s' è fatto, o creandola di 
pianta, quasi ninna, o solo una imperfettissima e de- 
bolo o scarsa e spregevole lingua, avesse avuto l'Italia 
per lo passato. 

Ma certo, come questo è assurdissimo, e siccome 
per prove voggiamo, dannosissimo; cosi quollo è ne- 
cessario, evidente e certo, che volendo dare alla mo- 
derna Italia una. moderna letteratura, conviene non 
già mutare la sua antica lingua, né disfarla, né 
rinnovarla, ma, salvi i suoi fondamenti, l' indole e 
proprietà sua e tutti i suoi pregi secondo lo loro 
speciali e proprie qualità, rimodernarla, e fare in 
modo che la lingua (3326) moderna italiana illustre 
sia propriamente una continuazione, una derivazione 
dall'antica, anzi la medesima antica lingua continuata, 
niente meno che la francese dell'ultima metà del pas- 
sato secolo, o quella del presente, non sono altra che 
quella del tempo di Luigi XIV continuata di mano 
in mano. 

Or questo ai francesi fu facilo, perché la loro 
letteratura non fu interrotta per alcun tempo, da 
Luigi in poi: laonde la loro lingua fu sempre con- 
tinuata naturalmente e senza sforzo, o sempre succes- 
sivamente modificandosi secondo i tempi, fu in ciascun 
tempo moderna, ma una in tutti i tempi considerati 
insieme. A noi bisogna far forza alle cose e quasi 
scancellare e annullare o nasconderò il fatto, cioè go- 
vernarci in modo che quel che fu apparisca non es- 
sero stato, e la lingua italiana sembri non essere stata 
per alcun tempo interrotta, ma continuatamente avan- 
zata e modificata sino a divenir propria e conforme 
e conveniente all' odierna Italia ed alla sua moderna 
letteratura. 

Quindi si consideri le grandissime difficoltà ed 



àM ' pensier i (3326-3327-3328) 

ostacoli che si attraversano, le angustie (3327) elio 
stringono, la vera infelicità della condizione in cui 
si trova oggidì l'italiano elio aspiri ad essere scrittoi' 
classico, cioè pensare originalmente, dir coso proprie 
del tempo, dirlo in modo proprio del tempo, o perfet- 
tamente adoperare la sua lingua, senza le quali con- 
dizioni, e una sola elio ne manchi, non si può mai 
nó protendere giustamente, no ragionevolmente spe- 
rare V immortalità letteraria (alla quale, e sia dotto 
por incidenza, ben raro o ninno è che giungesse per 
mezzo di opero scritte in lingua non sua; come se 
noi, spaventati dallo difficoltà che ho detto, e son per 
dire, volessimo scrivere in francese piuttosto che in 
italiano). 

Un italiano, ancorché pienamente istruito in tulio 
ciò che si richiede oggidì in qualsivoglia luogo a un 
perfotto nomo di lettere, ancorché sommamente ricco 
d'immaginazione e di cuore, ancorché fecondissimo o 
gravido o di pensieri proprii, importantissimi, pro- 
fondissimi, novissimi, d'invenzioni, d'idee d'ogni 
genere convonientissime al tempo ; ancorché osserva* 
vatore, meditatore, ragionatore senza pari ; ancorché 
peritissimo di tutto P arti e artifizi dello (3328) 
stile ; volendo perfettamente scrivere in italiano, ed 
essondo, per ogni altro riguardo, capacissimo di per- 
fettamente scrivere, si trova mancare affatto della 
lingua in cui possa farlo, non solo perfettamente, ma 
pur mediocrissimamente. A. questo talo è duopo ap- 
prestarsi prima di tutto una lingua collo suo mani. 
Ma questa in qual modo? Manco diftìcilo sarebbe il 
crearsela. Se l'Italia non avesse che una lingua im- 
perfettissima, ristrettissima o bambina, manco difficile 
sarebbe a un grando ingegno il perfezionarla, l'arric- 
chirla, il dilatarla, il condurla a maturità. Ma l'Italia 
ha una lingua altrettanto perfetta quanto immensa; 
bensì da lungo tempo dismessa, e però impropria a' di 
lui bisogni, a' quali olla non fu ancor mai per al- 



(3328-3329-3330) 



PKNS1BUI 



Lquo adattata né adoperata. Conviene adunque indi- 
spensabilmente che l'ingoino da noi supposto, innanzi 
|i porsi a scrivere, perfettamente impari questa lin- 
gua infinita, che tutta F abbracci, che la si convorta 
in succo o sangue, che se ne renda risolutissimo e 
pienissimo possessore e padrone , che n' abbia per le 
dita o il tutto e fino alle menomo parti franchissima 
e speditissimamente. (3329) Come senza ciò potrob- 
b'egli derivarne e farne nascere e pullulare, in guisa 
che paia del tutto spontanea, una lingua conforme 
alla natura e a' bisogni do' moderni tempi o dolle 
moderne cognizioni, la quale sembri e sia onnina- 
mente una coll'antica? corno commettere insiemo quella 
con questa per modo che nulla appaia la coinmissura? 
Ma questa lingua ossendo antica, egli non la può già 
imparar dalla balia, ma gli conviene apprenderla per 
istudio; essondo infinita e in se diversissima, egli 
non la può apparare con istndio né breve né leggero, 
ma solo con lunghissimi sudori, e profonde ricerche 
sulle sue proprietà, e continuo esercizio di leggerla e 
di scriverla, e assiduo ed attentissimo stadio de' suoi 
classici che sono in grandissimo numero. E cosi fa- 
cendo, troverà, e sempre più si persuaderà, che sic- 
come della lingua greca si dice, cosi della italiana 
si può dire, lei ossero veramente infinita, o tale 
eh' egli è impossibile di tutta abbracciarla, e mai 
non viene quel giorno che nuovo conoscenze intorno 
a ossa lingua non si possano (3330) acquistare, né 
che il cammino sia terminato. Ma senza andaro agli 
eccessi ; sobbone nulla ? ha qui d' esagerato ; senza 
però voler conservare una troppo grande esattezza nel 
ragionamento ; supponendo ancora com' è il vero elio 
un grande e felice ingegno possa arrivare a compren- 
der coli' anima e possedere so non tutta quanta la 
nostra lingua pur tanta parto di lei elio la cognizione 
e la domestichezza d' essa parto gli basti a poter 
sulle fondamenta, sull' ordine, sul disegno doli' antica 

X*EorAitLi. — i'tiisivri, Vi 21 



■ IL ~ PENSitìKi (3330-3331-3332) 

lingua fabbricare corno una continuazione d'edificio 
la moderna ; yeggasi quanto a costui convion trava-ì 
gtiaro innanzi di poter far uso do' suoi pensieri. Ella 
è cosa certa clie la vera cognizione o padronanza di 
una lingua come l'italiana, domanda, per ^on dir 
troppo, quasi una metà della vita, e dico di quella 
cogniziono o padronanza eh' é indispensabile a chiun- 
que debba vonuncnte ristorarla. Ma la scienza, la 
sapienza, lo studio dell'uomo, noi) domandano tutta 
la vita ? o quella immensa moltiplieità di cognizioni 
piccole e grandi, quella universalità che (3331) si ri- 
chiede oggidì, quasi generalmente a ogni uomo di 
lettere, ma eh' è sommamente necessaria al filosofo; 
la cogniziono od uso e pratica di tante altre lingue 
antiche e modorne e do' loro autori, letterature ec. 
domandano poca parto di tempo? Certo ó veramente 
dura e deplorabile oggidì la condizione dell' italiano, 
il quale avesse nella sua mente cose degno d'essere 
scritte e convenienti a' nostri tempi, porocch' egli, 
anche volendo usare la maggior semplicità del mondo, 
non avrebbe una lingua nat urale in cui scrivere (come 
1' hanno i francesi ec. atta a potervi subito scrivere, 
coni' ei P abbiano competentemente coltivata e stu- 
diata), né il modo di bone esprimore i suoi concetti 
gli correrebbe mai alla penna spontaneo, ma conver- 
rebbe eh' egli si fabbricasse l' istrumonto con cui si- 
gnificar le sue idee. E d'altronde ella ò bon ardua 
e difficile la condizione di un ingegno quantunque si 
voglia grande o cólto, al quale, oltre la grande im- 
presa di ristorare la lottoratura italiana, e dare o mo- 
strare all'Italia una letteratura propria moderna, (3332) 
quasi ciò fosse poco, converrebbe in prima necessa- 
riamente aprirsi la via col ristorare la lingua ita- 
liana e dare all' Italia una lingua nazionale moderna, 
quasi quosta ancora non fosso per so sola un' impresa 
sufficiente a una vita ititora e ad un eccellente in- 
gegno. 



(3332-3333-3334) 



B28 



Tanta è la difficoltà, di condurrò a termine duo 
improse di questa sorta , il che dovrebb' esser pure 
necessariamente lo scopo e l' istituto di qualunque 
letterato italiano degno di questo nome ; e d' altronde 
eoli è cosi vero che la letteratura e la lingua mai 
non si scompagnano, né 1' mia dall' altra si dissomi- 
gliano, o eli' egli è quasi impossibile di scrivere per- 
fettamente, e in forma che paia spontanea, una lingua 
por solo stadio apparata o fabbricatasi ; che io sic- 
come so corto cho 1' Italia non avrà propria lettera- 
tura moderna finch' ella non avrà lingua moderna 
nazionale, cosi mi persuado che tal lingua ella non 
avrà mai finché non abbia tale letteratura: onde (se 
pur dobbiamo sperarlo) nata una letteratura (3333) 
moderna italiana, seco a paro nascerà una moderna 
lingua, e quindi di mano in mano cresceranno am- 
bedue a poco a poco, 1' una insieme coli' altra e in 
virtù dell'altra scambievolmente, ma più la lingua 
in virtù della letteratura, che questa per 1' aiuto di 
quella. E cosi con mio dispiacere predico che seppur 
avremo mai più lingua moderna propria, questa non 
nascerà dall'antica né a lei corrisponderà, ma, na- 
scendo dalla nuova letteratura, a questa sarà con- 
formo : od essendo di origine straniera, ci si verrà 
a poco a poco appropriando o pigliando forme nazio- 
nali (quai eh' elle saranno per essere; non già le 
antiche) a proporzione che la nuova letteratura diverrà 
nazionale e metterà radico in Italia, e si nutrirà e 
croscerà del nostro terreno, e produrrà frutti proprii 
italiani. A questo mi conduce il considerare che né i 
nostri antichi scrittori né i moderni o antichi di na- 
zione alcuna presente o passata, furono mai pensatori 
originali oc, scrivendo in altra lingua che in quella 
del loro secolo e in quella usata genoralmente (3334) 
da' nazionali e cho loro veniva alla .penna spontanea, 
ben da loro assai volto (come da Cicorono) raffinato, 
riformata, accresciuta, perfozionata, ma non mai per 



:; - ì PBNSIEK1 (3334-3335) 

solo studio appresa, per solo studio quasi ricreata. 
Al quale immenso travaglio ed alla continua difficoltà 
di scriverò o porf'ettamcnto scrivere in una tal lingua, 
ancor dopo approsa, formata e posseduta, è quasi im- 
possibile trovare un pensatore originale, un gran fìlo- 
sol'o, un uomo di genio o di grande iromaginaziono, 
che si assoggotti ; o che assoggettandocisi, si conservi 
in se stesso e ne 1 suoi scritti , pensatore, filosofo ori- 
ginalo, senza di che sarobbe inutile l'esservisi assog- 
gettato. Non altrimenti che sian inutili allo scopo di 
dare all' Italia lingua o letteratura moderna propria, 
coloro che oggi si sforzano di scrivere in buono ita- 
liano, da' quali è ri mota ogni sorta di pensiero, non 
solo nuovo ma moderno , e che avondo a nominar 
qualcho cosa moderna la nominano o accennano co- 
portamento, e avendo talvolta a mostrare qualcho co- 
noscenza, qualche idea di quelle elio i nostri antichi 
non avevano, si fanno un pregio e un dovere di non 
farlo che dissimulatamente, fingendosi (3335) il più 
cho possono ignoranti di quanto gli antichi ignoravano. 
E non altrimenti che inutili al sopraddotto scopo sieno 
oggidì coloro che tra noi pur pensano qualche cosa 
(ben pochi o poco), o die da' paesi di fuori recano a 
noi qualche pensiero ec, i quali tutti non iscrivono 
italiano, ma barbaro. E questa separazione e distinzione 
di gonte che scrive in italiano (vero o preteso), e gente 
che pensa, stimo, per le suddotte ragioni, ohe sempre 
sia per durare in Italia, montre questi non prò vagliano 
a anelli, formando finalmente a poco a poco un nuovo 
italiano illustre e rendendolo universale tra noi in- 
vece doli' antico. Dal elio siamo ancora ben lontani, 
massime oggidì, che il numero e il valore di quolle 
ombro di filosofi, che ha veduto lin qui l'Italia, va pur 
sempre notabilissimamente scemando; o sempro por lo 
contrario crescendo, non il valore, ma il numero di 
quelli cho pretendono e aspirano a scriverò il buon 
italiano, ondo l'Italia ò quasi tutta rivolta di nuovo 



825 



alla sua antica lingua, o di pensieri oramai nulla più 
pensa né (3336) cura né richiede, propriamente nulla. 

Mala cosa per certo si è l'interruzione degli studii, 
dovunque ella accade, si per mille altri danni, si per- 
ché colla letteratura ella antiqua la lingua illustre* ') 
Di modo che, risorgendo ossa letteratura, 1' è grandis- 
simo impedimento e indugio a potor crescere e for- 
marsi la mancanza di lingua a lei conveniente, e il 
tempo e l'industria che bisogna spendere in fornir- 
nela. Quanto crediamo noi che ritardasse gli avanza- 
menti dello spirito umano (non in una sola naziono, 
ma in tutta l'Europa) dopo il risorgimonto degli studii, 
la mancanza di lingue proprie alle nuove lettere? La 
qual mancanza non da altro provenne ohe dalla diu- 
turna interruzione dolla letteratura in Europa. Peroc- 
ché la lingua latina non avrebbe cessato di esser par- 
lata e propria degli europei so fosse durata la letteratura 
latina. Ben si sarebbe sempro modificata secondo i 
tempi, di modo eh' olla oggidì sarebbe diversa dal- 
l' antica; ma sarebbe pur lingua latina, o in Europa 
si parlerebbe e scriverebbe il latino come lingua pro- 
pria, come moderna, come conveniente a' noBtri tempi 
(quale infatti ella sarebbo), e lo spirito umano sarebbe 
più oltre ch ! ei non è , (3337) perché sarebbo stato 
impiegato nel coltivar la sapionza e le lettere quel 
tempo cho fu dovuto spendere nel formare delle lin- 
guo convenienti a questo e ai costumi e al carattere 
de' moderni secoli. Il cho volendo evitare e risparmiare 
i primi cultori do' risuscitati studii, si ostinarono a 
volere scriverò in latino, ma il latino era lingua an- 
tica, né mai in una lingua antica si potranno scriver 
cose moderne né scriverlo modernamonto. E molto no- 
cquo una tale ostinazione al progresso de' lumi e dolla 



1 ) Tuoi vodoiu ti Diahffo delie Lìngue dolio Speroni; fluii» P- l 21 
poi, cioè tutto il eUseorao tra il Losoarl e il Pwetto, Bino alla (ine ilo 1 
Dialfujo. 



32(i tossitoti! (3337-3338-3339) 

coltura e alla formazione dolio spirito nazionale o mo- 
derno. 11 quale non mai si sarebbe formato se non fos- 
sero state formate e stabilite lo lingue moderne in- 
voco dolla latina. Siccome per lo contrario si vocio 
che queste non prima furono formate e stabilito di 
quel clie lo spirito nazionale o moderno pigliasse una 
consistenza e una corta forma e fisonomia propria 
in Italia, poscia in Ispagna, indi in l'ranoia e in In- 
ghilterra, ultimamente in Germania, che ultima di 
tutte queste nazioni lasciò 1' uso della lingua latina 
come letterata o illustre, o lo sostituì (3338) la na- 
zionale. E questo esempio dell'Europa si dove pro- 
porzionatamente applicare e paragonare al caso del- 
l' odierna Italia, e dedurne delle congetturo, certo 
assai verisimili o solide, circa il futuro esito delle 
nostro presonti circostanze (1-2 settembre 1823). 

* Del resto, dalle considerazioni qui dietro fatte 
sulla necessita che 1' Europa e lo spirito umano ave- 
vano di nuove lingue illustri a potersi avanzare e 
ne' costumi e nelle scienze e nelle Ietterò e nella filo- 
sofia, dopo il risorgimento degli studi; e sul grandis- 
simo dotriinento o ritardo ohe portò alla rinata civiltà 
la rinnovazione dell'uso esclusivo del latino come lin- 
gua illustre; e sul maggior danno e indugio che le 
avrebbo apportato la continuazione di tale uso, appa- 
risce più visibilmento cho mai quanto debbano a Danto, 
non pur la lingua italiana, come si suol predicare, 
ma la naziono istossa e l'Europa tutta e lo spirito 
umano. rerocché Dante fu il primo assolutamente in 
Europa che (contro 1' uso e il sentimento di tutti i suoi 
contemporanei e di molti posteri, elio di ciò lo biasi- 
marono; vedi Portioari, Apologia, cap. 34) ardi conce- 
pirò (3339) o scrisse nn'opicra classica o di letteratura 
in lingua volgare e moderna, innalzando una lingua 
moderna al grado di lingua illustro, invece o al- 
meno iusiome colla latina, cho fino allora da tutti e 



(3339-3340) 



1HKSIEUT 



327 



ancor molto dopo da non pochi, ora stata o fu stimata 
laica capace di tal grado. E quest' opera classica non 
fu solo poetica, ma, corno i poemi d' Omero, abbracciò 
espressali! «ito tutto il sapero dì quella età, iu teolo- 
gia, filoKotia, politica, storia, mitologia oc. E riusci 
classica, non rispetto solamente a quel tempo, ma a 
tutti i tempi e tra lo primarie ; né solo rispetto al- 
l' Italia, ma a tutto le nazioni o letterature. Senza un 
tale esempio ed ardirò, o s' oi fosse riuscito men for- 
tunato o splendido, e se quell' opera pel suo soggetto 
fosse stata meno universale, e meno appartenente, per 
cosi dire, a ogni genere di letteratura e di dottrina ; si 
può, so non altro, indubitatamente credere elio si l' Ita- 
lia si 1' altro nazioni avrebbero tardato assai più che 
non fecero a innalzaro lo lingue proprio o moderne al 
grado di linguo illustri, e quindi a formarsi dolio lot- 
toratnre proprie e (3340) moderne e conformi ai tempi, 
o quindi lo spirito e il carattere nazionale, moderno, 
distinto, determinato ec. Dante diede 1* esempio, apri 
e spianò la strada, mostrò lo scopo, feco coraggio c col 
suo ardirò e colla sua riuscita agi' italiani : l' Italia 
allo altre nazioni. Questo è incontrastabile. Né il 
fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragiono 
e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle espres- 
samente sostituire una lingua moderna illustre alla 
lingua latina, perché cosi giudicò richiedere le cir- 
costanze de* tempi e la natura delle coso ; e volle 
espressamente bandita la lingua latina dall'uso de'lot- 
terati, de' dotti, do' legislatori, notari ec, come non 
più convenevole ai tempi. Il fatto di Dante venne da 
proposito e istituto, e mirò ad uno scopo , e il propo- 
sito, l' istituto o lo scopo quanto spetta al nostro di- 
scorso ') (siccome eziandio la scelta e l'uso de' mezzi), 

') Pofooché nnclio nitri latitati o^li seguì, «l altri lini al propose, 
tutl,i bolliasimi i) savissimi, ma elio non appai tendono al nostro pio- 
pnsito. 



328 



pensieri (334(3-3341 -3342 



fa. da acutissimo, profondissimo e sapientissimo filo- 
sofo. Vegga si il Pertiuari noi luogo citato (2 sottom- 
bre 1823). 

* 1. francesi amano di usare il mvmoro ordinale pel 
cardinale. Louis caiorze, Uvrc deux etc. (3341) Pretto 
idiotismo e sgrammaticatura. Or vedilo altresì, se non 
fallo, appo Svetonio, in Ini. Caos., c. XXXIX, § 4-. o 
appo gli autori quivi allegati dal Pitisco oc. (2 sottom- 
bre 1823). Vedi p. 3544. 3557. 

* I limiti della materia sono i limiti dello umane 
ideo (3 settembre 1823). 

* Alla p. 3235. Tnstigo as da instinguo is, ondo in- 
stinctus a um e instinctus us. Il semplice è stingilo 
(onde anche ekstinguo, restinguo. distìnguo oc) o di 
questo verbo ho detto altrove in altro proposito. Quo! li 
elio derivano instigo da insto oc. molto s' ingannano. 
Gli altri verbi da noi raccolti in questa categoria mo- 
strano ch'ei viene da instinguo comò jugo da jvngo ec. ') 
Ohi volesse che insidiar (fora' anche si trova insidio) 
venga a dirittura da insidco piuttosto che da insidiati 
(la qual voce in tal caso verrebbe non da insidco ma 
da insidior) lo mostrerebbe appartenente a questa 
categoria, e in tal caso sarebbe da notare eh' oi non 
nascerebbe da un verbo della terza, ma (da un ano- 
malo) della seconda (3 settembre 1823). Potrebbe però 
anche venire da insido is. 2 ) Invideo, invidia, invidiare, 
italiano oc. (3 settembre 1823). (3342) 



') Oasorvlsi olio instilo propriamente « continuativo por la sigtrtfl- 
eiùsitane, perocché ineHnguo propriuiiionto «ignìlica Patto dol pungerò, o 
quindi d<dio spinsero, dell' indurrò, ma ùittìgo significa- lo stimolare, In 
staro attorno, il far ressa per indurrò. L' instìnguere è lo aoopo doU' in- 
stìgarc. 

,£ ) ]Ksro pili verisimile olio venga da i-tutldi-are (di cui vedi p. 3350). 
Altrimenti farebbe piuttosto insidor aria, rome sedo as da sedeo (o da 
fido ìs) t dol che altrove. 



(3342-3343) pens ieri 3 29 

* Alla p. 3098. Tutte le nazioni e società primi- 
tivo, non altrimenti che oggidì le selvagge, riputarono 
1» infelice e lo sventurato per nemico agli Dei o a 
|ausa di vizi e delitti ond' ci fosse colpevole, o a 
causa d' invidia o d> altra passione o capriccio elio 
movesse i Numi ad odiar lui in particolare o la sua 
stirpe oc., secondo le diverse idee cho tali nazioni 
avevano della giustizia e della natura degli Dei. 
Un' impresa mal riuscita mostrava ohe gli Dei 1 aves- 
sero contrariata o per se stossa o per odio veraci' im- 
prenditore o gì' imprenditori. Un uomo solito a eehouer 
nelle suo intrapreso, era senza fallo in ira agli Dei. 
Una malattia, un naufragio, altre tali disgrazie pro- 
venienti più dirittamente dalla natura erano segni 
più che mai certi dell'odio divino. Si fuggiva quindi 
V infelice, come il colpevole ; se gli negava ogni soc- 
corso e compassione, temendo di farsi complice in 
questo modo. della colpa, per poi divenire partecipo 
della pena. Qua si dee riferire l' infamia pubblica in 
cui erano i lebbrosi appresso gli Ebrei, e lo sono an- 
cora, s' io non m' inganno, appo gì' indiani. Gli amici 
e la meglio di Giobbe lo (3343) stimarono uno scelle- 
rato, coni' ei lo videro percosso da tanto disgrazie, 
benché testimoni dell' innocenza della passata suavita. 
I barbari dell'isola di Malta vedendo l'apostolo b. Paolo 
naufrago, e pur salvato in terra, e quivi assalito da 
una vipera, lo stimarono un omicida che la *™ ven- 
detta perseguitasse per ogni dove (AcL, cap. XX Vili, 
3-f.) Bimane eziandio nelle antiche lingue il se- 
gno, come d'ogni altra antica cosa, cosi di queste 
opinioni. T*U (Aristoph., Plut., IV, 5, 19 , "«M*^* 
fio IV 3 47) 6 aimili 7101111 tanto valevauo in f e ~ 

lice, quanto malvagio, scellerato ec. Vedi i latini. Onde 
anche tra noi sciagurato, disgraziato, misero, misera- 
bile oc. hanno l'uno e l'altro significato; ovvero si at- 
tribuiscono altrui anche per avvilimento o disprezzo. 
Cosi in francese malhettreiix, misérable ec. Cattivo ha 



330 



PENSIERI 



(3342-3344) 



perduto affatto il significato di misero, che prima ebbe 
ma non (inolio di ribaldo, reo, mah eh' è il suo più or- 
dinario o volgare significato oggidì (3 settembre 1823). 
Vedi p. 3351. 

Mox8"f|pÓS, BOVYjpÓC (itéVY)po{ ìnfelìx), ^oy^-r^ia , m- 

yqpEa oc. ec. Vedi lo Scapala, e p. 3382. v.a*o8aEjji.ijuy quegli 
ohe ha nemico t<5 Sottpióytov cioè ^ divinità, o iòy Smuova, 
Ma e'vnol diro infelice-. Luciano congiunge UtrAc, èy&pobt 
x*l KaKo3ai(iDv«a. EòSatatuy cft' ha gli dei amici, ma o ! vuol 
dirJfiwftfnafoj^eZica. Vedi io Scapala in quoste voci e in 
ìytyoòa'ip.tnv, e in j3apo8«ufUoy co' dori vati oc, e Aristot., 
iWii., 1. Ili, p. 260, e ivi il Vettori (od. Fior., 1570). 

* Tapino dondesonondaT'tKEiyós?{3 settembre 1823). 
(334-4) 

* 8crisae.ro, vissero, dissero, videro, diedero, tennero 
o simili innumerabili, quasi da scripserunt, vixerunt, 
dixerunt, vidérunt, dederunt, tcnnuZrunt. Cosi veramente 
dissero molti poeti, massimo i più antichi, a olio tal 
pronunzia fosse o restasse propria del volgo romano, 
il quale c.onsorvasso anche in questo l'antichità, o la 
trasmettesse fino a noi, si può raccogliere da certi versi 
popolari portati da Svetonio in Jul. Caes., cap. LXXX, 
§ 3 (dove si veggano lo note del Pitisco ec.) che cor- 
revano in Roma sugli ultimi tempi di Giulio Cosare 
Dico popolari, ') e infatti si paragonino con quelli ri- 
portati dal medesimo Svetonio, ib., cap. XLIX, § 7, 
eh' erano cantati dalla soldatesca di Cosare (3 sot- 
tombre 1823). 

* Alla p. 3206. — 6°, L'immaginazione, la facoltà 
d'inventare o inventiva, la vena o fecondità, lo spi- 
rito poetico, il genio ec, non solo per cause morali, ma 
anche fisiche, si vedo indubitatamente essere minoro 
ne' vecchi e negli uomini maturi, che ne' giovani, 



') Lo dii l <' Svatolltò nrlln stesso citato [nogo: miltjo aimebanió/ri 



(3344-3345-3346) itosiwri J^ 1 

Le' Maciulli oc. o decrescere di mano in mano natu- 
ralmente secondo 1' età. Si vedo eziandio esser mag- 
giore o minore ne'divorsi indivìdui, non per solo ol- 
fatto delle circostanze estrinseche e accidoirtah, ma 
anche primitivamente o per natura. (3345) 

7" La memoria, indipendentemente dall' esercizio, 
il quale anzi per se, tanto l'accresce quanto ò maggiore, 
più assiduo, pili lungo, decresce evidentemente (ai- 
mono por l'ordinario) secondo l'età. Anzi osservando, 
si vedo chiaro eh' ella ne' fanciulli ò maggiore natu- 
ralmente, e minore per difetto o scarsezza d'esercizio, 
e che coli' età crescono le sue forze, per cosi dire, 
artifiziali e fattizie, e scemano lo naturali; finché 
distrutte queste ne' vecchi quasi affatto, anche quello 
divengono inutili, e si perdono o dileguano, man- 
cato-loro il subbietto, cioè la disposizion fisica a 
ritenere dogli organi dostinati alla memoria. Le iorze 
Lolla memòriu nolT u.mm maturo seno quasi medietra 
quelle del fanciullo e del vecchio, perché le fattizio 
suppliscono alle naturali, che nel fanciullo sono mag- 
giori assai che nell'uomo maturo, ma in questo sono 
maggiori assai che nel vecchio, e bastano ancora a ser- 
vir di materia e subbietto allo forze artifiziali e de- 
rivanti dall'esercizio generale e particolare, passato e 
presento, eh' è maggiore nell'uomo maturo che nel 
fanciullo oc. È anche indubitabile che fisicamente al- 
tri ha maggiore, altri minor memoria, alcuni prodi- 
giosa altri ninna: e ciò in pari età, e (3346.1 suppo- 
sta eziandio la parità di tutte l'altro circostanze. E 
questa differenza fisica talora è primitiva e innata, 
ossia dalla nascita, talora avventizia, ma pur sempre 
fisica e indipendente, almeno in gran parte e radical- 
mente, dalle causo morali ec. Altresì è certo che m 
uno stosso individuo, in una stessa età, anzi pure non 
di rado in una stessa giornata in diverse ore, per causo 
evidentemente fisiche, la memoria ora è più pronta o 
maggiore e più chiara, ora mono; ora più ora mon 



882 



(3346-334?) 



facile sia ad apprenderò aia a rimembrare, o disposta 
a farlo più o meno perfettamente oc. Or tutto quosto 
discorso della memoria in cui si scorge tanto di lisi- 
co ec. perché non dovrà, eziandio applicarsi all'inge- 
gno, al talento, all'intelletto oc. eli' ò pure una facoltà 
dell'anima come la memoria, e viene ed è fondato, 
siccome questa, in una disposizione naturale, primi- 
tiva e innata nell'uomo ec.? (3 settembre 1823). Se 
la disposizion fisica e naturalo è varia quanto alla 
momoria nelle divorse età, ne' diversi individui, in 
diversi tempi ec. indipendentemente dal morale, per- 
ché non eziandio quanto (3347} all'intelletto o al ta- 
lento? (3 settembre 1823). 

* La stagione e il clima freddo dà maggior forza 
di agire, e minor voglia di farlo, maggior contentezza 
del prosente, inclinazione all'ordine, al metodo, e fino 
all'uniformità. ') Il caldo scema le forze di agire, e 
nel tempo stesso no ispira ed infiamma il desiderio, 
rendo suscottibilissimi della noia, intolleranti del- 
l'uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti 
di se stessi e del presente. Sembra che il freddo for- 



) Sei freddo si lui lo fora» di ngire, ma non senza incomodo. La 
temperatura dell'aria elie vi circonda, opponendosi à ce qtie voi possiate 
uscir di casa o di camera senza patimento, vi consiglia l'inazione o l'im- 
mobilità nel tempo stesso che vi da la l'orza dell' aziono o del moto. Si 
può dir clic se no sente In forza e la difficolta nel tempo eterno. Nel caldo 
tutto l'opposto. Si genie la facilitai dell'azione o dei moto nel temilo 
stesso clic so ne scarseggiano lo force. L' uomo prova espressamente mi 
sonao di libertà fisica che viene dall' amicizia dell' aria o dolla natura 
elio lo circonda, un senso che lo invita al movimento e all' aziono, ch'egli 
talora confonde con quello della forza, ina clic a' o bon differente, corno 
1' uomo si può avvede», quando, cedendo all' inquietezza elio quel senso 
gl' ispira, e dandosi all'aziono, la telale mancanza ili l'orzo elio gli so. 
prajjgionge gli taglio quel senso di libertà , e 1' obbliga a desiderare e 
somaro il riposo. Anello per se medesima la debolezza e il rilasciamento 
prodotto da causa mai morbosa, come dal cablo, da una corta facilita di 
determinarsi all' azione, al movimento, al travaglio; piri elio la tensione 
prodotta dal freddo. Può patere un paradosso, ma 1' esperienza anello in- 
dividuale lo prova. Pare che 11 corpo rilasciato sia piti maneggiabile a so 
medesimo. Bensì la sna capacità ili travagliare e poco durevole ce. 



(3347-3348-3349) inu mati 2_1 

Ifiohi il corpo e loghi l'animo: elio il caldo addor- 
menti o ammollisca e illanguidisca e intorpidisca il 
corpo, eccitando e svegliando e sciogliendo 1 animo. 
L> attività del corpo è propria de' settentrionali, de me- 
ridionali quella dell'animo. Ma il corpo non opera so 
non mosso dall' animo. Quindi è clic i settentrionali, 
sebbene senza controversia sia lor propria 1 attività o 
laboriosità, pur sono veramente i più quièti popoli do la 
terra- e i ' meridionali i più inquieti, benché sia lor 
propria l'infingardaggine. I settentrionali hanno biso- 
gno di grandissimo impulso a muoversi, a sollevarsi, 
a cercar novità: ma (3348) mossi che sieno, non sono 
facili a racquietare. Vcdesi nelle loro stono, no e 
anali, massime nello moderne, c massime m quelle 
della Germania, pochissimo rivoluzioni si troveranno 
(specialmente a paragone di quelle de' meridionali), 
ma queste lunghissime, come quella di religione mossa 
da Lutero, e convertita ben tosto in rivoluzione poli- 
tica Sopportano facilmente la tirannia, fincli olla non 
gli spinge h bout, come gli svizzeri. Ubbidiscono vo- 
lentieri, e comandati travagliano (anche eccessiva- 
mente) più volentieri elio se operassero spontanea- 
mente. Vodesi nella loro milizia. I meridionali sono 
facili e pronti o frequenti a muoversi, rivoltosi i, poco 
tolleranti della tirannide, poco amici dell ubbidire, 
ma facilissimi ancora a racquietare, facilissimi a ri- 
tornare in riposo; mobili, volubili, instabili, vaghi 
di novità politiche, incapaci di mantenerle; vaghi di 
libeità incapaci di conservarla; al contrario de set- 
tentrionali cho di rado la cercano, poco se no curano; 
cercata o comunque acquistata, luiighissimamente la 
conservano. Infatti essi, o in particolare i tedeschi o 
teutoni, sono i soli in Europa che serbmo qualche 
vestigio di libertà, qualche immagine (3349) dello an- 
tiche repubbliche; i Boli ap.P° OTÌ le repubbliche si 
veggano per esperienza poter durare anche a tempi 
moderni. Vorbigrazia gli svizzeri, le città Ubere di 



334 pensieri (3349-3350; 

Germania, le repubbliehette de' Fratelli Moravi oc. 
Noi mezzogiorno d'Europa non esisto più neppure 
un'ombra di repubblica in alcun luogo, fuori di San- 
Marino. In Germania vo n' ha non poclio, od alcuni 
piccoli principati di colà si governano oggi, o per 
volontà del principe (corno Saxe-Gotha) o per costi- 
tuzione, quasi a maniera di repubblica e stato franco. 

Si applichino questo osservazioni a quello da me 
fatte p. 2752-5, 2926, lino -28, e viceversa quelle a 
queste (3 settembre 1823). Vedi p. 3676. 

* So l'idea del giusto e dell'ingiusto, del buono e 
del cattivo inoralo non esisto o non nasco per so nel- 
l'intelletto degli uomini, ninna legge di ninn legisla- 
tore può far che un'azione o un'ommissione sia giu- 
sta né ingiusta, buona né cattiva. Perocché non vi 
può essor ni una ragione por la qualo sia giusto né in- 
giusto, buono né cattivo, l'ubbidirò a qualsivoglia 
logge; e ninn principio (3350) vi può avere sul qualo 
si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a 
chi che sia, se l'idea dol giusto, del dovore e dol di- 
ritto, non è innata o ispirata (come vuole Voltaire, e 
cioè naturalmente e por innata disposiziono nascente 
nello menti degli uomini, com' ei son giunti all'età 
di ragione) negì' intelletti umani (4 settembre 1823). 

* Verbi in ito. ITeluor o kelluor aris da helhio o 
hduo onis. Mutuo a& e mutuar aris da mutuus. Cernito 
as da ccrnum (4 settembre 1823). 

* Insidia':, desidia sono ovidontomonte composti da 
in o de o dal nomo sedia, mutata 1' e in i come al 
solito, e come appunto in insidco, desideo da sedeo 
(vedi la p. 2890). Ma la voce semplice sedia che pur 
dovette esistere nel latino, poieh' esisterono i suoi 
composti, è perduta nel latino scritto, conservasi nel- 
l'italiano. Vedi il glossario oc, (4 sottembro 1823). 



(3350-3351-3352) pensieri 335 



* Continuativo. Mutilo e inntnito. Vedi il Porcellini 
iu ambedue quoste voci (4 settembre 1823). 

* Alla p. 2843. Anzi dal dirsi incettare, piuttosto 
"che incattare (come pur diciamo (3351) accattare, ri- 
scattare ce.) deduco ohe questo veri» spetti a' buoni 

Eempi della lingua latina, giacché ne' bassi tempi, e 
meno nelle lingue volgari, non si conservò e si tra- 
scurò questo uso di mutaro 1' a de' verbi latini in e o 
i por la composizione, e Te in i eo. (4 settembre 1823) 

* Alla p. 28*3. margino. Dico verbi dissillabi con- 
tando per una sola sillaba 1' co ne' verbi della seconda 
(do-cco), e l'io in quelli della quarta (au-dio), secondo 
il volgar uso da me altrove dimostrato, ohe per dis- 
sillabi li pronunziava. E dico dissillabi, avendo ri- 
guardo al toma, cioè alla prima persona singolare 
presente indicativa (4 settembre 1823). 

* Alla p. 3343. Generalmente appo gli antichi e 
nello nazioni o società primitive il nome d'infelico è 
un obbrobrio, o s' adopra per vitupero, por ingiuria, 
per ignominia, por biasimo, per rimprovero ec. e cosi 
si riceve. E l'esser tenuto per infelice è conio aver 
mala fama. E l'infelicità (qualunque) si rinfaccia come 
il delitto o il vizio ec. (4 settembre 1823). (3352) 

* Nisi me omnia fallunt, il vorbo meditar è un ve- 
rissimo e perfettissimo continuativo di msdeor. Con- 
tinuativo pel significato, e continuativo per la forma 
e la derivazione. 

Mcdeor non ha participio in us che sia usitato, ina 
secondo l'analogia il suo vero e regolare participio in 
us ò meditus. E eh' egli ora non l'abbia non fa meravi- 
glia. Innumerabili sono i verbi ohe più non 1' hanno, e 
clic l'hanno solamente irregolare, i cui participi in ws, 
o i cui participii in «* rogolari, sono stati da ino 



336 



dimostrati o si potrebbero dimostrare col mozzo de'con- 
tinuativi o frequentativi elio no derivano, o con nitri 
mezzi, benché essi participii sieno altronde all'atto inu- 
sitati. Similmente ho dimostrato pili participii in vs 
(o supini) di verbi elio n' hanno nn solo oggidì, o tre 
participii di verbi cho n' lianno oggidì soli duo ec. 

Medeor si fa derivare da \>Mu> o [a^Iiu regno, im- 
pero, perché il medico dee comandare. Misera <o fur- 
zatissima otiinologia. Tengo per indubitato che me-, 
dcor non ò altro se non il verbo jvfjSojiiai curo, curqm 
gero; verbo greco (3353) antichissimo, e che già era 
fuor d'uso, o sapeva almeno d'antico, a' tempi di Se- 
nofonte, come par ohe si debba raccogliere dal suo Sim- 
pmió, c. Vili, § 30. Che se i poeti (e quindi gli scrit- 
tori di stile fiorito e solistico) lo seguitarono a usare 
anche molto appresso, cosi fecero di mille altre voci 
anticho, anzi le usarono appunto perché antiche, e 
fatto peregrine e divise dal volgo. Cosi pur fecero i 
latini, cosi fanno i pooti italiani, e di ciò dico al- 
trove diffusamente. La molta antichità di questo verbo 
giova molto a poter credere eh' ei possa a vero in la- 
tino un fratello, proprio delia più antica latinità, 
com' è il verbo modem: Or dunquo che medeor sia lo 
stesso che jj.-fjSo|jir/.i si dimostra con più ragioni. E pri- 
mieramente estrinseche. 

1°, Non resta in greco che il medio o il pas- 
sivo QvfjSojiatj di questo verbo. Cosi in latino non re- 
sta che il deponente medeor, ondo medicar, altresì' 
deponente, del qualo vedi la p. 3264. 

2°, Se ad alcuno facesse forza ohe da n^So^ai pa- 
resse dover derivare medor non medeor, oltro che so gli 
potrebbero recare (3354) infiniti esempi di tali muta- 
zioni, massimo spettanti alla desinenza (anzi pur 
d'altre molto più sostanziali e non appartenenti alla 
desinenza e alla forma propria della congiunzione , 
Siceom' è questa), e massimo poi in voci cosi anticho 
(otvo; mascol, vinum neutro oc. oc); osservisi cho il 



(3354-3355) 



PKNSTF.ltT 



futuro di [iYi8o|iai è |j.T|S-fjao|j.ct[ come fosse da piif)Slo(i.at. 
Del tosto la difficoltà varrebbe quasi egualmente anche 
por (ji3a< impera, che ordinarissimamente si dice |ii3u> 
e ui$o|iat, non [ieSéio, del quale lo Scaglila non reca clic 
ìun solo esempio di Omero usante il participio jasSécdv 
(frequentissimo è per lo contrario (téSióv)^ o ciò l'orse 
piuttosto por proprietà di dialetto o per modificazione 
boetica. che per altro. Né si trova, eh' io sappia, il 
futuro pM\oofm né 1 ! aorista 1^0^ o ^^aà^v, 
come di ^ho^.a.i si ha p^ì'ipQfiMi 

Intrinsecamente, cioè quanto al significato, una 
bellissima prova che medeor sia lo stesso che p4]$òfu*t, 
si è la facilità, prossimità e naturalezza dell'etimo- 
logia. Il medicare è veramente curare, aver cura, con- 
sidera, provvedere, (tutti significati di pijSojioct) al ma- 
lato. E infatti (3355) non s'usa ogli in latino pecu- 
liarmente il verbo curare per medicare ? Non è divenuto 
questo senso, nel nostro volgare o ordinario uso, il solo 
proprio dello stesso verbo curare? cioè medicare, sa- 
nare.- Non è egli assolutamente (s'io non m'inganno) 
il solo senso che abbia lo spaglinolo curar? Cosi dite 
di cura, francese cu/te ec, cioè medicatura, guarigione. 
Dunquo medeor è pròpriamente |ri|to|Mtt anche poi si- 
gnificato, colla sola differenza ch'egli conserva solo un 
significato più particolare o specialo, in cambio d'uno 
più genorale; corno appunto è avvenuto, nel nostro 
volgar familiare e parlato, al verbo curare, e nella 
lingua spaguuola a curar, eh' è proprio lo stessissimo 
e idontico caso; e cosi a milioni d' altri verbi in di- 
versi casi. Sicchó medeor è |n*f|tyitfet, neppure metafo- 
rico (se non quando significa rimediare, sanare), ma 
noi senso proprio, e non istiraochiato, corno derivan- 
dolo da jj.éSui impero. 

Del MStO, osservisi che |«.i5<->, e particolarmente 
pityliat; vaio assai spesso il medesimo che ^Àfiofm, cioè 



') Si trova anello traflps&tMV o rtaflJllWotW. 
Lkoi'ABDÌ, — Pensieri, V. 



22 



338 



VF\-.*l|.-,l!l 



(3355-3356-3357) 



curo, curam gcro. E probabilmente (3356) l'uno e l'al- 
tro non vengono elio da una radice, e sono in origino 
un solo verbo, significante da principio o impero o 
curo, che ciò non monta al presente. Nego dunque elio 
medeor venga da (iéSai impero, non nego che venga da 
|j.:Sui, anzi da fiitójvu, curo, il elio vieno a ossero il 
medesimo cho derivarlo da p-f|$o|iat. Anzi, sebbene nello 
voci antichissime non si può né si dee molto guar- 
dare alle brevi e alle lunghe, c moltissime altre dif- 
foronze di questa sorta, ai potrebbero allegare tra voci 
greche e voci latine identiche di significato o corto 
di origine, o anche tra l'antico e il più moderno la- 
tino, o tra vari secoli della latinità o della grecita, 
intorno a una stossa voce; contuttociò non contra- 
Etorò cho medeor si derivi piuttosto da |jìqo[j.«i che 
da a cagione che la me di medeor ò breve si 

in osso, si in medicar e in tutti gli altri suoi deri- 
vati o composti (come remedium), non eccettuato il 
verbo meditar, di cui or ora. E si può ben credere 
che (jiSip/.' avesse l'anomalo futuro as&Y|<5enaf (come 
(l.4j8o(iai ha |.i.Y|S'f,a'jiiai), indicante il verbo inusitato 
p,e$éo|i.«t, massime cho si trova (3357) il suo attivo 
;j.E?éo>. Anzi sarà naturalissimo il supporre che medeor 
venga a dirittura dall'inusitato |j.e5so|j.'xi (fosso proprio 
di tutta la Grecia o solo di qualche dialetto che cosi 

10 mutasse da uì8o|aoc) e cosi il verbo medeor non po- 
trebbe, né pel significato né per la forma, essere più 
evidentemento, porfettamento, rogolarmonto e compi n- 
fcàménto lo stesso ohe il verbo greco. 

Da medeor dunque, cho poi passò a significare 
spocialmonto e unicamente il medicare, coi significati 
metaforici a questo convenienti; ma che da principio, 
secondo il sopraddotto, significò, siccomo il greco 
i).e'>ér>(i.ai generalmente curo, curam. gero, constilo; da 
medeor dico io che giusta l'ordinaria o regolare for- 
mazione do' continuativi da' participii in us, fu fatto 

11 verbo meditar. 



(3357-3358-3359) nw siimi 339 

1° Anclio meditor, conio medeór e come medi- 
cor o conio jiYi&o|J.«t, è doponente. 

2°, Meditor quanto al significato equivale appunto 
al greco Or questo donde è fatto? da fiiX» 

(oggi inusitato, so non (3358) impersonale) rame sum. 
e fora' anche fiwro, ondo (liUjwM cwro, curamgr.ro, ondo 
,wUrr] cura, ondo jnsX«(i<o, cwro, OUWM» i/ero, e quindi 
exerceo, exerceo me, meditar, siccome anche pXétf| vaio 
exereitatio, meditatio, anzi anche il participio |iejj.eX?ijxf< 
di trovasi puro per qui se exercuit ec. (vedi lo 
Soapula in pellài»). l ) Può darsi un esempio o una 
prova più bella? MsXsmio è propriamente il meditor 
de' greci, od esso viene da ftfXw euro, come meditor 
da medeor nel suo primitivo, proprio e generale si- 
gnificato, cioè appunto curo. Certo è ridicolo il dori- 
varo meditor da |ls Xetà<» (come fa il Porcellini), perche 
questi verbi significano la stossa cosa; ma sebbene 
quanto all'origino e alla stirpo essi non abbiano tra 
loro nulla che fare, contuttociò la derivazione do! 
verbo greco serve a mostrare evidentissimamente e 
chiarire la derivazione, la discendenza, l'origine, la 
radice del verbo latino a lui equivalente. Derivazione 
confermata e comprovata dalla nostra teoria dolla for- 
mazione de' continuativi, tra' quali questo (3359) e ro- 
golarissimo per la forma, proprissimo pel significato. 
Chi non vede che l'esercitare o il meditare una cosa 
è una continuazione del semplico averne o pigliarne 
cura? il che si può talvolta compiere in poca d'ora; 
ma quello di necessità e por sua natura esige durata, 
lunghezza, continuità di tompo. 

Ecco come la nostra teoria do' continuativi ri- 
schiara mirabilmente le origini della lingua latina, 
rettifica l'etimologie, mostra le vero o primitive pro- 
prietà delle voci, lo analogie scambievoli delle lin- 
gue Come qui, col l'osservazione che meditor debba 

') Lo ere*' crmra ili »tfimi>n por (H|M*«TWÓI«> 



3'J.O 



pensieri (3359-3360-336 1) 



venire da un participio in us oc; l u , trovasi il per- 
duto participio o supino di medeor; 2°, scoprasi la vera 
etimologìa di meditar) 3°, corroggosi o dichiarasi ij nulla 
di medeor; 4°, trovasi e dimostrasi il primitivo o pro- 
prio significato di questo verbo; 5 € , osservasi l'analo- 
gia tra la lingua greca e la latina nello paragonate 
derivazioni di meditar e di heXstcìco (vorbi equivalenti) 
rispetto al significato (3 settembre 1823). - • Come i 
re antichissimamente erano quello che dovevano, cioè 
tutori e curatori della repubblica, (Cicerone, de reo,), 
(3360) Ó tali orano riputati ben più che poscia non 
furono, ') non è maraviglia che il re fosse chiamato 
curatore (jj.éSwv) e il regnare curare, o viceversa. In- 
somma fu ben facile e naturale la traslazione dal- 
l'uno all'altro di questi significati, qualunque de' due 
si fosse il primitivo o proprio del verbo (téSco. 2 ) — Me- 
deor, meditor sono deponenti. Cosi pt^opi è medio. Ed 
è bon naturalo elio in senso di euro, curarti tjero si 
dicesse piuttosto (xtSioaat o pi8ou.ou elio jj.sSoo attivo, 
perché questo significato è di quelli che hanno un 
non so che di reciproco, i quali sogliono esprimersi 
in greco col verbo medio. Ond' è altresì naturalissimo 
che medeor sia deponente, venuto cioè da p.é&o|j.at o 
[isSéojicn, quantunque esista anche l'attivo di questo 
Verbo. Il quale non esiste in |vfj8o|MM. Ma ciò, per la 
detta ragione, non fa gran forza a provare che me- 
deor sia piuttosto |r»)8o|Xttt che il verbo [li^i» - (iéSo|iat 
(5 settembre 1823). 

* Tanto l'uomo è gradito e fa fortuna nella con- 
versazione o nella vita, quanto oi (3361) sa ridere 
(5 settembre 1823). 



') Cohì puro i ministri do' ro, i capit&llì fi tutti (inaili (dio comari: 
diwiioo e governarono. &noho posniJi. nmnì Mnvnnfn in tatto In lincilo, nd 
o^gì rio piti no mono, it governo fa ehfarosto n ai ri lìum . eura t e il gn- 
remare aver cura, come de' negtizi pithblivi, della cotta pubblica 8c, 

s ) Io pm- im> cincin inrfi[liit!itji.innnin lineilo di filtrare 



[336 1-3362-3363) pensieri J*41 

* Conskder francese continuativo di consto as, non 
'•.mutato l'o di constatus in i, il che dimostra che que- 
sto continuativo dov'essere latino-barbaro, o d'origino 
francese TI simile dicasi dello spagnuolo horadar (an- 
ticamente fondar) da foro a*. Vedi il glossano se 
fia nulla in propòsito (5 settembre 1823). 

« Alla p. 3282. L'uomo (cosi la donna) debole e bi- 
sognoso dell'opera altrui, o nato o divenuto, s'abitua 
ad ossero in qualche modo, più o mono, servito e sov- 
venuto dagli altri, ed esso a non servire né aiutare 
nessuno, perca' ei non può, quando anche da principio 
il desideri, quando anche per indole sia inclinato a 
beneficare. Per quest'abito ei contrae l'egoismo, il 
quale come vedete, non è ingenito in lui por se stesso, 
((mando anche ei sia stato sempre debole e bisognoso 
Jin dalla nascita), ma lìglio di un abito da lui latto 
o più presto o più tardi, incominciato fin dal princi- 
pio dèlia vita, o sul fior degli anni, o al mezzo, o sul 
declinare ec. Ter quest'abito ei s'avvezza a ■ "pa- 
rare (so non per ragione, corto praticamente) (3362) 
gli altri come fatti per lui, e sé come fatto per so 
solo, et' è appunto l'egoismo; diventa alieno dalla 
compassione e dalla beneficenza ch'egli non ha mai 
potuto o non può più esercitare, di cui non ha mai 
potuto acquistare o ha dovuto perdere l'abitudine 
(5 settembre 1823). 

* Alla p. 3078. Queste medesimo anomalie della 
lingua spaglinola, e quello molte più della lingua ita- 
liana (dello quali vedi la p. 2688, segg. e altri luoghi), 
nullo quali anomalie quoste lingue, por seguir la la- 
tina, abbandonano la norma della loro propria analogia, 
possono servire a far credere che quando elle dalla 
propria analogia non si scostano, non perciò abbando- 
nino la lingua latina, ma la segnano, non quale noi 
la conosciamo, bensì quale ella fu conservata nel voi- 



342 



l'ENSlliltl 



(3362-3363-3364) 



gare: massime so in questi casi si vegga, come spes- 
sissimo o l'orso lo più volto si vede, che la lingua 
italiana o spaglinola, seguendo la propria analogia, se- 
gue ancor quello elio sarebbe stato soeondo la vera 
analogia della lingua latina, sobben questa, per ciò 
ohe noi ne conosciamo, in moltissimi di questi casi 
non segua ossa analogia sua propria, ma sia anomala e 
(3363) irregolare. Laonde non sarà da dispreizarsi il 
testimonio che da 1 participii regolari italiani o spa- 
glinoli hì volesse trarre a provare che anche la lingua 
latina avesse i participii analoghi a questi (benché a 
noi sconosciuti), e da cui questi sieno derivati, Per 
esempio, dall'italiano veduto io potrò non vanamente 
dedurre il latino vidifocs che sarebbe appunto il rogo* 
larissimò latino, siccome quello è il regolarissimo ita- 
liano. Massime che siccome in latino visus anomalo, 
cosi trovasi ancora in italiano e in ispagnuolo l' ano- 
malo visto, in cui queste lingue lasciano la loro ana- 
logia per seguire, non già l'analogia, ma l'anomalia 
della lingua latina. Voggasi la p. 3032, segg. e in 
particolare la p. 3033, margino. Similmente si può 
discorrere dolla lingua francese. E general mento os- 
servando, si vedrà elio quanto ai participii passivi, 
quello eh' è o sarebbe regolare nelle linguo figlie 
(salve le solito o regolari modificazioni, cioè dello de- 
sinonzo dell' i vòlto in u nell'italiano, come a p. 3075 
e altre tali) è o sarobbe altresì rogohuo noi latino 
(5 settembre 1823). (3364) 

* Il subito passaggio dal gravo, sorio, lento, ma- 
linconico, passionato, raccolto e, come si dico, dall'ada- 
gio (s' io non m'inganno) all'allegro, all'accelerato, al 
dissipato, aNétourdì oc. ec, tanto usitato nolla nostra 
musica, anzi proprio di quasi tutte le nostre arie ec, 
non solo non ha fondamento alcuno nolla natura, ma 
anzi è generalmente contrarissimo alla natura, nella 
quale niente v'ha di subitaneo, e molto manco il 



(3364-3365) pensi eri 

passaggio da'contrarii ne'contrarii. Oltre che, astraendo 
pure dal subitaneo, l'allegro nuoce al passionato, spegne 
o raffredda la passione nogli animi degli uditori, con- 
trasta bruttamente con quello che procedette; 1' ottetto 
féll'una parte della melodia nuoco, contrasta, distruggo 
quello dell'altra; è inverisimile che un malinconico parli 
in tuono allegro, un passionato in tuono dissipato , e ai 
abbandoni al gaio, allo scherzevole, all' insouciant, al 
pazzeggiare oc. ec. Nondimeno l' assuefaziono elio chiun- 
que ha udito musica, dove tra noi aver fatto a quosti 
tali passaggi, co li fa parer conveniontissimi, ce li 
fa aspettare come naturali, come richiesti dalla me- 
lodia oc. procedente, come dovuti, come proprii asso- 
lutamente della composizione musicale; fa che il no- 
stro orecchio li richiegga come spontaneamente e 
naturalmente (e cosi è infatti, perché l' assuefazione e 
seconda natura); anzi, mancando ossi, ci fa conside- 
rar questa mancanza come sconvonienza; fa elio il 
nostro orecchio desideri alcuna cosa, non resti soddi- 
sfatto, anzi resti come cKòqué e molti della mancanza, 
deluso spiacevolmente dell'aspettativa; insomma la 
olio tal mancamento (3365) produca il senso e il giu- 
dizio dell'imperfetto, del mutilo, del disavvenevolo, e 
quindi del disaggradevole, e quindi del brutto musi- 
cale l ) (5 settembre 1823). Dunque l'idea del contrario, 
del brutto, cioè del bello e della convenienza musi- 
cale, dipondo ed è determinata dall'assuefazione, tanto 
che so questa è , non solo non naturale, ma contraria 
alla natura, anche quel bello e quella convenienza, 
cioè l'idea cho noi n'abbiamo, è, non solo oltre .na- 
tura e non fondata sulla natura , né prodotta dalla 
natura, ma contro natura (6 settembre 1823). 

li ii ,i*tto naesaEfflo è aiwttaitiente contrario all' Imitazióne; che 
, • } ^&S%nò o l'i, ilici» della «maloa, oome dell'atee 

X dovrebbe W *»« — <° 

u,„ cosa con eaaa ce. Dicio dico altrove. 



pENSiiciti (3365-3366-3367) 



* « J'ai vu quatre sauvages de la Loui$iane qu'on 
amena gii Franco, on 1723. Il y avait parmi oux uno 
temine d'uno humour fort dauco, Je lui domandai, par 
interprete, si elle avait mangé quelquefois de la chair 
de ses ennemis, et si elle y avait pria goùt; olio me 
répondifc qu'oui ; je lui domandai si elle aurait volon- 
ticrs tuó ou fait tuer un do sos compatri otes pour le 
manger; elio me répondit en frémissant, et avec uno 
horrenr visible pour co orimo. » Volta ire, Corre- 
spondance du Prinee Euyal de Prusse (dopuis Frc- 
déric II) et M. da Voltaire, .Lettre 31, octobro, (3366) 
à Ciroy, 1737. tome 1* de la Oorrenpondance de Fri- 
dèric 7.7, Eoi de Prugse, X c do la oolleotion dea Oe.u- 
vres Complettes de Frédéric II, Eoi de Prussia, J70O, 
p. 142 (G sottombro 1823). 

* La lingua latina s' introdusse, si piantò e rimase 
in quelle parti d'Europa nello quali entrò antica- 
mente o si stabili la civilizzaziono. Ciò non fu che 
nella Spagna e nelle Gallio. Quella lino dagli antichi 
tempi produsse i Seneca, Quintiliano, Coluinella, Mar- 
ziale oc., poi Morobaude, S. Isidoro oc. o altri moltis- 
simi di mano in mano, i quali divennero letterati o 
scrittori latini, senza neppure uscire, come quei primi, 
dal loro paese, o quantunque in esso educati, e non, 
conio quei primi, in Roma. Lo Gallio produssero Petro- 
nio Arbitro, Favolino ec, poi Sidonio, S. Ireneo ec. 
La civiltà v' ora già innanzi i romani stata introdotta 
da coloni greci. Pi più la corte latina v : ebbe sede per 
alcun tempo. La Germania, bonchó soggiogata anch'essa 
da' romani, e parte dell'impero latino, non diede mai 
adito a civiltà né a lottore, né a' buoni no a' mediocri 
né a' cattivi tempi di q noli 'imporo. Ella fu sempre 
barbara. Non si conta fra gli scrittori latini di veruna 
latinità (3367) (se non doll'infimissima) ninno che 
avesse origino germanica o fosse nato in Germania, 



346 

(3367-3368) _ pknsusiu _ _ 

Ume^i conte pur ojiui di tutto l'altre provinolo o 
Ri dell'impero romano. Quindi è olio la Germana, 
Gufai suddite latina, benché vicina all'Italia, wm 
«mimante, come la Francia, 8 più vicina assai che 1 
Ena, non ammise l'uso della lingua latina 6 non 
Urla latino (cioè una lingua dal latino derivata), ma 
enerva il suo antico idioma (forse anche fu cagione 

I «S e delle cose sopraddetto, che la Gerinama non 
g mai intieramente soggiogata, ne suddita padhca, 

om la Spagna e le Gallie; si por la naturale ferocia 
Sa na.i ne, si por esser ella sui confini delle ro- 

' conquiste, e prossima ai popoli d'Europa non 

onestati e nemici de' romani, e sempre injgefa e 
ribellanti, onde ad essa ancora nasceva e la facilita e 
lo stimolo e l'occasione e l'aiuto e il comedo di n- 
ù are). Senza ciò la lingua latina avrebbe indubita- 
ta unte spento la teutonica, né di essa resterebbe 

"or notìzia o vestigio che della celtica e dell'al- 
ene la lingua latina spense affatto m Ispagna e 

» (3368) lancia. Pelle quali la teutonica non doveva 
ica esser più dura né più difficile a spegnere. Aim 

I I celtica doveva anticamente essere molto più colta e 
perfetta o formata che la teutonica, il che si rileva 
i dallo notizie che s' hanno de' popoh che la .parla- 
rono e delle loro istituzioni (come de' Druidi, de Bardi, 
cioè poeti ec). e della loro religione, costumi, cogni- 
^ onilt * ^ quello che avanza pur d'essa lingua ce - 
t.ica e do' cauti bardici in essa composti ec. L ingh 

erra par ohe ricevesse fino a un certo segno l' uso della 
,gu latina, eerto, se non altro, come lingua letterata 
e da scrivere. ') Ella ha pure scrittori, non solo del 



... 1 aI* "li * in D ft to»i», -11- isolo grwhe e difetti domMi 



ohi ce. 



PENSIERI (3368-33S9-3370) 



L'inflìtta, ma anche della media latinità, comò Eeda ec. 
Ma era già troppo tardi, ai perché la lingua latina 
era già corrotta e moribonda per tutto, anello in Italia 
sua prima sedo, si porché l'impero latino era nel caso 
BÉèsBo; Quindi i Sassoni facilmente distrussero la lin- 
gua latina in Inghilterra, ancora inferma e mal pian- 
tata, o propria solo dei dotti (com' io credo), e lo sosti- 
tuirono la (3369) teutonica, trionfando allo stesso 
tompo (almeno in molta parte dell'isola) anche del- 
l'idioma nazionale, indigono, ineritalo; e volgare, cioè 
del celtico ce, al qual trionfo doveva puro aver già 
contribuito la lingua latina, soggiogata poi anch'essa, 
e più presto ed interamente dell' indigona, da quolla 
do' conquistatori. Laddove nello Gallie i Fianchi non 
poterono mica introdurre la lingua loro, benché con- 
quistatori, né estirpar la latina, bon radicata, o per 
lunghezza di tempo, c perché insieme con essa erano 
penetrati c stabiliti nelle Gallie i costumi, la civiltà, 
le lettere, la religione latina, e perché quivi dotta 
lingua non ora già propria ai soli dotti, ma comune 
al volgo, ond' essi conquistatori l' appresero, e par- 
lata oc. Cosi dicasi de' Goti, Longobardi ec. in Italia, 
de' Vandali ec. in Ispagna. Che se la lingua latina in 
Italia, in Francia, in Ispagna trionfò dello lingue 
germaniche, benché parlato da' conquistatori, può esser 
sogno oh' olla ne avrebbe pur trionfato nella Germa- 
nia, ov' elio parlavansi da' conquistati, se non 1' aves- 
sero impedito le cagioni dette di sopra. Perocché si 
vede elio la lingua latina trionfava (3370) dolFaltro, 
non tanto come lingua di conquistatori e padroni, su- 
perante quella do' conquistati e do' servi, né come 
lingua indigona o naturalizzata, superante le fore- 
stiere, avventizie e nuovo ; quanto corno lingua cólta 
e formata, superante le barbaro, incólte, informi, in- 
certe, imperfetto, povoro, inBunieienti. indeterminato. 
Altrimenti non sarebbe stato, corno fu, impossibile ai 
successivi conquistatori d' Italia, Francia, Spagna, il 



(3370-337 1-3372) "' PBKSUffftì -V ./ ™> 

far .mallo elio i latini ne' medesimi paesi, conquistan- 
Bi, avevano fatto; cioè l'introdurrò le prozie lin- 
gue in luogo di quello de' vinti. Nel mentre che i 
Lsoni in Inghilterra, Certo né più civili, nj Po- 
tenti de' Franchi, de'Goti, do- Mori ec, i SasBom,^- 
co. in Inghilterra, e poscia i Normanni, trionfava no 
pur senza pena dolio lingue indigene di quo U «ola, 
lerohó mal formate ancor esse, benché non affatto bar- 
baro, ed anzi (per esempio la celtica) pm colto oc. dello 
loro Ma queste vittorie della lingua latina si ne - 
\ introdursi fra' conquistati, e forestiera scacciavo lo 
jngue indigene; si nel mantenersi malgrado 1 con- 
quistatori, e in luogo di cedere, divenir propria an- 
che di questi, si dovettero, come ho detto, in grandis- 
sima parte alla civiltà dei (3371) costumi latini e 
Ille lettere latine con esse lingue introdotte o con- 
servate : di modo che dotta lingua non riporto tali 
vittorie, solamente come cólta e perfetta per se, ma 
come congiunta od appartenente ai colti e civili co- 
stumi, opinioni o lettere latine. Perocché come ho 
dotto sempre ch'ella ne fu disgiunta, cioè dovunque 
la civiltà e letteratura latina, e V uso del Viver la- 
tino, o non s' introdusse, o non si mantenne, o scarsa- 
mente s'introdusse o si conservò; ne anche s intro- 
dusse la lingua latina, come in Germania, o non Si 
mantenne, come accadde in Inghilterra. E ciò ai vedo 
non solo in queste parti d'Europa, che non ammaro 
la civiltà latina per eccesso di barbarie, o che non 
ammettendola, restarono barbare; ma eziandio in 
quello dove una civiltà od una letteratura indigena 
escluse- la forestiera, in quelle che non ammettendo i 
costumi nó le lettere latine, restarono pero, quali 
erano, civili o letterate, cioè nelle nazioni greche. Le 
quali 'non ricevendo l'uso del viver la ino non rice- 
vettero neppur la lingua, benché la sede dell impero 
(3372) romano, e Eoma e il Lazio, per cosi dire, fos- 
sero trasportato e lunghissimi secoli dimorassero noi 



34B 



i'kxsikki 



(3372-3373) 



loro seno. Ma la Grecia contnfctociò non parlò mai nti 
scrisse latino, ed ora non parla né scrive ohe greco. 
Ed essa era pur la parte più . civile d' Europa, non 
esclusa la stessa Roma, al contrario appunto della 
Germania. Sicché da opposto, ma analoghe e corrispon- 
dènti e ragguagliato o proporzionato cagioni , nacque 

10 stesso effetto. 

Tutto ciò che ho detto doli' Inghilterra si retti- 
fichi consultando gli storici, e quello che altrove ho 
scritto circa 1' uso della lingua latina in quel paese 
e nella Scozia e nell'Irlanda (6 sottombro 1823). 

* Dialetti della lingua latina. Vedi Cicerono, //ro 
Ardila -poeta, c. X, fine, dove parla do' poeti di 
Cordova pingue quiddam sonanti-bus atque perei/ rinum. 
Non avevano certamente questi poeti scritto nella 
lingua indigena di Spagna , elio i romani mai non 
intesero, siccome niun' altro idioma forestiero, eccetto 

11 greco; ina in un latino che sentiva di spagnoli- 
smo, come quel di Livio parve (3373) sapere di par 
tavinità. E le parole di Cicerone, chi ben le consideri 
anche in se stesse, non possono significare altro. Pe- 
rocché era fuor di luogo la nota di peregrino se si 
fosse trattato di ima lingua forestiera, clic non in 
parto, o por qualche qualità, ma tutta è peregrina: 
né questo in lei sarebbe stato difetto, e volendolo 
considerar come tale, soverchiamente leggiera e spro- 
porzionata sarebbe stata quella semplice espressione 
che la lingua e lo stilo di quei poeti sapeva di fo- 
restiero. Oltreché l'usa e l'altro sarebbero stati bar- 
bari, o per le orecchie romane affatto strani, rozzi, 
insolenti, insopportabili, non cosi solamente mac- 
chiati d'un non so che di pingue o di peregrino. Era 
in Cordova introdotta già (siccome in altre parti della 
Spagna già soggiogata, porche quella provincia non fu 
sottomessa che a poco a poco, c con grandissimo in ter- 



(3373-3374-3375) pensieri P*" 

Clio una parto dopo l'altra, o, come osserva Velloio, ') 
|„ di tutte la più renitente, o tra le romane cor- 
fciate la più lunga o difficile o per lungo tempo m- 
Ltìssima); era, - dico, introdotta già in ^dova la 
lin-ma e la letteratura latina, siccome (3374 dimo- 
stra l'aver essa poi potuto produrrò i Seneca e Lucano 
l'esempio dolio stile de' quali può (quanto allo stilo) 
servire pur troppo di copioso commonto allo parole 
di Cicerone, che, s'io non m'inganno, della lingua 
no n meno dio dolio stilo si debbono intendere (6 set- 
tembre 1823). 

* Dico in più luoghi che la natura non ingenera 
nell'uomo quasi altro che disposizioni. Or tra questo 
bisogna distinguere. Altro sono disposizioni a poter 
essere altre ad essere. Per quello l'uomo può divenu- 
tale o tale; può dico, o non più. Per questo 1 uomo, 
naturalmente vivendo, e tenendosi lontano dall arto, 
indubitatamente diviene quale la natura ha voluto 
di' oi sia bendi' ella non 1» abbia fatto, ma disposto 
solamente a divenir tale. In questo si deve conside- 
rare l'intenzione della natura: in quello no. E se poi 
q nelle 1' uomo può divenir tale o tale, ciò non im- 
porta che talo o tale divenendo, egli divenga quale 
a natura lì a voluto di' ei fosse: perocché la natura 
, )0r quelle disposizioni non ha fatto altro che lasciare 
all' uomo la possibilità di divenir talo o tale ; ne 
Sello sono (3375) altro die possibilità. Ho distinto 
due generi di disposizioni per parlar pm chiaro. Ora 
parlerò più esatto. Le disposizioni naturali a poter 
ossero e quello ad essere, non sono diverse indivi- 
dualmente l'une dall'altro, ma sono individualmente 
lo medesime. Una stessa disposizione è ad essere e 
a poter essere. Tu quanto ella è ad essere, 1 uomo, 



') VBU.RIO, ti, ». » i *&m ». »! L,v,0 > XXV11I. 13. 



3Ò0 



l'KNSIUI.'l 



(3375-3376-3377) 



Seguendo le inclinazioni naturali, e non influito da 
circostanze non naturali, non acquista clic lo qua- 
lità destinategli dalla natura, o diviene quale ei 
dev'essere; cioè quale la natura obbo intenzione eli' ci 
divenisse, quando pose in lui quella disposizione. 
In quanto ella è disposiziono a poter essere, 1 ! uomo 
i rifluito da vario circostanze non naturali, siano in- 
trinseche sieno estrinseche, acquista molto qualità 
non destinategli dalla natura, molto qualità contrarie 
eziandio all' intenzione della natura, e diviene qua! 
ei non dov'essere, cioè quale la natura non intese 
eh' oi divenisse, nell' ingenerargli quella disposiziono. 
Egli però non divion talo per natura, benché questa 
disposizione sia naturale: perocché essa disposiziono 
non era ordinata a questo (3376) circi divenisse talo. 
ma era ordinata ad altre qualità, molte dolio quali 
allatto contrarie a quello cho egli ha per detta di- 
sposiziono acquistato. Bensì s' egli non avesse avuto 
naturalmente questa disposizione, egli non sarebbe 
potuto divenir tale. Questa ò tutta la parte cho ha 
la natura in ciò ohe tale ei sia divenuto. Siccome, so 
la disposizion fisica del nostro corpo non fosse qual 
olla è por natura, 1' uomo non potrebbe, per esempio, 
provare il doloro, divenir malato. Ma non perciò la 
natura ha cosi disposto il nostro corpo acciocché noi 
sentissimo il doloro o infermassimo; né quella dispo- 
siziono è ordinata a questo, ma a tutt' altri e contrarli 
risultati. E 1' uomo non inferma per natura: bensì può 
por natura infermare; ma infermando, ciò gli accado 
centra natura, o fuori e indipendentemente dalla na- 
tura, la quale non intese disporlo a informare. 

Similmonto si discorra degli altri animali, o di 
mano in mano degli altri goneri di creature, con que- 
st'avvertenza però e con questa proporziono, cho negli 
altri animali le disposizioni (3377) ingenite sono più 
ad essere che a poter ossero; il elio vuol dire che gli 
animali sono naturalmente meno conformabili dol- 



(3377-3378) pensieri 351 

V nonio; che essi per lo loro naturali disposizioni, non 
solo non debbono acquistare altre qualità che le de- 
stinato loro dalla natura, il che è proprio anche del- 
l' nonio, ma non possono acquisiamo molto diverso 
da queste, come 1' uomo può; non possono acquistar 
tanto e cosi varie qualità, come 1» uomo può, per es- 
sere sommamente conformabile: in fino ohe le loro 
naturali disposizioni non rendono possibile tanta va- 
rietà di risultati, non possono esser cosi diversamente 
applicate o usate corno quelle dell' uomo. Ond e cho 
gli animali non acquistino quasi altre qualità che le 
destinato loro dalla natura, non divengano se non 
quali la natura gli ha voluti, quali olla intese che 
divenissero noi dar loro quelle disposizioni. Il che 
vuol dire eh' oi si mantengono nello stato naturate: 
ohe non è altro se non quello che ho detto, cioè di- 
venir tali quali la natura ha inteso; porche ne anche 
eli animali nascono, ma divengono; ne la (3378) na- 
tura ingenera in essi delle qualità, ma delle dispo- 
sizioni, ben più ristrette che quello dell'uomo. In 
questo modo e con questa proporzione passando ai 
vegetabili, e quindi scendendo per tutta la catena 
degli esseri, troverete che te naturali disposizioni 
sono di mano in mano sempre maggiormente ad os- 
sero cho a poter essere, cioè si restringono, finche 
gradatamente si arrivi a quegli enti no' quali la na- 
tura non ha posto disposizioni né ad essere né a 
poter essere, ma solo qualità. Del qua! genere io non 
credo che alcuna cosa si possa in verità trovare, 
esattamente e strettamente parlando, ma largamente 
si potrà dire cho di tal genere sia questo nostro 
globo tutto insieme considerato e rispetto al sistema 
solare o universale, e similmente i pianeti e il sole 
e lo stelle e gli altri globi celesti. Ne' quali e ne moti 
loro e por dir cosi, nella vita e nell'esistenza rispet- 
tiva dogli uni agli altri, rdun disordine si può tro- 
vare, ninna irregolarità, niun morbo, niuna ingmnn, 



352 



PENSIERI 



(3378-3379-3380) 



rniin accidente, successo o effetto che sia contro né 
fuori delle intenzioni avuto dalla natura noi porro in 
eggj le qualità che ci ha posto; dico le qualità ri- 
spettivo (3379) che hanno gli uni verso gli altri, lo 
quali negli effetti e nell'uso loro sempre o interamente 
corrispondono alle primitive destinazioni della na- 
tura, e immutabilmente sorbano ed efficitmt quell'or- 
dine dell'universo che la natura volle espressamonto 
o vuole, e quella vita o esistenza ch'essa natura gli 
ha destinata, e tale né più né meno quale olla in- 
tese o ordinò che fosso. Da questo genero di esseri 
rimontando indietro per insino all' uomo, troveremo 
sempre di mano in mano decrescerò secondo l'ordine 
dello specie e de' generi, il numero e l'efficacia e 
importanza delle qualità ingenerate in ciascun di ossi 
generi o specie dalla natura, e crescere altrettanto il 
numero o l' estensione, la varietà o piuttosto la va- 
riabilità o adattabilità dolio disposizioni in osso dalla 
natura ingenerato: o queste disposizioni esser da prin- 
cipio solamente, o quasi dol tutto, ad ossero, poscia 
oziandio a poter essere, e ciò sempre più salendo 
pe' vegetabili ai polipi, indi por le varie specie d'ani- 
mali fino alla scimia e all'uomo salvatieo. e da queste 
specie all' uomo. Nella cui parto che si chiama mo- 
rale o spirituale troveremo, come ho dotto, che (3380) 
la natura non ha posto di sua mano quasi veruna 
qualità determinata, se non pochissimo, o queste sem- 
plicissime: tutto il resto disposizioni, non solo ad es- 
sere, ina a poter ossero tante cose, ed acquistare tanto 
varie qualità, quanto nitro altro genere di enti a 
noi noti. J£ per questa scala ascendendo, troveremo 
colla medesima gradazione, che quanto minore in 
ciascun genero o specie è il numero e il valore delle 
qualità ingenite e naturali, quanto maggioro quello 
delle disposizioni artrosi naturali, e quanto maggior- 
mente queste disposizioni sono a potor essoro (ossia 
divenire), tanto maggiore esattamente in ciascuno 



(3380-3381-3382) p ensieri 35 ^ 

d' essi generi o specie, e noli' esistenza loro, e negli 
effetti loro sopra se stessi e fuor di so stessi e il 
numero e la grandezza de' disordini, delle irregola- 
rità do' morbi, de' casi, degli accidenti, de' successi 
non naturali, non voluti o espressamente disvoluti 
dalla natura, contraili alle intenzioni e destinazioni 
fatte dalla natura nel tonnare quei tali generi o spe- 
cie, e nel cosi disporli com'essa li dispose, si rispetto 
a se stessi, si riguardo agli altri generi o specie a 
cui essi hanno relazione, ed all'intera (3381) univer- 
sità dello coso. Tutto ciò troverassi nelle meteore, 
ne' vegetabili, negli animali sopra tutto, e fra gli 
animali, sopra tutti nell'uomo, ossia nel genero umano. 
Perocché il vivonto è meno dell'altre cose tutto com- 
posto di qualità naturali, e più di disposizioni; e tra'vi- 
vonti 1' uomo in massimo, grado. Nel quale è mag- 
gior la vita che negli altri viventi; e la vita si può, 
secondo lo fin qui dette considerazioni, definire una 
maggiore o minore conformabilità, un numero e va- 
lore di disposizioni naturali prevalente in certo modo 
(più o mono) a quello delle ingenite qualità. Mas- 
sime rispetto allo spirituale, all'intrinseco, a quello 
che, propriamonte parlando, vive; a quello in che sta 
propri amento e si esercita la vita, in che siede il 
principio vitale e la facoltà dell' azione, sia interna 
sia estorna, cioè la facoltà del pensiero e della sen- 
sibile operazione ec. Nella qual facoltà consisto pro- 
priamente la vita ec. (6-7 sottombro 1823). Por lo 
contrario lo cose ohe meno partecipano della vita sono 
quelle cho per natura hanno meno di qualità o più 
di disposizione, cioè le meno conformabili natural- 
mente. E so v' ha cosa che non sia punto conior- 
mabile naturalmente, quella niente partecipa della 
vita, ma solo esiste; quella è cho si dee propria- 
mente (3382) chiamare semplicomonto e puramente 
esistente ec. ec. ec (8 settembre, Natività di Maria 
Stintissima, 1823). 

Lkui-aum. — i'eiuim, V. « B 



354 



PENSIERI 



(3382-3383) 



* Alla p. 3343, margino. È da notare che tutti questi 
nomi per etimologia non significano propriamente al- 
tro elio misero , afflitto ec. o povero oc. o fatichevole 
ec, ovvero miseria, calamità, povertà, laboriosità ec. 
E che in processo di tempo molti di essi, e forso i 
più. perduta o fatta men comune e antiquata o poe- 
tica 60, questa significazione, non ritennero nell' uso 
ordinario cho quella di ribaldo, cattivo, scellerato, mal- 
vagità, nequìzia, ec, quasi fosse impossibile che il mi- 
sero non forse malvagio. Probabilmcnto la distinzione 
tra itóvvjpos mixer e itov/;pi; impTÒbus, e la diversa ac- 
centazione non vien che da' grammatici greci, i quali 
non considerarono i tanti altri esempi di voci si gre- 
che , si forostioro cho riuniscono V una o l'altra si- 
gnificazione , e non avvertirono che la seconda ó un 
vero e mero traslato della prima (8 settembre, Nati- 
vità di Maria Vorgino Santissima, 1823). 

* E tanto mirabile quanto vero, che la poesia la 
i] italo cerca per sua natura o proprietà il bollo, e la 
filosofia ch'ossonzialmonto ricerca il vez - o, cioè la cosa 
più contraria al bello; sieno le facoltà le (3383) più 
atfinj tra loro, tanto cho il vero poeta è sommamente 
disposto ad essor gran filosofo, e il vero filosofo ad 
esser gran poeta , anzi né 1' uno né l'altro non può 
esser nel gener suo né perfetto né grande, s' ei non 
partecipa più che modiocromonto dell' altro genero , 
quanto all'indole primitiva dell' ingogno, alla dispo- 
siziono naturale , alla forza dell' immaginazione. Di 
ciò ho detto altrove. Le grandi verità, e massimo 
noli' astratto e nel metafisico o nel psicologico oc. 
non si scuoprono so non per un quasi entusiasmo 
della ragione, né da altri che da chi è capace di questo 
entusiasmo (eccetto eh' olle siono scoporto a poco 
a poco, piuttosto dal tempo e dai secoli, cho dagli 
nomini, in guisa cho a nessuno in particolare possa 
attribuirsene il ritrovamento , il che spesso accado). 



(3383-3384.-3385) pensi kui 



La poesia, e la filosofia sono entrambe del pari, quasi 
.le sommità dell'umano spirito, le più nobili o lo piti 
difficili facoltà a cui possa applicarsi l'ingegno umano. 
E malgrado di ciò, e dell'esser l'una di loro, cioè la 
poesia, la più utile veramente di tutte le facoltà, si 
la poesia (3384) come la filosofia sono del pari le pili 
sfortunate e disgraziato di tutte le facoltà dolio spi- 
rito. Tutto V altre dànno pano, molte di loro recano 
onoro anche durante la vita, aprono P adito allo di- 
gnità ec. : tutte l' altre, dico, fuorché queste, dallo 
quali non v'è a sperar altro che gloria, e soltanto 
dopo la morte. Povera e nuda vai, jilosnjìa. ') Della 
sorte ordinaria de' poeti mentre vivono, non accade 
pai-laro. Chi s'annunzia per medico, per legista, per ma- 
tematico, por geometra, per idraulico, per filologo, per 
antiquario, por linguista, per perito anche in una sola 
lingua; il pittore oziandio e lo scultore c l'architetto, 
il musico, non solo compositore ma esecutore, tutti 
questi son ricevuti nelle società con piacere, trattati 
nello conversazioni o nella vita civile con istima, ri- 
cercati ancora, onorati, invitati, e quel ch'ò più pre- 
miati, arricchiti, olovati alle cariche e dignità. Chi 
s'annunzia solo per poeta o per filosofo, ancorch'egli 
lo sia veramente, e in sommo grado, non trova chi 
faccia caso di lui, non ottieno neppure eh' altri gli 
parli con loggiero tostimonianzo di stima. La ragione 
si è che tutti si credono esser filosofi, (3385) ed aver 
quanto si richiede ad esser poeti, sol che volessero 
metterlo in opera, o poterlo facilissimamente acqui- 
stalo e adoperare Laddove chi non è matematico, 
pittore, musico ee. non si crede di esserlo, e riguarda 
come suporiori per questo conto a lui ed al comune 
degli uomini, quei che lo sono. TI genio, da cui prin- 
cipalmente pende e nasce la facoltà poetica e la filo- 



') Pbtuaiic*, 8on. Im gola, il tonno. 



35(5 pensieri (3385-3386) 

Sofloa, non si misura a palmi, corno ciò elio si ri- 
chiedo a esser medico o geometra. Quindi nasco che 
quello oh' ò più raro tra gli uomini tutti si erodano 
possedorlo. E quindi è ohe le duo più nobili, più 
diffìcili o più rare, anzi straordinario, facoltà, la poosìa 
e la filosofia, tutti erodano possederle, o potorio acqui- 
stare a lor voglia. Oltre ohe il gonio non può essere 
né giudicato, né sentito, né conosciuto, né apergu 
ohe dal genio. Del quale mancando quasi tutti, noi 
sontono né se n'avveggono quand'ei lo trovano. E il 
gustare, e potere anche mediocremente estimare il 
valor delle opero di poesia o di filosofia , non è che 
de' veri poeti e de' veri filosofi , a differenza delle 
opore dell'altro facoltà oc. (338B) 

E qui si consideri il divario fra gli antichi 
e i inodorai tempi. Che fra gli antichi i filosofi, o 
massimo i poeti, avevano senza contrasto il primo 
luogo, se non nella fortuna (molti filosofi 1' ebbero an- 
cora nella fortuna, corno Pitagora, Empedocle, Ar- 
chita, Solone, Licurgo ed altri de' più antichi, che fu- 
rono padroni dello rispettivo repubbliche), corto nella 
ostimazion pubblica , non solo dopo morte , ma du- 
rante la loro vita. E puro molti più erano allora che 
oggidì quelli che potevano esser poeti, perché l' im- 
maginazione era signora degli uomini ; e la dobole 
filosofia di quo' tempi non distingueva gran fatto i 
filosofi da' volgari, né molto si richiedeva per giun- 
gere allo loro cognizioni e por salire alla loro al- 
tezza. ■ — ec. ec. (8 settembre. Natalizio di Maria Ver- 
gine Santissima, 1823). 

* Alla p, 3205. Un suono dolce o penetrante, indi- 
pendentemente dall' armonia o melodia cho può sem- 
brare aver rapporto alle idee, gli odori, il tabacco ec. 
influiscono sull' immaginazione massimamonte, e v'in- 
fluiscono in modo al tutto fisico, cioè senz' alcun rap- 
porto por se stossi alle idee. Laddove quegli oggetti 



(3386-3387-3388) fensieui 



357 



olio agiscono sull' immaginazione (3387) e la risve- 
gliano ec. per mezzo del senso della vista, lo fanno 
eccitando certe idee apposite, legate a quei tali og- 
getti o por la lbr propria forma, o per lo rimembranze 
eli' ossi destano nolla memoria, o per immagini ade- 
guato o analogho in qualunque modo a quella tal 
vista ec. Niente di ciò accade noi suono semplico- 
monto considerato, negli odori, nel tabacco ec. so non 
accidentalmente, od anche fuori di tale accidente, 
quello coso influiscono a dirittura sulla facoltà im- 
maginativa. Cosi discorrasi anche della luce per so 
stossa e indipondontemente dagli oggetti eh' ella ci 
discuopre allo sguardo ; perocché ancho la luce por so 
influisco e svoglia tìsicamente la facoltà immagina- 
tiva, senza relaziono propria e particolare a veruna 
idoa. Corto 1' immaginazione e visibilmonte sotto- 
posti a millo cause totalmente flsicho, che la com- 
muovono e scuotono, o l'assopiscono e intorpidiscono, 
la sollovano o la deprimono, 1' eccitano o la ratìro- 
nano, la scaldano o l'agghiacciano. Se dunque l'imma- 
ginazione, (3388) perché non l'ingegno? mentre quella 
è puro una facoltà tutta spirituale o tutta apparte- 
nente a ciò che noli' uomo si considera come spinto ; 
ò una parto o facoltà dell' animo solo, dello spinto ec. 
e dello stosso ingegno (9 settembre 1823). Vedi p. 3552. 



* Molti prosenti italiani che ripongono tutto il 
pregio dolla poesia, anzi tutta la poosia, nollo stile, e 
disprezzano affatto, anzi noppur concepiscono, la no- 
vità do' pensieri, dello immagini, de' sentimenti ; o 
non avendo né ponsieri, né immagini, né sentimenti, 
tuttavia por riguardo dol loro stilo si credono poeti, 
o poeti perfetti e classici : questi tali sarebbero forse 
ben sorprosi se loro si dicesso, non solamonto che Ohi 
non è buono allo immagini, ai sentimenti, ai pensieri 
non è poeta, il che lo negherebbero schiettamento o ìm- 



3. r i8 



PENSIERI 



(3388-3389-3390) 



plicitamente ; 1 ) ma die chiunque non sa immaginare, 
pensare, sentire, invontaro, non può né possodcro un 
buono stilo poetico, né tenerne l' arto, né eaoguirlo, 
né giudicarlo nelle opere proprio né nelle altrui; elio 
1' arto o la facoltà e 1' uso doli' imnmginaziono o del- 
l' invenzione è tanto indispensabile allo stile (3389) 
poetico, quanto o torso ancor pili ch'ai ritrovamento, alla 
scolta e alla disposiziono della materia, alle sentenze e a 
tutte 1' altro parti della poesia ec. (vedi a tal propo- 
sito la p. 3978-80). Onde non possa mai osser poeta 
por lo stile chi non ó poeta por tutto il rosto, né 
possa aver mai uno stilo veramente poetico clii non 
ha facoltà, o avendo facoltà non ha abitudino, di sen- 
timento, di pensiero, di fantasia, d'invenzione, in- 
somma d'originalità nello scrivere (!) sottombro 1823.) 

* La lingua spagnuola, secondo me, può ossero agli 
scrittori italiani una sorgente di buona e bolla ed utile 
novità ond'essi arricchiscano la nostra lingua, massi- 
mamente di locuzioni e di modi. 

1", Io penso che niuno possa pienamente di- 
scorrere di niuna dolle cinque lingue elio compongono 
la nostra famìglia, ciò sono greca, latina, italiana, 
spagnuola e francese, s' egli non le conosce più che 
mediocre monto tutto cinquo. 

2", La lingua spagnuola è sorella carnalissima 
della nostra. Or come sia ragionevole il dorivar (3390) 
nuove ricchezzo nella lingua propria dallo lingue so- 
relle, vedi, fra l'altre, p. 3192-6. 

3", La potenza avuta dagli spaglinoli in Eu- 
ropa, o in Italia nominatamente, al tempo appunto 
che la lingua e letteratura nostra si formava o por- 
fezionava, ciò fu nel cinquecento, 2 ) foco elio molti voci 



') Puoi voiloro In piiRjr 5979-80 n 3717-50. 
'> Vedi p. 3728. 



3P>9 

(3390-3391-3392) WBaM OD 



o molte più locuzioni o forme spagnuolo fossore, non 
solo dal volgo o nel discorso familiare, ma dai dotti 
o dai lettorati nella lìngua scritta od illustre italiana, 
introdotte o accettate in quel secolo e nel seguente 
eziandio (dal Redi, dal Salvini, dal Dati oc.; vedi per 
esempio la Crusca in albarotio, verdadiero. Dallo spa- 
gnuolo viene f avverbio giacché o già che por poiché, 
usatissimo appo i nostri migliori dol seicento). 1 e- 
roeehé la lingua spagnuola era a quel tempo gene- 
ralmente studiata, intesa, parlata, scritta, e lino stam- 
pata, in Italia (vedi Speroni, Ovazioni m <>d<-, del 
Bembo, nelle Orazioni Veneziane, 1596, p. 144; Uarp, 
Lettere, voi. II, lett. 177). E questa è primieramente 
un' ottima ragiono, perché dalla lingua spagnuola si 
possa ancora (3391) attingere, dico l' essersene già 
molto attinto. Oosi sempre accado nelle lingue. Il già 
tolto d'altronde e naturalizzato prepara gli oreccln 
o il gusto a quello elio si voglia ancor torre dallo 
stesso luogo, appiana la strada, apparecchia quasi il 
posto e il letto allo novità che dalla medesima fonte 
si vogliano dedurre, e ne facilita l' introduzione. Il 
canale è scavato, né fa di bisogno fabbricarlo ; sta 
allo scrittore il dar corso per esso alle acque, giusta 
la misura che gli paia opportuna. Aggiungasi a que- 
sto che tale commercio, onde la lingua italiana 81 
arricchì della spagnuola, fu, come ho dotto, nel secolo 
in che la nostra lingua si formò e perfezionò, e prese 
o determinò il suo carattere, cioè nel cinquecento ; 
end' è beu naturale che molte parti della lingua spa- 
gnola non ancora da noi ricevute convengano o con- 
suonino colle proprietà della nostra lingua, poiché 
Z poche forme e locuzioni, od anche non poche 
voci spagnuolo e significazioni di voci, entrarono 
nella compostone della nostra lingua appunto quan- 
ti' ella ricevè la sua piena forma e perfezionamento e 
ia distinta specifica impronta del suo (3392) carat- 
tere Finalmente è da osservarsi che mentre i nostri 



3G0 



PENSIERI 



(3392-3393) 



antichi non solo nel cinquecento , ma fin dal ducente 
e dal trecento introdussero nella lingua nostra moltis- 
sime voci, locuzioni o formo francesi elio ancora in 
buona parte vi si conservano, queste, da tanto tempo 
in qua, e similmente quello altro infinito cho i mo- 
derni v'introdussero e v'introducono tuttavia, serbano 
sempre, chi ben lo guarda, una sembianza e una iiso- 
nomia di forestiero, massime lo locuzioni e formo. Lad- 
dove le frasi e i modi, ed anche i vocaboli spaglinoli 
introdotti nella nostra lingua, stanno o conversano in 
essa colle nostre voci italiane cosi naturalmente che 
paiono non vonuti ma nati, non ispagnuoli ma italiani, 
quanto alcun altro mai possa essoro e quanto lo sono i 
nostri proprii vocaboli. Anzi io so certo che pochissi- 
mi, ma varamento pochissimi, sanno, o sapendo, av- 
vertono questi tali esser modi o vocaboli o significati 
d' origino spaglinola. Bon ne veggo assai sovonto dei 
riputati e battezzati por purissimi italiani natii.') JSIé 
me ne maraviglio, perocché in ossi la differenza del- 
l'origino nulla si sonte, ed è possibile il saperla, ma 
(3393) non il sentirla. E non voglio tacerò cho delle 
tanto parole, frasi e formo francesi introdotte da' no- 
stri antichi, sia ducentisti, sia trecentisti, sia cinque- 
centisti, sia secentisti, nell'italiano, grandissima parte, 
e forse la maggiore, è uscita dell' uso nostro ed an- 
tiquata por modo che oggidì nemmeno il più sfron- 
tato e impudente gallicista e parlatoro o scrittore di 
francese maccheronico sarebbe ardito di usarle. E ciò, 
quanto a quelle che furono tra noi usato nel ducento 
o nel troconto, è accaduto da gran tempo in qua, cioè 
lino dal cinquoconto, nel qual secolo lo anticho voci 
francesi-italiane che oggi pin non s' usano, erano pa- 
rimente quasi tutte dimenticato, bonchó dello altro se 
ne introducessero. Ma dolle voci e maniero spagnuole 



') Mngsimnmento modi o significati. 



(3393-3394-3395) pensieri ^ 

introdotte fra noi, ljen poche o la minor parte, o corto 
in assai minor numero cho delle francesi, si trovano 
oc-n'idi esser caduto dell' uso nostro. Le altro han po- 
sto da gran tompo saldissime radici nella lingua ita- 
liana, corno quello che V hanno trovata esser terreno 
proprio da loro, o tale che l'esservi osse stato (3394) 
piuttosto trapiantate che prodotte spontaneamente e 
primieramonto, sia piuttosto caso cho natura. 

4° La lingua spagnuola è carnai sorella dell ita- 
liana, non di famiglia solo o di nascita e di eredita, 
ma di volto, di persona e di costumi. Né la lingua 
francese so le può paragonare per questo conto, non 
più elvella si possa comparare all' italiana o alla spa- 
gnola per conto della somiglianza, sia esteriore eia 
interiore, colla madre comune. La lingua spagnuola 
è piuttosto altra che diversa dall'italiana M era ben 
ragione che cosi fosse, perocché l'Italia, la Spagna e 
la Grecia sono in Europa por natura di clima, di ter- 
reno e di cielo le più conformi provincie meridionali ) 
Or tra queste, la Spagna e l'Italia avendo 1 una dato, 
l'altra ricevuto una stessissima lingua, ora hen natu- 
ralo cho in processo di tempo ambedue riuscissero 
tanto o nientemeno conformi di linguaggio quanto a 
duo separate nazioni è possibile il più. Laddove la 
Francia che una medesima lingua riceve dall Italia 
ancor essa, partecipando però del settentrionale, (3395) 
c poi clima e per l'indole e per gli avvenimenti che 
la storia descrive, settentrionali^ la sua ricevuta 
lingua, o fecene un misto nuovo, suo proprio e bollo, 



k L» a toriu offrir* molto prove di filli» dell» OÓBformltò tali' !»• 
, , } , r it i ™i (o crocn) Fra V altee coes, 1' abuso pubblico o 
^JHZ J^rt<M^* noli* Spagna, non ba nolla «torta 
moderna «imo p» ~ làtltaslonì, logci, uat, 00- 

52E£ ^ ffilo e* "Infloito U religion.. >o fc 3572-84, 



atitnoi oc. 
e maBeime tolti* 3675 ir poi. 



802 



russi uri 



(3395-3396) 



come altrove s' è detto. E intanto allontanandosi 
da' suoni, dallo formo o dal gonio dulia lingua madre, 
l'idioma francese col medesimo passo si divise ezian- 
dio dall' indole, dallo spirito o dalla qualità de'suonj 
dello lingue sorelle, che sempre alla madre si atten- 
nero quanto comportarono i tempi e le circostanze ; 
o elio quantunque inondate ancor esso dallo lingue 
settentrionali, pure, por la totale diversità del clima 
e doli' indolo dello loro regioni, se no mantennero cosi 
pure, clie pervenute, per cosi diro, a seccarle, soltanto 
pochissimo parole, niuna forma, ninna qualità appar- 
tenente al genio ed all' indole si trovarono averne 
contratto. Veramente la lingua spagnuola o por ca- 
rattere e por forme o por costrutti e per suoni e per 
che che sia, è cosi conforme all' italiana, cho altre 
due lingue cólte cosi tra loro conformi non si trovano, 
eh' io mi creda, né mai, eh' io sappia, si ritrovarono. 
(3396) E più conformi sarebbero le suddetto due lin- 
gue se la Spagna avesse avuto o po tosso vantare più 
vasta, copiosa e varia, più lunga, e più perfetta let- 
teratura, eh' ella non ebbe. Dico sarobbono pili con- 
formi por ciò che tocca alla quantità, come dire alla 
ricchezza, alla varietà e cose tali. Che per certo non 
mancò alla lingua spagnuola so non quello che ho 
detto, per essoro ancho in questo parti comparabile 
alla lingua italiana; per esserlo cioè in tutto, anche 
nella quantità, siccom' essa lo è nella qualità, eccetto 
solamente che ancor nollo sue qualità oli' è mono per- 
fetta dell' italiana. Del rimanente olla, quanto alla 
qualità, non potrebbe quasi ossero più conforme alla 
nostra di quel ch'ella sia. 

5°, Né talo sarebbe se la letteratura spagnuola, 
bonelié codondo d'assai all'italiana per la quantità, 
non lo fosse pari del tutto nella qualità, salvo la mi- 
noro perfezione di ciascun suo attributo. Lo stesse 
cagioni, si naturali, si accidentali, che ci resero gli 
spagnuoli cosi conformi di lingua, ce li fecero altrot- 



(3396-3397-3398) r-ENSTEiti 368 

tanto conformi (3397) nella letteratura. Né poteva os- 
sero altrimenti, perché l'ima o l'altra vanno sempre 
del pari. Corto è che nel cinquecento, secolo aureo e 
principale non meno della lingua e letteratura spa- 
gnola che della italiana, il commercio tra questo 
due letterature fu strettissimo, e l' influenza reci- 
proca; bensì maggioro d'assai quella dell'italiana 
sulla spagnuola ohe viceversa, perché P italiana era 
di gran lunga maggiore, o portata ad un alto grado già 
molto prima, cioè nel trecento. Laonde, se imitazione 
vi fu non -è dubbio ohe gli spagnuoli imitarono, e 
gli scrittori italiani furono loro modelli. Ma senza più 
stendersi in questo, egli ò certissimo ed evidente ohe 
il buono e classico stile spagnuolo e lo stilo italiano 
buono e classico, salvo che quello ò meno perfetto, 
non sono onninamente che un solo. Ora quanta parte 
abbia la lingua nello stilo, ') quanta influenza lo stile 
nella lingua, come sovente sia difficile e quasi impos- 
sibile il distinguerò questa da quello, e le proprietà 
dell'una da quello dell'altro, o si parli di uno scrit- 
tore e di una scrittura particolarmente, (3398) o di 
un genere, o di una letteratura in universale; sono 
coso da me altrove accennate più volte. Basti ora il 
diro che non si è mai per ancora veduto in alcun se- 
colo, appo nazione alcuna, stile corrotto o barbaro o 
rozzo, o lingua pura o delicata, né viceversa, ma sem- 
pre e in ogni luogo la rozzezza, la purità, la perfe- 
zione, la decadenza, la corruttela della lingua e dello 
stilo si sono trovate in compagnia. 2 ) Che so ne no- 
stri trecentisti la lingua è pura c lo stile sciocco, 
1» lo stile non pecca, se non por difetto di virtù, per 
inartifizio e mancanza d'arte o di coltura, ma niun 
vizio ha e ninna qualità malvagia; sicché non può 
chiamarsi corrotto; 2°, lo stile do' trecentisti e som- 



') Vagasi tal l'altro la ]>. 2906, soffi. 
■') Massime no' prosatori; quanto a'pooti vedi 1» p. 3419. 



364 



e 



plico e nella semplicità energico, conio porta la na- 
tura, e tale né più no meno è la lingua loro, la quale 
generalmente non ha pregio nessuno so non questi, oh 
sono pur pregi dello stilo, ma non sempre, e ohe non 
bastano; 3°, elio ohe ne dicano i podanti, ogni volta che 
lo stile do' trecentisti pecca di rozzo, ancho k lor 
lingua è rozza; ogni volta ohe di barbaro, anello la lin- 
gua è barbara; ogni volta che di eccessiva semplicità 
ed inartifizio, anche la semplicità della (3399) lingua 
passa i termini, com' è stato ben provato in questi 
ultimi tempi; e finalmente se talvolta il loro stilo ó 
tumido, falso, o insomma corrotto comunque (benché 
tal corruzione in loro sia piuttosto fanciullesca e d'igno- 
ranza, elio manifestante il cattivo gusto o la depra- 
vazione, che in ossi non poteva aver luogo), allora 
anche la lingua non è da noi chiamata pura se non 
perché ed in quanto antica, secondo le osservazioni 
da me fatte al trovo circa quollo cho si chiama purità 
di lingua, 

, Adunque lo stile, cho colla lingua e cosi stretta- 
mente logato, è lo stosso nello spagnuolo e nell'italiano. 
Dico quollo stile che dall'una e dall'altra nazione è 
riconosciuto por classico. Ebbero anche i francesi noi 
modosiino secolo del cinquoconto uno stile conforme o 
quasi conforme allo spagnuolo e all' italiano, ma osso 
non è riconosciuto oggidì per classico da quolla na- 
zione, né per talo fu riconosciuto in quel secolo in che 
la letteratura francese pigliò forma e carattere e poric- 
zionossi, insomma nel secolo aureo che dà logge (3400) 
o norma, goneralmonto parlando, alla lingua o lette- 
ratura francese di qualunque secolo successivo. -E «e 
pur quello stile talvolta è o fu riconosciuto per clas- 
sico da' francesi (come in Amyot), ciò è corno un clas- 
sico che essi non dobbono soguiro né imitare, un clas- 
sico divorso da quello che è classico oggidì por loro 
nelle scritture di questo socolo, un classico cho ih 
questo scritture sarebbe vizio, anzi non si comporte- 



■5(55 

(3400-3401) vv.x*lBM L_ 

Ub^ anzi non senza fatica a' intenderebbe; una Un- 
'uà, nsomma, e uno stile che, secondo confessano e si 
medesimi ancorché bello e classico, non e più loro. 
IT stile e la letteratura spaglinola forma vera- 
mente (quanto alla sua indole) una sola famiglia collo 
Se e letteratura greca, latina e italiana. Lo stile e 
etterato francese per lo contrario apparso a 
una famiglia ben distinta dalla suddetta La lettera- 
W francese insieme con quelle eh' essa ha prodotte 
£ sono la inglese del tempo della regina Anna, la 
svedese! la russa (e credo eziandio 1' olandese) forma 
in Europa, propriamente parlando, una terza dishn a 
Smiglia un terzo genero di letteratura e di st.l 
intendendo per seconda famiglia di et «nrM KM) 
ourowe quelle di carattere settentrionale cioè 1 m 
Sde'tmpi d'Ossian e di quelli «J*^ 
l la moderna oh' è una continuatone dx qOflata, la 
tedesca l'antica scandinava, illirica e simili (sebbene 
cantere scandinavo e illirico, si delle nazioni sr 
dolio letterature, è distinto dal teutonico ec. Ma non 
es te letteratura scandinava né illirica, se non antica 
TZ nota, perché la presente letteratura ^vedose 
danese, russa ec. non è che francese. StaeW prm 
cìdìo dell' Alémagna. Como altrove ho detto della 
Sa/ cosi della letteratura e dello stile francese 
Sve diro. Essi tengono il mezzo tra il meridionale 
e ilTttentriouale, tra il classico e il roman ice; essi 
ormano una categoria propria, nientemeno diversa e 

distinta da quella delle W^WjS 
tino italiano classico, spagnuolo classico e dall in- 
dole e spirito loro, di quel eh' ella Sia dalle lettera- 
ture inglese moderna, tedesca o loro alhm o somigliti. 

Quel carattere di nobiltà, di dignità, di ardu-o, 
di semplicità, di naturalezza ec. ec. che distingue 



') Vegga-* 1 1» !>■ 2989 



S66 



PXN8E0BI 



(3402 3403) 



(3402) gl'idiomi o gli stili, greco o latino, non si pos* 
sono in alcuna lingua del mondo , né moderna nó 
antica, esprimer meglio né più spontaneamente o 
naturalmente che nella italiana e nella spagnuola, e 
negli stili riconosciuti rispettivamente por classici 
appo questo duo nazioni: né si potrebbero, assoluta- 
mente parlando, esprimer moglio di quello che queste 
duo lingue e questi duo stili possano fare. Dico pos- 
sano fare, perché lo spagnuolo non lo ha forse ancora 
mai fatto perfettamente, benché la sua indolo o lo 
comporti e lo richiegga. Dico quel tal carattoro iden- 
tico di nobiltà ec., proprio della lingua e stile groco 
e latino. Lo qualità medosimo in genero, come la no- 
biltà in gonore oc, possono essor proprio anche del 
francese e del tedesco e d' ogni lingua cólta, ma quel 
tal carattez-e individuale o identico di nobiltà ec. 
elio distingue i suddetti stili greco o latino, non solo 
non lo richieggono nó l'amano, ma in niun modo lo 
comportano, gli stili francese, inglese ec. Questi pos- 
sono ossor nobili, ma in altro modo; semplici, ma in 
diversissimo (3403) modo ; naturali, ma tutt'altra natu- 
ralezza, perch'ogli hanno tutt'altra natura, e tutt' al- 
tro carattere hanno lo rispettive nazioni, e tutt' altro 
per queste è naturale; arditi, ma la lingua francese 
rispetto a se stossa solamonto, che rispetto all'altre, 
e assolutamente parlando, è timidissima, al contrario 
della greca e della latina, e della spagnuola e italiana 
altresì: le restanti lingue o stili possono essere ar- 
diti, anche più del greco e del latino, anche più dello 
spagnnolo o dell'italiano, ma in tutt' altro modo. 

E por recare un esempio; laddove la lingua e lo 
stile spagnuolo c italiano si piegano naturalmente e 
quasi da se al dignitoso, corno il greco e il latino 
(che in qualunque genero e materia hanno sempre del 
gravo o dell'elevato), lo stilo francese non ci si piega 
per niun modo, ma sempre tira al familiare e al piano. 
Contuttoeiò egli pure ottiono di staccarsi dal fami- 



(3403-3*04-3+05) 



PENSIERI 3tl7 



Ce e dal volgo, di sostenersi, d'innalzarsi; ma come, 
lon un copiosissimo uso d'immagini, pensieri ed 
espressioni poetiche. (3404) E non mezzanamente, con- 
fusamente o solo in parte poetiche, ma forte espressa 
o totalmente. Senza ciò non ottiene mai dignità ed 
elevazione, e sempre tira al basso e si accosta al di- 
scorso ordinario, allo stile parlato, di conversazione ec 
Ma ciò è ben diverso, e, in certo senso, contrarie . al 
modo in che i greci e ! latini davano digniU od ele- 
vatezza, al loro stile, in che gliene diedero 1 nostr 
classici c gli spagnuoli, benché non sempre perfetti 
11C 1 loro genere di stile, come avrebbero e potato c 
dovuto essere, e come esigeva naturalmente esso ge- 
nere di stile, e l'indole stessa della lingua ec. Si pos- 
sono vedere le p. 34.3 segg. e 3561, segg. ec Vedi 
quello che altrove ho detto sopra il poetico dello stilo 
di Floro (vedi p. 3420) e quello che ho detto sopra 
ciò, che la lingua francese, sempre prosaica ne verso, 
è oggimai sempre poetica nella prosa; e altri tali 

^Venendo alla conehiusione, ripeto che da una lin- 
fe» cosi conforme alla nostra, come ho mostrato es- 
sere la spaglinola per ogni verso, e per tante cagioni 
naturali, accidentali, intrinseche, ^rinseche ec; da 
una lingua sorella com> essa e all' italiana, da una 
Sua L ec; molto bella ed utile novrtà possono 
trarre gli scrittori italiani moderni, come ne tias- 
Lro gif antichi e classici nostri. Ma voglio 10 perciò 
Ledetti nella lingua italiana degli W^^j 
ìanto come, consigliando (3405) di attingere da la- 
tino, intendo consigliare che s ' introducano nell ita- 
liano de' latinismi. <) Sono nel latino molte parole, 

Uw)0 j, ^^XS.O.W el» una Hugo» g.» 
perfezione, ben eUé w™™*^ ^ f „. <u ùo aeU«tìl aopra alemm 

(lolla léUer*tuw eo; 



368 



PENSlEltl 



(3405-3406) 



nello spaglinolo alcune, noi greco, noi latino e nollo 
spaglinolo moltissimi modi c forino di diro (o molte 
significazioni di vocaboli o modi già fatti italiani), lo 
quali tutte non por altro non sono italiano, so [non] per- 
ché da veruno per anche non introdotto nolla nostra 
lingua. Adoperandolo ncll' italiano, elle sarebbero cosi 
bene intese, cadrebbero cosi beno o facilmente, parreb- 
bero cosi spontaneo o naturali, sarebbero cosi lontano 
da ogni sembianza d' affettato, che niuno s'accorge- 
rebbe, non pur eh' olio fossero o grocho o latine o spa- 
gnuole anzi, o più, che italiane, ma neppur sentirebbe 
che fossero nuove nella nostra lingua, né se n'avve- 
drebbe in altro modo che ricercandone osprossamonto 
il vocabolario. 0 se vi sontisse della novità, no sen- 
tirebbe quel tanto e non più, elio dà grazia, eloganza, 
forza, nobiltà, bollozza allo stile e alla lingua, e divi- 
dono l'una e l'altra dal popolo, il olio non pur è con- 
cesso ma richiesto al nobile scrittore in qualunque 
genere. Questo (3406) voci, frasi, forme, benché latine, 
greche, spagnuole di origine ; benché non mai por 
l' innanzi usato o sentite in italiano ; introdotte che 
vi fossero, non sarebbero né latinismi, né grecismi, 
né spagnolismi, perché non vi si conoscerebbe né la 
latinità, né la grecità 60., o se vi si conoscerebbe, non 
vi si sentirebbe, eh' è quel che importa ; né vi si co- 
noscerebbe che per cagioni estrinseche e proprie del 
lotterò, cioè por la cognizione che questi avrebbe di 
quello lingue e dogli scrittori italiani oc; non per 
cagioni intrinseche, cioè proprio di quella tale scrit- 
tura, stilo oc. per le qualità di quolle tali voci, 
frasi ce. rispetto alla lingua italiana e a quel tal ge- 
nero o stile. Altro voci, frasi, formo, significazioni sono 
in gran numero nelle detto linguo, elio si potrebbero 
puro utilissimamente introdurre nella italiana, ma 
non altrove che in certi luoghi, con certi contorni, 
preparazioni ec, né senza molta avvertenza, arto, di- 
screzione, giudizio dell'opportunità oc. Con lo quali 



(3406-3407-3408) PBHstarflST 



3G9 



condizioni, né anche questo (che sono in molto mag- 
gior numero dell'altre sopraddette) non riuscirebbero 
né latinismi, né grecismi ec. por le stosse ragioni. (3407Ì 
Ovunque si senta latinità, grecità, ec. o un sapore di 
non nazionale, indipendontcìnente dalle cognizioni ec. 
dol Ietterò, o per propria qualità della parola o frase, 
o del modo in eh' ella è adoperata, quivi è latinismo, 
grecismo oc, quivi barbarismo, quivi sempre vizio. E. 
siccome nei contrarii casi suddetti, malgrado la vera 
novità, niun vizio, anzi pregio vi sarebbe; cosi, in 
questo caso, niun pregio sarebbevi, o sempre vizio, 
quando ancho la novità non fosse vera, cioè quando 
bene quella tal parola ec. avesso già esempio d'autor 
classico nazionale, o n' avesse ancor molti ; sia che in 
tutti quosti ella stesse parimente male, o oho stando 
bono in questi, ella stesse male noi dato caso, perché 
non intelligibile o difficile a intendere, perché malo 
adoperata, e senza i debiti riguardi, e in occasione e 
con circostanze non opportune ec. Similmente accade 
e si dee discorrere intorno alle parolo antiquate. La 
novità in una lingua o la rarità ec, insomma il pel- 
legrino, da qualunque luogo sia tolto (o da forestieri 
o dagli antichi classici nazionali ec), deve sompre 
parere una (3408) pianta bensì nuova nel paese o rara, 
ma nata noi terreno medesimo della lingua nazionale, e 
non pur della nazionalo, ma della lingua di quel se- 
colo, della lingua conveniente a quel genere a quello 
stile a quel luogo della scrittura. Sempre eh' ella par 
forestiera (e recata d'altronde) por qualunque ragione, 
e in qualunque di quosti sensi, ella è cattiva. Nel caso 
contrario è sempre buona. 

Lo studio della lingua greca, latina, spagnuola, 
applicato a quollo dell' italiana, non ci deve servire a 
latinizzare, grecizzare oc. in niuna parte (sensibil- 
mente) la nostra lingua. Esso ci deve servire e ci 
serve mirabilmente a conoscere in quanti modi, ninno 
por anche usato, si possa usare e rivolgoro questa lin- 
Leoi'AIìiii. — Panticii, V. "21 



370 



PENSiKiu (3408-3409-3410) 



gua italiana medosima che abbiam por lo inani, si 
possano comporro insieme, o adoperare per se stesso, 
lo sue parole, frasi ec. ') Noi dobbiamo pescare in osso 
lingue, non latinismi, grecismi, oc. ma, por dir cosi, 
voci o formo e frasi italiano non por anche usato; 
dolio quali esse lingue abbondano. Studiandole (sic- 
come strettissimamente affini alla nostra, alla sua 
ìndole) oc., noi ci avveggiamo (3409) elio l'italiano 
può adoperare un tal modo, forma, voce, significa- 
zione eli' o' non ha mai adoporato ; là può adoporaro, 
non perché latina, greca, spaglinola, ma perché con- 
forme all' indole doli' italiano stosso, porche questa 
lingua per so medesima, e tale qnal olla ò n' è ca- 
paco ; perché appunto adoperata noli' italiano, non 
parrà né latina, né groca, né spaglinola, ma parrà c 
sarà subito italiana (cioè sarà intesa subito, cadrà 
naturalmente o dovunque o in certi tali generi o luo- 
ghi oc. oc). Fatta questa scoperta, o avvedutici di 
questa verità, della quale sonza lo studio di quelle 
lingue non avremmo avuto alcuna notizia, noi intro- 
duciamo noli' italiano quolla tal fraso oc. da ninno 
ancora usata , e che noi, so la lingua latina ce. non 
co l'avosso mostrata, non avrommo potuto concepirò e 
immaginare o inventare da noi medesimi o mediante 
la sola cognizione della nostra lingua, so non per caso. ! ) 
Cosi quello lingno ci somministrano copiose novità., 
elio non sono né latinismi, né grecismi oc, ma italia- 
nismi e nuovi o rari, o questi bellissimi e utilissimi, 
e insomma degnissimi d' entrare in uso. Nello stesso 
modo che sono italianismi, (3410) o degnissimi d' en- 
trare in uso, infiniti vocaboli, locuzioni (significati) 
e formo nuove, che L'abile e giudizioso o ben perito 



') Questo vieno n psnoro, 90 posi vogllnnin nliiiimarlo, un latini xzare, 
jroetaare 10. l'Italiano, ma affetto ttuenribilmante n Indtetlnjjnibtl- 
tnente dall' ttollanlxiars; mi latlnlr.wiro non iIìtoiw dall' Itellanlarore co. 

') Vndl p. 3738. 



(34 1 0-34 1 1 ) PBHSIBM 37 1 

Scrittore può inosauribilmonto o incessali temente de- 
rivare, formare, comporre ee. dalle stosso radici, de<rli 
stessi materiali, degli stossi capitali e fondi della 
lingua nostra, profondamente conosciuti e perfetta- 
mente posseduti, seguendo sempre e intieramente la 
vora indolo o proprietà d'ossa lingua, e conforman- 
dosi con tutto le suo qualità sieno intrinseche, eiefao 
estrinseche oc. (9-10 sottombro 1823). 

* (Ili uomini che vivono in solitudine sono incli- 
nai issimi al metodo. Ma non (alilo (indili che nella 
solitudine sono occupati, o elio porciò appunto vivono 
in solitudine (no' quali, siecomo in tutti quelli che 
sono molto occupati, il metodo o l'ordino dell'azioni 
Sarebbe ragionevolissimo, porcile l' ordino cosi di luogo 
come di tempo è sempre risparmio dell'uno o del- 
l'altro, e il disordino al contrario) quanto in quelli 
che nulla hanno da faro, conio malati cronici, carco- 
rati, vecchi ritirati por cagionovolczza dcll'otà, per 
dobolozza o por abito di pigrizia. Questi sogliono es- 
ser metodici lino all'ultimo eccesso. Paro elio l'uomo 
sia tanto più (3411) geloso di ordinavo la sua vita 
quanto mono ha da occuparla, o quanto meno la oc- 
cupa. ') Non potendo o non volendo impiogaro il tempo, 
si occupa a regolarlo e partirlo o distinguerlo. L' or- 
dinaro lo suo operazioni divione l'unica sua opera- 
zione e occupazione (li settembre 1823). Io ho cono- 
sciuto uno di questi elio dal capo al piò dolla giornata 
non aveva una sola cosa da fare, e lagnavasi dolla. 
brevità dol tompo, o che il giorno non bastava allo 
sue occupazioni quotidiano; e perciò sopportava 'li 
mala voglia qualunquo straordinaria distrazione o 
altro, che gli Decapasse alcun poco di tompo (11 sot- 
tombre 1823). 



') Intanilo por occupazioni anche lo distrazioni, gli spassi oc, 



372 



(3411-3412-3413) 



* Come altrove lio detto, la monarchia è il più, anzi 
il solo, perfetto stato di società, perché il solo natu- 
rale, il solo primitivo, il solo comune agli animali 
elio hanno qualch'ombra di società, il solo che si trovi 
rei cominoiamonto di tutte le nazioni (in qual modo 
nascesse la monarchia, vedilo nel principio della Re- 
pubblica di Aristotele, che benissimo lo spiega, pe- 
rocché (3412) corto le nazioni o lo popolazioni non 
convennero mai espressamente di ubbidirò ad alcuno, 
né mai diedero in niun modo i loro suffragi por li 
quali riuscisse eletto ad unanimità un monarca, che in 
questa elezione fondasse di quindi innanzi il diritto 
di comandarle). Da questo principio sogno che ogni 
repubblica o stato franco, comunque antichissimo, co- 
munque anteriore a quella civilizzazione eh' è affine 
alla corruzione, comunque proprio eziandio di tempi 
o di popoli affatto rozzi, od anche di tempi e popoli 
eroici o virtuosi e magnanimi ec, sempre ch'osso si 
trova in una sociotà già formata, già capaco di tal 
nome (sia antica, sia moderna, sia civile, sia selvag- 
gia), è indizio certo di corruzione di questa tal so- 
cietà, od ò esso medesimo una corruzione del govorno; 
il quale senza fallo, si sappia o non si sappia dalla 
storia, prima fu monarchico ; ond' esso stato franco o 
indubitatamente in essa società una sorta di governo 
secondaria e non primitiva, ma sottentrata in luogo 
della primitiva, e nata dalla corruziono di questa, o 
certo della rospettiva società (11 settembre 1823). 
Tedi p. 3517. (3413) 

s Alla p. 2841. Sperone Speroni nell' Orazione in 
marte del Cardinal Bembo, quinta dello Orazioni sue 
stampate in Venezia, 1690, pag. 144-6, poco innanzi il 
mezzo doli' orazione suddetta. J medesimi verbi colla 
•stessa construtione (p. 115) usa il volgar poeta (il 
poeta italiano), che suole usar l'oratore; onde non ì pur 
Unge da queW errore, ove spesse, fiate veggiamo incorrere 



(3413-3414) pensi kki 

; Greci et qualche volta i Latini, cioè, a dire, che egli si 
paia di favellare in un'altra lingua, che non l quella, 
dell' oratore; anzi, i più lodati Toscani all' hova sperano 
di parlar bene nelle lor prose, et -par quasi, che sene 
vantino, quando al modo, che da' Poeti e tenuto hanno 
affettalo di ragionare. Et chi questo non crede, vada 
egli a leggere, il Decameron del Boccaccia, terso lume 
di questa ' lingua, et troverawi per entro cento versi di 
Dante cosi intieri, come li fece la sua Comedi». ') Non 
parrebbe da questo parole elio l' Italia non avesse lin- 
gua propriamente (3414) poetica, o certo ben poco 
distinta dalla prosaica ? E non è d'altronde manifesto 
eh' ella ha una lingua pootica pivi distinta dalla pro- 
saica che non è quella di forse niun' altra lingua 
vivente , e certo più che non è quella de' latini, in 
quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad in- 
tendere la prosa latina, intendiamo con poco pju stu- 
dio la poesia (lo studio che ci vuole, ed il divario 
tra il linguaggio della poesia latina e della prosa, 
consiste principalmente nella diversità di molta parte 
delle trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione 
delle parole, eh' in parte ò diversa), ma uno straniero, 
non perciò eh' egli ottimamente intendesse la nostra 
moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto 
apposito studio la poetica ? Tant' è. Nello stesso cin- 
quecento l'Italia non aveva ancora una lingua cho 
formalmente poetica, cioò la diversità del linguaggio 
fra i poeti e gli oratori non era per anche se non 
lieve, e male o insufficientemente dotorminata. Gli 
scrittori prosaici che componevano con istudio e con 
presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua 
del Boccaccio e do' trecentisti, e questa ora similis- 
sima alla lingua pootica, perché la lingua poetica del 
trecento era quasi una colla prosaica. Gli scrittori poe- 
tici cho, scostandosi dalla lingua del trecento, volevano 

') Vedi p, 3S6I. 



373 



PENSIERI 



(3415-3416) 



(3415) accostarsi a quella del loro secolo, davano in 
uno stile familiare, Bellissimo bensì, ina poco diverso 
da quel della prosa. Testimonio l'Orlando dell'Ariosto 
o l'Eneide dol Caro, i quali, a quello togliendo lo ri- 
me, a questa la misura (oltre le immagini e la qua- 
lità do' concetti ec), in clie eccedono o di elio mancano 
cho non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? 
E paragonando il poema del Tasso (scritto nella pro- 
pria lingua del suo tempo) colle prose eleganti di 
quoll' età, poco divario vi si potrà scoprirò quanto alla 
lingua. Di più i pooti italiani del cinquecento furono 
soliti (massimo i lirici, clie sono i più) di modellarsi 
sullo stile di Petrarca e di Danto. Il carattere di 
quosto stile riusci ed ò necossariamente familiare, 
come lio detto altrove. Seguendo questo carattere, o 
che i poeti del cinquecento l' esprimessero nella stossa 
lingua di que' due, come moltissimi faceano, o nella 
lingua del cinquecento, come altri; doveano necessaria- 
monte dare al loro stile un carattere di familiare e poco 
diverso da quel della prosa. E cosi generalmente ac- 
cadde (il linguaggio del Casa non è familiare od è molto 

(34 1 6) pili distinto dal prosaico, o cosi il suo stile. Ciò 
perché ne'suoi versi egli non si propose il carattere né 
del Petrarca né di Dante, ma un suo proprio. E quindi 
quanto il carattere del suo linguaggio e stilo poetico 
è distinto da quel della prosa, tanto egli è ancora di- 
verso da quello del linguaggio e stile si di Danto e 
Petrarca, si degli altri lirici e poeti, quali si voglia- 
no , del suo tempo). La Coltivazione , le Api ec. sono 
ben sovente bella prosa misurata quanto al linguaggio, 
ed allo stile eziandio : e ciò quantunque l'uno e l'al- 
tro poema sieno imitazioni, e l'itti niont' altro quasi 
che traduzione dolle Georgiche , il capo d' opera dolio 
stile il più poetico o il più soparato dal familiare, dal 
volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dol- 
Y Eneide dol Caro. 

Insomma la lingua italiana non aveva ancora ba- 



(34 1 6-34 1 7-34 1 8) l'BMSn&Ri _____ 

Lnte antichità, por potere avere abbastanza di quella 
eleganza di cui qui s' intende parlare, e un linguaggio 
ben propriamente poetico e ben disgiunto dal pro- 
saico Le parole dello Speroni provano questa ventò, 
o questa lo mie teorie a cui la prosento osservazione 
S i riferisce. Il cui risultato è che dovunque non e 
[ufficiente antichità di lingua cólta, quivi non può 
ancora essere la detta eleganza di stile e àx lingua, 
né linguaggio poetico distinto e proprio ec. (11 set- 
tembre 1823). Ho già detto altrove (3417) che non 
prima del passato secolo e del presente si è tonnato 
pienamente e perfezionato il linguaggio (e quindi an- 
che lo stile) poetico italiano (dico il linguaggio e lo 
Stile poetico, non già la poesia); s' è 
-ili ano. vero, perfetto e sovrano modello dello BUie 
propriamente e totalmente e distintissimamente poetico; 
ha perduto ogni aria di familiare; e si è con ben corti li- 
miti o ben certo, né scarso, intervallo, distinto dal pro- 
saico 0 vogliamo dir che il linguaggio prosaico si e di- 
viso esso medesimo dal poetico. Il che propriamente 
non sarebbe vero; ma e' s'è diviso dall' antico; e cosi 
sempre accade che il linguaggio prosaico insieme 
coli' ordinario uso della lingua parlata, al quale ei 
non può fare a meno di somigliarsi, si vada di mano 
in mano cambiando e allontanando dall' antichità. 1 
poeti (fuorché in Francia) l ) serbano 1' antico più che 
possono, perch' oi serve loro all' eleganza dignità ec 
anzi hanno bisogno dell' antichità della lingua. E 
cosi, contro quello (3418) che dee parere a prima giun- 
ta i più licenziosi scrittori, che sono i poeti, son 
quelli che più lungamente e fedelmente conservano la 
purità e l'antichità della lingua, e che più la tengon 
ferma, mirando sempre e continuando il linguaggio 
de' primi istitutori della poesia ec. Dalla quale anti- 
chità la prosa, obbligata ad accostarsi ali uso corrente, 



: ) Vedi |>. 3428. 



376 



PENSIERI 



(3418-3419-3420} 



so.rn.pro più s' allontana. Oud' ò che il linguaggio pro- 
saico si scosti per vero dire esso stesso dal poetico 
(piuttosto che questo da quello), ma non in quanto 
poetico, solo in quanto seguace dell' antico, c fermò 
((pianto più si può) all' antico, da cui il prosaico s'al- 
lontana. Del resto, il linguaggio e lo stile dello poesie 
di Parici, Aliìori, Monti, Foscolo è molto più propria- 
mente e più perfettamente poetico e distinto dal pro- 
saico, che non è quello di vorun altro de' nostri poeti, 
inclusi nominatamente i più classici e sommi antichi. 
Di modo che per quelli o por gli altri cho li somi- 
gliano, e per l'uso de' poeti di questo e dell'ultimo 
secolo, l' Italia ha oggidì una lingua poetica a parto 
e distinta affatto dalla prosaica, una doppia lingua, 
1' una prosaica, P altra (3419) poetica, non altrimenti 
che l'avesse la Grecia, e più ohe i latini. Ed è stato 
anche osservato (da Perticar! sulla fino del Trattato 
degli Scrittori del Trecento) che nella universale cor- 
ruzione della lingua e stile delle nostre prose o del 
nostro familiar discorso accaduta noli' ultima motà 
del passato secolo, e ancora continuante, la lingua 
de' poeti si mantenne quasi pura e incorrotta, non solo 
ne migliori o in chi pur segui un buono stile, ma no'pes- 
siini eziandio, e negli stili falsi, tumidi, frondosissi- 
mi, ridondanti, strani o imbecilli degli arcadici, de'fru- 
goniani, bettinelliani oc. Cosi pure era accaduto ne'bar- 
bari poeti del secento. .La cagione di ciò è facile a 
raccorrò da queste mie osservazioni, lo quali sono ben 
confermate da questi fatti. Laddove egli è pur certo 
cho, riguardo alla prosa, lo stilo non si corrompo mai 
ohe non si corrompa altrosi la lingua, né viceversa, 
né v'ha prosatore alcuno di stile corrotto e lingua in- 
corrotta : del che puoi vodore lo pagg. 3397-9 (12 set- 
tembre 1823), (3420) 

* Opinione de' greci, anche filosofi, o principali 
filosofi, sul giusto e l' ingiusto creduto altro verso i 



377 

(3420-3421) _____ ™nsikiu 

ereci altro verso i barbari, non accidentalmente, ma 
naturalmente; sulla supposta inferiorità di natura di 
onesti a quelli; sul supposto natotele diritto ne jpooi 
li comandare a tutte l'altre nazioni, come per naWra 
incapaci di governarsi da se né d> acquistare le fa- 
coltà a ciò convenienti, sulla supposta servilità non 
di circostanza, ma di natura ne' barbari (cioè no, 
non greci), servilità creduta in essi cosi universale, 
che Tesser molti di essi nella propria nazione servi, 
era creduto irragionevole, perché ninno ne la loro ua- 
Lne ora stimato aver dritto di comandarli essendo 
tutta la nazione composta di soli servi por natura. \ odi 
ET^Uta d'Aristotele, ediz. del Vettori, Firenze 
Giunti 1586, libro I, p. 7, 31-82 libro ILI, p. 25 7 eie 
note dol Vettori ai rispettivi luoghi , e Plutarco, t. IL, 
E 329 B ec. (12 settembre 1823). Opinione rinnova- 
tasi presso gli spagnuoli ec. quanto agli americani 
indigeni , negri ec. oc 

* Alla p. 3304. Quanto nel citato pensiero ho detto 
dello stile di Ploro, si può, e meglio, applicare a quello 
di Platone, riputato, si quanto allo stile e a conceti,, 
si quanto alla dizione') esser (342!) quasi un poema 
(vedi Fabricius, BibUothm Graeca, in Plat., §, -, «Ut. 
vet voi II p 5)" e nondimeno sommo e portotio 
esempio di bellissima prosa, elegantissima bensì e soa- 
vissima (non meno che gravissima: suavdale et gra- 
vitate princeps Plato: Cicerone, m Oratore), amenis 
sima ec, ma pur verissima prosa, e tale che a meno 
poetica delle moderne prose francesi (e mi cent ent o di 
parlare delle solo riconosciute per buone), è molto*»* 
poetica di quella di Platone che tra le greche class - 
che è di tutto la più poetica. Non altrimenti che 
molto più poetiche della prosa platonica sono assais- 
simo prose sacre e profane de' posteriori sofisti o 
de' padri greci ec, la cui moltitudine avanza lorso e 

! ) Vaai vedere la p. 3*23- 



S78 



PENSIMI! (3421-3422-3423) 



bonza forse quella che ci rimane delle prose classiche 
antiche. Ma per vero dire, né quelle son prose, né 
lo moderne francesi lo sono , . ma solistumi l'uno e l'al- 
tre,, quelle in ogni cosa, queste in quanto allo stile 
(12 settembre 1823). 

* Ohe i miracoli della musica, la sua naturai forza 
sui nostri affetti; il piacere eh' ella (3422) natural- 
mente ci reca, la sua virtù di svegliar 1' entusiasmo 
e l' Immaginazione ec, consista e sia propria princi- 
palmente del suono e della voco, in quanto suono o 
voce grata, e dell' armonia do' suoni e delle voci, in 
quanto mescolanza di suoni e voci naturalmente grata 
agli orecchi; e non già della melodia; o che conse- 
guentemente il principale della musica e la conside- 
razione de' suoi offetti non appartenga alla teoria 
del bello proprio, più di quello olio v' appartenga la 
considerazione degli odori, sapori, colori assoluti ec, 
perocché il diletto della musica, (pianto alla princi- 
pale e più essenziale sua parto, non risulta dalla 
convenienza; veggasi in questo, che non v' ha cosi 
misera melodia che peri'ottamcnto eseguita da un 
istrumonto o da ima voce gratissima non dilotti as- 
saissimo; né v'ha, per lo contrario, cosi bolla melodia 
eli' eseguita, per esempio con bacchette su d' una ta- 
vola, o su dì pili tavole che rispondano a' diversi 
tuoni, o in qualsivoglia istrumento o voce ingratis- 
siina o niente grata, rechi quasi diletto alcuno, o ciò 
quando ancho olla sia eseguita perfettamente rispetto 
a (3423) se stossa. E ben gli uomini si sono potuti 
accorgere delle suenuuciatc verità in questi ultimi 
tempi, no' quali, per quello che se n J è detto, la sor- 
prendente voce della Catalani ha rinnovato quasi 
. negli uditori i miracolosi effetti della musica antica- 
Certo questi effetti non nascevano né principalmente 
uè essenzialmente nó quasi in parto alcuna dalle me- 
lodie. Le quali, oltre che da mille altri potevano 



'-S7') 

(3423-3424-3425) PHNSIBB1 , ' a,g 

Uor cantate, si sa poi ch'orano delle più triviali ed 
insipide Tutto il diletto ora dunque originato dalla 
voce della cantante, cioò dallo qualità d> ossa voce 
ohe piacciono naturalmente agli orecchi umani, tutto 
indipendenti dalla convenienza: straordinaria dol- 
cezza, flessibilità, rapidità, estensione oc, voce canora, 
sonora, chiara, pura, penetrante, oscillante, tintin- 
nante, simile alle corde o ad altro istrumento musi- 
cale artefatto ec. eo. , 

Con queste osservazioni non farà maraviglia che i 
barbari e anche gli animali sieno tanto dilettati dalla 
nostra musica, benché non assuefatti allo nostre me- 
lodie, e quindi non capaci di conoscere ne di sont.ro 
quello che noi chiamiamo il bello musicalo. Non sono 
le melodie in se, né la loro novità, che producono in 
ossi il (3424) diletto: sono gl' istrumenti e le voci, 
ohe presso noi sono raffinato e perfetto, queste col- 
V esercizio, coli' arto oc, quelli colle tante invenzioni 
e perfezionamenti eo. Alla perfetta qualità da questi 
organi unita l'arto di adoperarli perfettamente cioè di 
trarne de' suoni più grati oc. ohe non ne trarrebbe chi 
non avesse alcun' arte; unitavi di più l'arte di accor- 
dare insieme questi organi nel modo eh' e natural- 
mente il più grato agli orecchi (come l'arte di mesco- 
lare e temperare i sapori); ne risulta una dolcezza ec. 
6he a' barbari riesco affatto nuova, e che porc o 
produce in essi un piacer sommo ed effetti mirabib, 
piacere ed effetti che niente hanno da far col bello 
nerché niente colla convenienza, so non con quo U 
eh' è relativa alla naturale disposizione degli orecchi, 
e che tanto appartiene al bello, quanto la . grate me- 
scolanza de' sapori, ch'è una convenienza dello ste si - 
Simo genere dell'armonia musicale. Con questo osser- 
vazioni si spiegheranno ancor bene e meglio <d e n 
alcun altro modo, moltissimi (3425) de' miracoli detta 
musica antica, massime quelli che si raccontano delle 
nazioni o de' tempi più rozzi, corno di Saulc e Da- 



380 



l'ENSlEKT 



(3425-3426-3427) 



vide oc. Essi miracoli non nascevano dallo qualità 
delle melodie, corno si crede, ma dalle qualità naturali 
o artificiali degl' istrumenti e delle voci, e del modo 
di toccarli o adoperarlo, in quanto da tali qualità na- 
scevano suoni, o armonie di suoni, straordinariamente 
grate per se stosse all'orecchio; straordinariamente, 
dico, rispetto a quelle nazioni o a quei tempi. L' ossei 1 
da lungo intervallo dissuefatto dall'udir musiche, pro- 
duceva anch' esso e produce tuttavia molti mirabili 
ottetti; i quali s' attribuiscono alle melodie, ma non 
nascono infatti principalmonte che dalla sensazione 
di suoni grati ec. per so stessa, tornata ad essere 
molto efficace per la dissuofazione. Se Alessandro, tutto 
il di occupato nello cose militari, era a tavola mira- 
bilmente affetto e dominato dalla musica (so non erro) 
di Timoteo, ciò ai rechi alla suddetta cagione, oltre 
al vino, cho (3426) naturalmente esalta l'animo, in un 
corpo stanco massimamente, e dispone a provar vi- 
vissime sensazioni per menomo cause ancora. 

Osservisi che generalmente fa negli uomini molto 
maggiore effetto la musica vocale che l'istrumentalo, 
la voce di una donna in un uomo che quella di un 
uomo, e nella donna viceversa; la voce di basso fa 
l'orso nella donna maggior effetto che quella di te- 
nore o contralto, e noli' uomo al contrario ec. Cosi 
do' diversi istrumenti, quello fa in generale maggior 
effetto, produce maggior piacere ec; questo meno. 
Tutto ciò in jiarità di circostanze, e trattandosi, per 
esempio, d' una medesima melodia ec. Or tali diffe- 
rendo non hanno a far nulla colla convenienza, nulla 
col bello proprio, sono indipendenti dalla qualità dello 
melodie, che sole spettano nella musica al discorso 
del bello; appartengono alle qualità sole de' suoni ec; 
sono della stessa categoria che le difforonze degli 
odori e sapori ec. cho ninno s'avvisò di chiamai- belli 
ne brutti, bensì più o meno piacevoli o disjùacevoli: 
(3427) e ciò non per altro so non porche in essi non 



noi 

(3427-3428) pensieri ^ 

Wluogo, come non V ha nel nostro caso, il discorso 
della convenienza ec. (12 settembre 1828). 

• Delicatezza considerata presso le nazioni civili 
eome parte assolutamente del bello. Statue greche 
umano. L'Apollo, il Mercurio (già Antinoo) il Melea- 
«rro ec In tutte queste le formo hanno della donna. 

si è il carattere dello statue greche, quanto alle 
forme umane e delle sculture e scuole di là provenute 
antiche e moderne. Tra le statue di Roma tu ravvisi 
subito una fattura greca al donnesco delle forme. Cosi 
Canova II bello delle formo umane consiste dunquo 
nòli' inclinare e partecipare al donnesco. Possiamo noi 
credere che .le formo umane, secondo natura le pm 
perfette, fossero o sieno di questa sorta? che di que- 
ste sorta sia il bello umano concepito da' primitivi 
Svagar ec? e non anzi l'opposto? che l'intenzione 
lolla natura sia tale riguardo all'uomo, Cloe eh es- 
sendo pe^tto (e ciò vuol dire quale ei dev esseie) 
SS del donnesco, e non ne sia anzi remo = 
Chi s' e mai avvisato tra' civili di pigliar lo torme 
d'Ercole por modello di bellezza d'uomo *-™***T 
rebbero esse veramente (3428) m natura? e tutta*!* 
Pidea e la statua d' Ercole non è il preciso contrario 
dell'idea o della statua d'Apollo? certo che ri quanto 
alla forma virile e matura ec. (12 settembre 1823). 

* Alla p 3417. In Francia, siccome la prosa segue 
l'uso del parlar quotidiano assai più che altrove, e è 
sempre assai più conforme, cosi i poeti non hanno cre- 
duti potersi scostare gran fatto dall'uso medesimo e 
dalla prosa, né lasciar di seguire da vicimss.mo e 
e l'altra nelle continue mutazioni eh esso natui 1- 
mento e inevitabilmente subiscono bi ne poeta che 
ne'prosatori ciò nasce dalla natura di quella nazione e 
di quella società. I poeti francesi non hanno dunque an- 
, tieniti, di linguaggio da usare. Tutto e sempre di mano 



382 



VEKSrsmi (3428-3429-3430) 



in mano nella lingua francese è moderno. E tutto è 
ancor nazionale; percké guardigli il cielo dall' arric- 
chire la loro lingua di qualche voce tolta nuovamente 
dal latino, bonclió totalmente analoga o affine ad altre 
voci francesi. La lingua loro è dunque in tutto e sem- 
pre priva o incapace si doli' antico, (3429) si ancora 
del pellegrino (se non di quello, che introdotto in una 
lingua o usato da ano scrittore, è libertinaggio e bar- 
bario, non eloganza o nobiltà ec.) Da ciò viene elio la 
lingua francese non è capace di eleganza oc. (dol che 
mi paro aver detto altrove), e che la Francia non ha 
e non può avere lingua propria della poosia. E non 
avendola, e però i termini tra questa e quella della 
prosa non essondo certi, anzi non avendoveno alcuno, 
perocché il campo dell'una e dell'altra ó un solo o 
indiviso, la .Francia non ha noppur lingua propria es- 
pressamente della prosa, e nella più impootica lingua 
del mondo, qual è la francese, non si trova quasi prosa 
che non sappia di poesia per lo stile, più o meno, ma 
certo pili di tutte le classiche prose scritto nello più 
poetiche lingue, come la greca e la latina. Dol che 
veggasi la p. 3420-1. Del resto, è ben naturale che ovo 
non è distinzion di lìngua (tra poesia o prosa) quivi 
non possa essere vera distinzion di stile l ) (13 settem- 
bre, 1823). (3430) 

* Altronde per altrove, e indi fora' anche quasi ivi 
o mia, delle quali cose ho dotto altrove Vedi Petrarca, 
sonetto Io senfia dentr' al cor già venir meno (18 set- 
tembre 1823). 

* Natura insogna il curare o onorare i cadavori di 
quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per san- 
gue o por circostanze ec.) e 1' onorar quelli di chi fu 
in vita onorato ec. Ma olla non insogna di seppel- 
lirli uó di abbruciarli , né di tórceli in altro modo 

') Secondo 11 dòtto a p. 3397-9 e 2906. 



383 

;3430-343l-3432)_ 

r „„i,i i'l Anzi a attesto la naturo ripugna, 

quale, ancor morto, frmane. ea c . q 

r ]a r™»^5^5t& ***** di 

luogo di (3431) quoiia), baveri imtmtri- 

lei. Ma d'altra parto il ItfUtf» »JJ™S volendo- 
dire sopra terra e -Ho propi •» alnta^en,^.^ q 
S0 li conservare dappresso e JfJJJV ti oU re 
dannoso ai privati e alla ^^ 4^^.^ 
all'avere insognato die nella motte &opi« 

stessi, ne il solo ne U pm jn _ 
tre, dico, di questo , insegnavo^ ,o che ^ 

rZ SÌ non f scoperti* di terra, pas- 
mentre 1 loro corpi non r d Cosi ven- 

sare al luogo destinatogli noli altio moi 

nero a fare che il W^^JJ e necessario 
a, viyi, eoa Binato d'amore verso i 

dC1 t° ali che per Tsa "ebbe 1 stato segno di d,sa- 
mort! quello <fj**2: che l'amore (3432) cosi con- 
SgK^^rpoUe «.elio emesso medesimo 

Veggi»! * <!««*<> ««^ 1»<, «" ra - 

rt .,n ^^^ a ;^:i' M .i«>.pH«dp.<, 

Ijlie, :i cut. no, ?• "> '''i' ' 



PENSIERI 



(3432-3433) 



naturalmeuto vietava; elio venisse ad essore secondo 
natura o suggerito dall'amor naturale, quello che porse 
aveva al tutto dello snaturato; e che fosse inumanità e 
spietatezza il trascurar quello che senza ciò sarebbesi 
tenuto per inumano o spiotato. Cosi gli antichi e primi 
poeti e sapienti facevano servirò l' immaginazione 
de' popoli e le invenzioni e favole proprie a' bisogni 
e comodi della società, conformando quelle a questi; 
e sì verifica il detto di Orazio nella Poetica ch'essi 
furono gl'istitutori c i fondatori del viver cittadine- 
sco o sociale, onde Orfeo ed Anfione furono eziandio 
tenuti por fondatori di città. E cosi gli antichi diri- 
gevano la roligione al ben pubblico e temporale, o se- 
condo che quosto richiedeva la modellavano, o di que- 
sto facevano la ragione e il principio e l'origino 
de' dogmi di essa: opponendola alla natura dove que- 
sta si opponeva alle convenienze della vita sodalo, o 
vincendo la natura fortissima, coli' opinione ancor più 
forte, massimo l'opinion religiosa (15 sottembro 182i)). 
Ohi riguarda come leggo naturale il seppellire o ab- 
bruciare ec. i cadaveri, troverà l'orso in queste osser- 
vai uni di che mutar sentenza. 

* Per molte cagioni, anche lievi, l'uomo si gotta 
al pericolo, anche doli a morte; di più sacrifica (3433) 
de tenni natamente se stesso, danari, robba, comodità, 
speranze ec. Ma ben pochi si trovano che per cagioni 
anche gravi, anche per vivo passioni, por amore ar- 
donte ec. si sottopongano o siono veramente capaci di 
sottoporsi a un dolore corporale, ancho non grando. 
S' incontra sposso e facilmente, a occhi veggenti e 
volontariamente, il pericolo della morte, o quegli stossi 
non son capaci d* incontrar volontariamente e scion- 
tomonte un dolor corporale certo (15 sottoinbre 1823). 

* Ohe il timore sia, come ho detto altrovo, più na- 
turale all'uomo della speranza, e elio l'uomo inclini 
più a questo che a quello, voggasi che qualora gli 



(3433-3434-3435)^ _OTW________JL 

„tBri«U, ordimmamente ne . tomo 

o fancialh, ottetto ai cagw è cos i tome- 

«paventoao. Or quando mal la ^J^^ p01 ,, ò 

„ 5 Tìi uhi se V ignoranza, superstiaion» eu. ^ 
rana? Di P^fji ^ idi a pigliar qualch'ef- 

anticamente (3434) 0 porta ,og «J^ ^ avv6 nire 
lotto nuovo o sconosciuto per P 103 ^ 1 ^ one - 
o per segno del presento ign*. -J»^ JLtì 

sinistri. Lascio 1 econsai, i r . non 

ventose naturalmente a f^ ^f'.Litivo spavento 

pri ben esser nata ^ J onto s6 por si lungo 

lOT0 81 ^ ;;ntto nlon , efe anche al di d'oggi, 
tempo presso tutto lo buw , l'oscurazione 
benché già si sapesse e si .appi* . ^ ^ 

n0 n era per ^*^"Z!X££> ti* * & 
comete che cosa hanno di V* j a ttea^O.? E vo- 
oh' altro corpo celeste, o ohe J*TO 

bone ? ma non si tiove che 

T° Sebi— *» £ T' 

tutte erano stimate cat m ^m Co* «o-dee» 
il ma ncare del cuore rf è por jero obe « * q 
talvolta, come gli an ichi narrano (3435 o 1 
cosi per errore... di ehi temere che 

aegni ehe T uomo Più ^X^i ir^ole 
a sperare; e che qWMJ? ben iu dì ra do ec 

e P-ipHoso eome^^^^ * eg p ignoraIl ti 
fne^^ — (15 cembro !8 2 a). 

* L'immaginatone^» le 
antichi erano governati, e 1 amoi i . B ^_ 



386 PENSIERI (3435-3436-3437) 

loro bolliva, li facea sempre mirare alla posterità ed 
all' eternità, e corcare in ogni loro opera la perpe- 
tuità, o procurar sempre 1 1' immortalità loro e delle 
opero loro. Volendo onoraro un defunto innalzavano 
un monumento clie contrastasse coi secoli, c ohe ancor 
dura forse, dopo migliaia d'anni. Noi spendiamo so- 
vente nollo stesse occasioni quasi altrettanto in un 
apparato funebre, che dopo il di dell' esequie si disfa, 
e non ne rosta vestigio. La portentosa solidità dello an- 
tiche fabbriche d'ogni genero, fabbriche che ancor 
vivono, mentre le nostre, anche pubbliche, non saranno 
certo vedute da postori molto lontani; le piramidi, 
gli obelischi, gli archi di trionfo, (3436) la profon- 
dissima impronta dello antiche medaglie e monete, che 
passate por tante mani, dopo tante vicende, tanti se- 
coli oc. ancor si veggono bolle e fresche, e si leggono, 
dove i conii dello nostre monete di cent'anni fa son già 
scancellati, tutte queste e tant' altre simili cose sono 
opere, effetti e segni delle antiche illusioni e del- 
l' antica forza e dominio d' immaginazione. So fabbri- 
cavano per fasto, i monumenti del loro fasto dovevano 
durare in eterno, e il loro orgoglio non si appagava 
doli' ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo 
dovevano esser testimoni della sua potenza e contri- 
buirò a pascere la sua vanità: se per diletto, per 
bellezza, ornamento ec, tutto questo s' aveva da pro- 
pagare nel futuro in perpetuo; so per utile tutte le 
generazioni avvenire avevano a partecipare di quella 
utilità ; se il principe, se il comune, se i privati, se 
per comodo, per onore, por vantaggio particolare o 
pubblico; se in memoria di successi ricordevoli o pri- 
vati o pubblici ; se in ricompensa di virtii, di bollo 
azioni, di benelicii pubblici o privati ; so in onor pri- 
vato o pubblico, di vivi o di morti; se in testimo- 
nianza d'amore ec. ec, qualunque lino si proponessero, 
qualunque (3437) effetto dovesse seguitare a quell'opera, 
caso aveva ad essere eterno, s' aveva a stendere in 



ì 



QQ7 

(3437-3438) i'ensieiu^ . °Z 

tutto V avvenire, non aveva a cessar mai. Lo grandi 
illusioni ondo gli antichi erano animati non pennot- 
ovL loro di contentarsi di un effetto piccolo e nas- 
o-ero, di procurare un effetto che avesse a durai 
J2S labile, breve; di ^B^^J^ 
trotta a poco più che a quello cb' e«W cedevano. 
L'immaginazione spingo sempre verso quello 6ȣ 
cado sotto i sensi. Quindi verso il futuro c la posto 
rità perocché il presente è limitato o nbn può con- 
tarla, e mfcero ed arido, ed olla si pasco d> spe- 
ranza e vive promettendo sempre a se stessa. Ma il 
SS per «na immaginatone gagliar ^ non 
debbo aver limiti; altrimenti non a soddisfa. Dun- 
que ella guarda e tira verso l'eternità. • 
1 proprio carattere delle antiche opero manuali 

ia durevolezza e la solidità, delle moderno la caduc a 
e brevità. Ed è ben naturale in un età egoista ,EU è 
egoista perché disingannata. Ora il ^inganno (3438) 
come fa che l'uomo non pensi se non a 86 «£S iJa 
che non pensi so non quasi al presento; di q^ltopoi 
che sarà dopo di lui non si curi punto ne poco 0 
Che l'egoista è vile, si per l'egoismo, si . per jOt» 
nn-ti o cacioni E l'età moderna eh' è quella del de- 
I S U, incruento e perfezionato, come 
u° non ossero abbiettissima? Ora un animo basso non 
"evat alto, né proporsi de' fini nobili ne cap 
l'nrT™ dall'eternità in menti cosi anguste, ne uomo 

sobcHtl in molte barbariche opere de' bassi tempi 
S private, anzi per lo più tali) corto a paragone 
dolio moderne. Chi può paragonare la solidità d que 
* con quSa dogli celiai pubbli- o privati del cm- 



388 



PENSIERI (3438-3*39-3440) 



quoconto, in Italia massimamente. In Roma, dove v'La 
monumenti d' ogni etti dallo egiziano alla presento, si 
può in questi (3439) considerava la sommità, la deca- 
denza, il di struggimento dell'umana immaginazione e 
illusioni; anzi pur le diverse sommità e deoadenzo ou. 
delle medesimo; e le diverse età dell'immaginazione oc., 
e la storia delle nazioni non solo, ma in genere dello 
spirito umano spiritualmente considerato, malgrado la 
materialità degli oggetti. Si può cominciare dall' obe- 
lisco di Piazza del Popolo, e finire, tornando poco di- 
stante, da quello nel palazzo Lucernari elio ancor si 
fabbrica. Quel denaro che da noi si spenda in tabac- 
chiere., e in astucci, gli antichi lo spendevano in busti 
e statue, e dove per una vittoria si fa ora giuncare, un 
fuoco di artifizio, essi muravano un arco di trionfo. 
ÀLOAitovn, Pensieri, pensiero l'ò. ») 

Si possono applicare queste considerazioni anche 
alla letteratura. Non s'usavano anticamente le brochu- 
res, né gli opuscoli e foglietti volanti, né scritture 
destinate a morire il di dopo nato. E quello ancora 
che si scriveva per sola circostanza e per servire al 
momento, scrivevasi in modo eh' e' potesso e dovesse 
durare immortalmente. (3440) 

Cicerone, dopo dato un consiglio al senato o al po- 
polo, da mettersi in opera anche il di medesimo, dopo 
perorata o conchiusa una causa, ancor di una piccola 
eredità, si poneva a tavolino, e dagl' informi commen- 
tari elio gli avovano servito a recitare, cavava, com- 
poneva, limava, perfezionava un' orazione formata sulle 
regole e i modelli eterni dell' arte più squisita, e, conio 
talo, consognavala all'eternità. Cosi gli oratori attici, 
cosi Demostene, di cui s ! ha e si legge dopo duemila 
anni un' orazione por una causa di tre pecore: mentre 



') Vedi ancora la Oorretpondanet «fu Prìnci Itoyal ito Prum et ito 
Voltaire, dalia le« Oeuvre* eo'mpìètti du Roì ile Ptutse, 1790, t. X , letti'o 
96 ilo Voltili», p. 122 et miiv. 



389 

(,3440-344 1 ) riMsrERi^_ — 

lo orazioni fatto oggi a' parlamenti o da niuno si leg- 
gono, o si dimenticano di là a due di, e ne son degno 
„c ehi le disse pretese né bramò ne curò eh elle 
avessero maggior durata (15 settembre 1823). ) 

* TI eiovane innanzi la propria esperienza, per qua- 
hrtrae insegnamento udito o lotto, di persone starnato 
dà lui o no, amate o disamato, credute o non cre- 
dute ec, non si persuaderà mai efh cacameli te che 
mondo non sia una bella cosa, ne deporrà 1 dosuh no 
o la speranza ch'egli ha della vita e degli uomini e 
de' piaceri sociali, né fintone 

l'ondo del cuore (3441) fermissima del a possibil t i 
anzi probabilità di esser felice pigliando parto alla 
vita, all'azione eo. Perché? perché quest'opinione, de- 
siderio, speranza, non è capriccio ma natura ne si 
estirpa dall'animo, come le opinion! o passioni ae*- 
dentali, né vai tenerezza e pieghevolezza e docilità e 
d'età né d' indole a render queste cose estirpabili. Al- 
trimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la qua e 
ha provveduto di speranza alla fanciulle* za e , al J» 
gioventù e agguagliato colla speranza il desiderio di 
quelle otà (15 sottembre 1823). 

* Altrove ho rassomigliato il piacere che reca la 
lettura di Anaereonte (ed è nel principio di questi 
pensieri a p. 30-.) a quello d' un' aura o£rffi»a«. 
Allungo che siccome questa sensazione lascia grafi 
tSdorfo e scontentezza, e si vorrebbe -chiamarhi 
non si può; cosi la lettura di Anacroon te; la quale 
Sscia desiderosissimi, ma rinnovando la lettura, come 
por perfezionare il piacere (ch'egli par veramente bi- 
sognoso d'esser perfezionato anche più che ispirai de- 
sideri! d'esser continuato), niun piacere si prova, anzi 

') Q.ib1 ohe si è aotto àell» durevolezza, fienai àncora detta gran, 
ilnoii fi mngiiiflcciiMi ec. 



390 



(3441-3442-3443) 



non si vocio (3442) né olio cosa 1' alibia prodotto da 
principio, ne olio ragion ve ne possa ossero, né in che 
cosa esso sia consistito; o più si cerca, più s'esamina, 
più s' approfonda, inen si trova e si scopre, anzi si 
perde di vista non pur la causa, ma la qualità stew.a 
del piacoro provato, elio, volendo rimembrarlo, la me- 
moria si confonde; o insomma, ponsando o corcando, 
sempro più si diviene incapaci di provar piacere al- 
cuno di quelle odi, e risentirne quell' effetto elio so 
n' è sentito; od esse sempre più divengono quasi 
stoppa e s ! inaridiscono o istoccliisoono fra lo mani 
che le tastano e palpano por ispeeularle. Di qui si 
raccolga quanto sia possibile il tradurrò in qualsiasi 
lingua Ànacroonte (e cosi l' imitarlo appostatainonto, 
e non a caso nò per natura, senza cercarlo), quando 
il traduttore non potrebbe neanche rileggerlo per ben 
conoscer la qualità dell'effetto ch'egli avesse a pro- 
durre colla sua traduzione; e più che lo rileggesso o 
considerasse, meno intenderebbe detta qualità e più 
la perderobbo di vista; porooohé lo studio di Ana- 
creonto ò non pure inutile per imitarlo o per meglio 
(3443) gustarlo o per ben comprendere o per definire 
la proprietà dell'effetto e de' sentimenti ch'esso pro- 
duce, ina è piuttosto dannoso che utile; né la detta 
proprietà si può definire altrimenti che chiamandola 
indefinibile, od esprimendola nel modo eh' ho fatto io 
con quella similitudino oc. JSfé eerto alla prima lettura 
si può essore il traduttore, o l' imitatore, o vorun al- 
tro, ben avveduto e chiarito e informato del proprio 
ed intoro carattere di Anacreonte; dico chiarito, e 
compresolo in modo oh'oi possa esattamente e data 
opera esprimerlo, né" pur significarlo distintamente a 
se stesso, né concepirne e formarne idea chiara e 
precisa; che queste qualità della idea sono contrad- 
dittorie o incompatibili colla natura di detto ottetto 
e carattere (16 settombro 1823). 



(3443-3+44-3445) pen sieri 



391 



* Quante volte diss' io Attor pieno di spavento, Costei, 
por fermo nacque in paradiso. .Petkarca, Canz. Chiare, 
fresche e dolci acque. K«rt T «Wt< 8' ' W iev- tò V&» 
gÀèi* »v 8rh*ecw littóaoev. SAWTQ, ap. Lou S in., se- 
ziono 10. È proprio dell' impressiono ohe fa la bel- 
lezza (3444) (e cosi la grazia o 1' altre illecobro ma 
la bellezza massimamente, perch' olla non ha Diso- 
nno di tempo per faro impressiono, e come la causa 
esiste tutta in un tempo, cosi l' effetto è istan- 
taneo) è proprio, dico, della impressone ohe ta la 
bellezza su quelli d'altro sesso che la vedono o 
l'ascoltano, o l'avvicinano, lo spaventare; e questo si 
è quasi il principale o il più sensibile offerto eh ella 
produce a prima giunta, o quello che più Si distingue 
e si nota e risalta". E lo spavento viono da questo, elio 
allo spottatore o spettatrice, in quel momento paro 
impossibile di star mai pili senza quol tale oggot.to e 
nel tempo stesso gli paro impossibile di possederlo 
oom'ei vorrebbe; porche noppure il possedimento car- 
naio che in quel punto non gli si offre allatto al pen- 
siero, anzi questo n' è propriamente alieno; ma nep- 
pur questo possedimento gli parrebbe poter soddisiare 
e riempiere il desiderio eh' egli concepisce di quel 
tale oggetto, col quale oi vorrebbe diventare una cosa 
stessa (corno profondamente, benché in modo scher- 
zevole, osserva Aristofane noi Convito di Platone) 
ora ei non vede che questo possa mai essere (3445) 
La forza del desiderio oh'ei concepisce m quel punto 
l'atterrisce per ciò ch'ei si rappresenta subito tutte 
in un tratto, benché confusamente, al pensiero le pone 
* che por questo desiderio dovrà soffrire; perocché il de- 
siderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio, vi- 
vissima e somma, e il desiderio perpetuo, o non mai 
soddisfatto, è pena perpetua. Ora a lui pare e oh 
quel desiderio non sarà mai soddisfa to (o non ne 
vedo il come, e gli par cosa, troppo ardua e , diffide 
e improbabile), e ch'esso non sarà mai per estinguevi 



392 



pensieri (3445-3446-3447) 



da se medesimo, corno quando proviamo un dolor vi- 
vissimo, ci pare a prima giunta ch'ei sarà perpetuo, e 
che ne sia impossibile la consolazione, e che ninna 
cosa mai lo condolerà. Tutto questo accado principal- 
mente (ed oggtmai unicamente) ai giovani prima d'en- 
trar nel mondo, a sul lor primo ingrosso (talvolta, e 
non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son più 
suscettibili di vivezza d' impressione e di vivezza di 
desiderio ec, e sono inesperti del quanto presto e fa- 
cilmente l'amore (3446) o si dilegui o si soddisfaccia, 
e del come, e che al mondo non v' ha cosa veramente 
amabile; e di quanto sia facile ottenere ogni cosa 
ch'ei brama da quegli oggetti eh' ei stima inaccessi- 
bili ee. ec. 

Del resto, generalizzando, è da osservare che il 
primo concepimento d' un desiderio vivissimo di cosa 
difficilo a ottenere, il qual concepimento non ha più 
luogo se non se ne' fanciulli e nella prima gioventù, 
è sempre accompagnato da spavento, e ciò si spiega 
collo cagioni sopraddette. Massime so la cosa è o pare 
impossibile ad ottonore; l'uno e l'altro de' quali casi 
è bon frequente nelle suddetto età. Alle quali, poi- 
queste ragioni, i desiderii come son penosissimi nella 
•lor durata e nel loro corso, cosi riescono spaventosi 
nella lor nascita (e più quel d'amore eh' ò più penoso, 
perché più forte; massime negl'inesperti). E si dice 
per ischerzo, ma non senza ragione di verità, che 
bisogna soddisfare ai desiderii de' fanciulli per non 
trovargli morti dietro allo porte (16 settembre 1823). 

* Fermezza di carattere e facoltà di generalizzare 
formano quelli cho si chiamano uomini superiori : 
ossi sanno pensaro e sanno operare : (3447) dice M. Bay 
ne' Cenni sugli uomini e la Sodata. Ma la fermezza 
di carattere ó di due sorti, che nascono da principii 
affatto contrarli, l' una da forza d' animo e da acu- 
tezza d' ingegno ec, 1' altra da stupidità, di spirito, 



393 

(34*7-3*48)_ _ . 

i^ità di denaro, di comprenderò «e ojmdi 

pirlo ec. (16 settembre 1823). 

»0M uomini straordinari, bene sposso e fo^il 
pi* Llle voi*, non ^^^^0^. 

„■ STSSm* nel comune degli uomini; msomma 

.j. i; oltrn non sono stimati bdiwmiu 
Slwutl oScalo splendore e nuoce alla 
n -?' ffitltra scambievolmente. E spesse volte o 

corto equilibrio e contrappeso e facendo eie , 

loro renda ^^.^^^7l, crm poche 

n v::^:TZr^^ *** ° *~ 

o una sola cno sw o ^«briò e sbilancio, non 

ordinaria, produce* do un sqm hbn 

solo non nuoce alla i IP»™™ ' r accr0f , c6 (1G 

né la rende minore, ma la produce eia 

Sottembro 1823). 

* TWedio o drammi di lieto fine.- L' effetto loro 
«U adotti doll'uditoro m pieno 
totale, si e di lasciai g drammi 



394 



KRtfsnBiu (3448-3449-3450) 



litto, cioè di far cho gli uomini temano di pocearo. 
Meglio sarebbe una predica dell' inferno o del purga- 
torio; e meglio ancora una (3449) lettura del codice 
ponalo che si facesse dalla scena. Il loro scopo si è 
d'ispirare odio verso il dolitto. Questo è ciò elio lo leggi 
non possono. Laddove l'ispirar timore è proprio uffizio 
di esse, ed esse sole il possono, o corto più e meglio 
d'ogni altra cosa; eccetto forse l'esempio vivo de' ga- 
stiglii, cioè l' effettiva esecuzione delle leggi penali. 
Ora la punizione del delitto non ispira odio. Anzi lo 
scema, perché sottentra e con lui si mescola la com- 
passione. Anzi lo distrugge, perché la vendetta spe- 
gne tutti gli odi. Anzi produce un effetto a lui con- 
trarici, perché la compassione è contraria all' odio, e 
sposso avviene che nel veder punito il delitto, questa 
superi ogni altro sentimento, o gli sponga e resti 
sola; e sposso la pena, benché giusta ed equa, par 
piti grave del delitto; o spessissimo è odiosa, parto 
per la piota, parte perché alcuni per viltà d' animo 
e poca stima di so stossi, altri per cognizioni del- 
l'uomo, si sentono, più o meno prossimamente o lon- 
tanamente, capaci di peccare; e ninno ama di esser 
punito, anzi tutti abborrono il gastigo in so stossi. 
Il dramma (3450) di lieto fine coli' effetto di una sua 
parte distrugge quello doli' altra. ') Voglio dire la 
compassione (dell' odio verso la colpa , eh' è pur di- 
strutto dalla catastrofe, ho già detto). Il giusto ec, 
divenuto felice, per infelice che sia stato, non è più 
compatito. Ognuno quasi si contenterebbe di arri- 
vare per la stessa strada alla stessa sorto. L' oppresso 
vendicato non è compatito. Ora egli è cosa stoltis- 
sima il travagliare in un dramma ec. ad eccitare 
un affetto che il dramma niodosimo debba diretta- 
ìnonto spegnere, e che, non a caso, ma per inten- 
zione dell' autore e por natura dell' opera, finita la 



') Vngeriisi 1* p. 312?. 



395 

(3450-3451-3452) _ J?ENOTRt__^_ _ _ ' - 

u Uttiira non deliba lasciare alcun 
rappresentazione o la -JgW dobba e8Ber dura- 
vestigio di se; un affetto che non u f _ 
bile, che durando S1 opponga ali «g^J do 
U dall'autore ^«*SB 
l'eccitar questo affetto, come la £ cho 
mOT itevolmonte miche , è ijW ord \ naria - 
l'autore e h dramma « P^^.^truggerlo nel 
m ente accado), il farlo ™* durevole, il Mg» , 
suddetto modo, e te m ^ 

principale e non durevole pi" dramma «teseo, 
^M^Se del dramma, 
nrmexpale o non rxeiuu lim , severar6 né sino alla 
6 e di Ind^ser prodotto dal 

fine, né dopo la hno, e da nov iw dramma 
dramma considerato nell' mter e; fri* di _ 
considerato nell'intero esser ^prodotto ™ 
verso, anzi contrario, a quello eh ex «W^r 
Lopo principale. La f ^/j^ ^ S° <* 6 
gliansa è maggiore assai ne , taW» . ^ fl 

5» quelli di lieto g^f*^ oppro ssi, la 

Sf'S \ sono ambedue di chi non le 

felicita e 1 xxxteuoxia ha nome 

r? ta - 0 M : vi SSiW 

di buono, e viceveisa. -l mn . tra ji carattere o la 

U malvagità f^^^Sg^m V* « Ua è 
condotta morale do fehex e deg i| * ri)dio 

V01 ,mente. ^K^^^Ji malvagi, 
c il depresso «Xvtsa ^ la natura e 

bonche felici e viceversa. iW a iaio e la 

la verità delle cose, facendo so tu nato ^ 
virtù. (3452) È ben gmnde = ^ , pro _ 

d -f:d-o r i-i^ ; e a --^^ 



') Vflgsani In P- 3I2&-3133. 



596 pensi Kit t (3452-3453) 

tu pero, l' infamia, 1* indignazione, la piota, la stima, 
la lode sono non piccoli, e certo i soli, gastighi e 
compensi destinati in questo mondo al vizio o alla 
virtù. Kon è poco il far che l'ima e l'altra gli otten- 
gano, elio l'uno sia punito, l'altra premiata coni' am- 
bedue possono esserlo, che la natura delle cose abbia 
luogo, olio l'ordino stabilito allo cose umano o il do- 
oreto della natura sia effettuato. Il qual ordine e de- 
creto nou è altro che questo: sieno i malvagi felici 
od infami, i buoni infelici e gloriosi o compatiti. Or- 
dine spiosso turbato, e decreto ben sovente trasgredito, 
non quanto alla felicità ed infelicità, ma quanto al 
biasimo e alla lodo all' odio ed all' amoro o compas- 
siono. L' uditore, vedendo il vizio e il delitto rappre- 
sentato con vivi e odiosi colori nel dramma, desidera 
fortemente di vederlo punito. E per lo contrario ve- 
dendo la (3453) virtù o il merito oppressi e infelici, 
e rendutigli con bella e viva pittura od artifizio ama- 
bili e cari dal poeta, concepisce sensibile desiderio di 
vederli ristorati e premiati. Or se né l'imo né l'altro 
fa il dramma stosso,*) cioè lascia il vizio impunito 
anzi premiato, e la virtù non premiata anzi punita e 
sfortunata; no seguono due bellissimi effetti, l' uno 
morale, e l'altro poetico. Il primo si è che l'uditore, 
appunto per lo sfortunato esito dolla virtù e il con- 
trario del vizio, che se gli è rappresentato nel dram- 
ma, si credo obbligato verso se stesso a cangiare 
quanto è in lui lo sorti di quo' malvagi e di que vir- 
tuosi, punendo gli uni col maggior possi bile odio od 
ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore, 
di compassione e di lode. E con questa disposizione 
tutta di abbonamento e detestazione verso i malvagi 
o di tenerezza e piotà verso i buoni, ogli parte dallo 
spettacolo. La qual disposiziono quanto sia morale e 
buona e desiderabile che si desti, chi ned vede? L 



Veggasl la p. 3109-10 



397 

^453-3454-3455^ ^™iu______ 

"77„ 454ì i '» uic ° mod ° ai farcho 

questo (3454) e . , ■ tì e passiona- 

Auditore parto appas «O* gjj» * ,. ^ a 
tacente n*mfco J^, J «>' ^ d ^ 

passile l'attor dell una e ^ loo» . gtata 

cilissiW a conseguirsi ogga W e lobei 

8MttF é difficile ad ^°f d »° Xa parto cosi utile 
della moltitudine; ma co ^^^ amur6 , ó gi- 
rile più non può darsi, pe.cn n 1 otì _ 

l'Odio ^-V n V:i"t^o inpas- 
8 endo pura «jg-, e ■ « *g antic „ tc . L > effo tto 
sione, quali furono n0 » f t0 lascia noi 

P06tìCO d 5li udTtor? ^ Sii fa partoe col- 
cuore degli uditoli un -Htato o commosso 

l'animo agitato e -^ ^"o ^chetato, prima 
ancora, non pinna corninolo e 1 fe 

11 *T?5b2. ^'Sessione cuna passion viva 
S^od^oZnTma la lascia il che non ,fa d 

l i lieto foie; o l' effetto è durevole (3455) e 
dramma di lièto in , lfl di Lma poe _ 

saldo. Or che altio n rics , e la9CÌate un 

8ia; poeticamente par and ci >o pi od ^ ^ ^ 
sentimento torte e dui ovolo ^» 
fosse d'altronde utile e morate, ^"JjJ^ 'he 
Coito ben pochissime sono «l^lle poo 6 £ 
ottengano il detto scopo; e quelle qua unqu I 
siniche l'ottengono, non sor > e no n pos « , q 
■ che grandi, in»gm, famose ^ } yerB0 

tato che il ^annna dopo a™ m osso , ^ 

il ^^Sl^of^Se dallo spettacolo col 
punito, C0ffi0 no ? Qaal vostro 

cuore in pienissima calma. * rimangon tutti 

affetto resta ^ Sa -pol che Lia gli 

in pienissimo ^ilibrlo, si 

affetti d0 ' lett -\°;tr n effetto poetico? che altro 
i tT^tLTt^ se non esser. 



898 



PENSIÈRI (3455-3456-3457; 



quieti, o sonza tempesta né commozione alouna? e 
qual altro è il proprio uffizio o scopo della poesia se 
non il commuovere cosi o cosi, ma (3456) soni] irò 
commuover gli affetti? ]i quanto all'equilibrio, ve- 
dete: da una parto l'odio e l'ira elio avevate conce- 
pita, dall'altra la vendetta che placa e sfoga l'uno e 
l'altra; di qua il dosidorio, di là l'oggetto desiderato, 
cioè il castigo del malvagio. Lo partito sono uguali ; 
l' all'are è finito, il negozio è 1 erminato, gì' interessi 
pareggiati, voi chiudete il vostro libro do' conti e non 
ci pensate più. Infatti l'uditore si pai-te dal dramma 
di lieto fine non altrimenti che chi abbia ricovuto 
un'offesa e fattane piena e tranquilla vendetta, o ne 
sia stato pienamente soddisfatto, il quale torna a casa 
e si corica colla stessa placidezza e coli' animo cosi ri- 
posato, come se non gli fosse stata fatta alcuna offesa, 
o di quosta non serba pensiero alcuno. Bello effetto 
di un dramma, di una rappresentazione, di una poesia, 
lasciare di se tal vestigio negli animi dogli spettatori 
o uditori o lettori, come s ; e' non l' avessero né veduta, 
né \idita, né letta. Meglio varrebbe essero stato a uno 
spettacolo di forze, di giuochi, cquostro, e che so io, i 
quali pur lasciano (3457) nell'animo alcuna orma o 
di maraviglia o di diletto o d' altro. Ma in verità in 
quella parte dell'anima in cui il dramma e la poosia 
deve agire, quivi il dramma di lieto fine non lascia 
alcun segno. So lascia alcuna traccia in altra parto 
doli' anima, questo effetto o è alieno dalla poosia, o 1 e 
secondario o estrinseco , accidentale, di circostanza, 
parziale, cioè non prodotto dal totale della composi- 
zione, forse proprio della decorazione, dell'azione ec. 
dolio spettacolo più che del dramma, non poetico ec. 
Or quanto all'effetto del dramma di lieto fino poetica- 
mente considerato, esso è tale qnal si è mostrato, anzi 
non è, perch'osso è nullo, e por ciò che spelta al totale, 
il dramma di lieto fine non produce, poeticamento, al- 
cun effetto. Quanto all'effetto morale, che odio, che 



'ÌD9 

(3457-3458-3459) J'Ensibsu J__ 

mCn l l r u( utor6 gli avrebbe dato nel cuor suo 1 na 

~2 ^SS « 

poeta, e non ^ , oit™, passione alcuna 

dram^ senza n odio né ^g» quOMto di- 

S£ irT^te civetta nel dramma « 

il «a altresì circa quella che spetta ai buoni. .Ouj 
derò queste osservazioni con un esempio d fatto n. i 
a o„i da eia si trovo presente, Si «M» 
lpgna pochi anni fa fJ^SSÌ 
vivissimo interesse negli udito , « d aUa 

«rìortunato e gl'innocenti restano oppressi qim 
rvSe qneUoche possano leverò tragedie negli animi 

avrebbero rappresentato 0«*^« > ued 

. avrebbero veduto la morte di Egis to la g 

dol teatro fremendo perche > ^J^J^ 
ancora impunito, e dicendo che pei q aluni 1 
e-o «soluti 1 ^domanj i ^ £ il 
di questo scellerato. E ljOtro tti 1 nQ ^ 

^OmSmT^— rehe si consideri 
pova. 0 moraimonL j u ^ aà _ 



400 tknsi kri (3459-3460-3461) 

od una passione cosi calda, un effetto cosi vivo, po- 
tuto da loi produne e lasciare, per l'una e per l'altra 
parte ai può vedere se le tragedie di lieto lino 
sieno poco o utili o dilettevoli. E paragonando gli 
effetti di questa con quelli doli' Oreste, elio eerto 
furono molto minori e inon vivi (sebbene anche 
questa seconda tragedia sia bellissima), si sarà po- 
tuto notare da qualunquo mediocre osservatore se il 
dramma di tristo, o quello di lieto fino, sia da profe- 
rirsi, (3460) o qual de' due abbia maggior forza negli 
animi, e sia d' effetto più teatrale o poetico, e più 
inoralo ed utile. - - Si potrà applicare tutto il passato 
discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi 
ne' quali V infelicità de' buoni o degli immeritevoli 
non vien da' cattivi, né da altri vizi o colpe, ma dal 
fato o da circostanze, quali sono l'Edipo re di Sofocle, 
la Sofonisba d'Alfieri, e molto tragedie di varie età 
e lingua, e molti drammi sentimentali moderni, ap- 
presso vario nazioni. E similmente a quei drammi in 
cui l'infelicità viene da colpa, ma o involontaria o 
compassionevole oc. degli stessi infelici, come ap- 
punto si può dire che sia l' Edipo re, la Fedra, e molti 
drammi massimamente moderni, o tragedie ec. E dalle 
stesse prodotto osservazioni si potrà raccogliere se 
sia meglio che lo scioglimento di tali drammi sia fe- 
lice o inf'olico, che la sorte de 1 protagonisti si muti 
o si conservi la stessa, che di felice divenga infelice, 
o che por lo contrario ec. (16-18 settembre 1823), 

* lUhia.r spagnuolo, cioè riferire, raccontare, da 
relatus di refero. Relater francese antico, vale il me- 
desimo (18 settembre 1823. (3461) 

* I poeti latini (e proporzionatamente gli altri scrit- 
tori secondo che lor conveniva) usarono la mitologia 
greca, non per lo aver proso da' greci la loro lettera- 
tura e poesia , ma perché, o da' greci o d' altronde 



(3461-3462) ^^fessieei _ 401 

Ch' e' rìceveseei-O la loro religione, essa mitologia alla 
religion latina apparteneva niente meno che alla gre- 
ea e nel Lazio non meno che in Groom era cosa po- 
polare e creduta dal popolo. Laonde se questa o quella 
Lola adoperata, accennata ee. dagli scrittori o poeti 
Ì ìÌ fu Sa da' greci, o eh' ella fosse stata pnmie- 
ramente o di netto inventata da qualche greco poeta, 
o che in Grecia e non nel Lazio ella fosso sparsa ec, 
non perciò segue che la mitologia dagU scrittori lati™ 
usata non fosse, cW ella fu, altrettanto latina che 
e reca Perocché il fabbricare, per dir cosi, sul tonda, 
fnonto delle opinioni popolari, fu sempre lecito ai 
poeti, ansi fu loro sempre prescritto. Laonde se i 
poeti latini fabbricarono su tali opinioni popolari na- 
zionali o dell' altrui fabbriche si servano, o rami 
stranieri innestarono sul tronco domestico, nrono di 
E li doc riprendere. Né perciò (3462) essi vollero 
introdurre un nuovo genere di opinioni popolari nel a 
Lione e farne materia di lor poesia; ne snpposmo 
falsamente un genere, un sistema di <«^P«^ 
che nella nazione non esisteva, ma su di quel eh esi- 
steva in effetto innestarono, fabbricarono, lavorarono 
Similmente i greci, da qualunque luogo pigliassero a 
loro mitologia, certo è che di là presero eziandio la 
o o religione popolare, e che tra' greci t sistema 
.reco religioso'* mitologico, quanto alla -stanza al a 
natura, alla principal parte ed al generale, non fa 
rL de' poeti che del popolo. E se i letterati greo, 
ri giovarono, come si dice, delle letterature o d - 
■ SiS ee. egizie, indiane o d'altre genti, non adotta, 
ro io perciò nelle loro finzioni ch'avessero ad esser 
popolari e nazionali ec. le mitologie d'esse nazmm 
L'aver noi dunque ereditato la letteratura greca o 
latina, l'esser la nostra letteratura modellata su di 
quella', anzi pure una continuazione, per cosi dire, di 
Quella non vale perch'alia possa ragionevolmen 
usare la mitologia greca né latina al modo che quegli 

■ • v 215 
Leopakol — Pennati* \ ■ 



402 



pensieri (3462-3463-3464) 



antichi l'adoperavano. Giacché non abbiamo già noi 
colla (3463) letteratura ereditato eziandio la religiouo 
greca e latina, né i latini, conio lio dotto, usarono la 
mitologia groca perciò eh' essi avevano adottato la 
groca letteratura ; né se la letteratura ebbero i greci 
dalla Eonicia o donde si voglia., perciò fu che i greci 
poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella 
tal gente ; ma fu por le ragioni dette di sopra, e che 
nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt' altro 
sono le nostro opinioni popolari nazionali o moderne 
da quelle de' greci e de' latini. E gli scrittori italiani 
o moderni che usano le favole antiche alla maniera 
dogli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta 
imitazione. L' imitare non è copiare, né ragionevol- 
mente s' imita so non quando l' imitazione è adattata 
o conformata alle circostanze del luogo, del tempo, 
delle persone ec. in cui e fra cui si trova 1' imita- 
tore, e per li quali imita, e a' quali è destinata e 
indirizzata l' imitatone. Questa può essere imitazione 
nobile, degna di un uomo, e di un alto spirito o in- 
gegno, (3464) degna di una letteratura, degna di esser 
presentata a una nazione. E una letteratura fondata 
comunque su tale imitazione può esser nazionale e 
contemporanea e meritare il nome di letteratura. 
Altrimenti l' imitazione è da scimmie, o una lettera- 
tura fondata su di essa è indegna di questo nome, si 
per la troppa viltà, essendo letteratura da scimmie, 
si porche ima letteratura che tra' suoi è forestiera, e 
a' suoi tempi antica, non può esser letteratura per so, 
ma al più solo una parto d' altra letteratura o una 
copia da potersi guardare, se fosso poro perfetta (°n* 
sempre l'opposto) collo stosso interesse con cui si 
guarda una copia d'un quadro antico ec. e niente pia. 
Veramente pare che i nostri poeti, usando le antiche 
favole (come già i più antichi italiani e forestieri 
scrivendo in latino), allottino di non essere italiani 
ina forestieri, non moderni ma antichi, e so no prò- 



( 3464- 34G 5-346 6) pensici! ^03 

gino, e elio questo sia il debito della nostra poesia 

0 letteratura, non esser né moderna, né nostra, ma 
antica od altrui. Affettazione e finzione barbara, (3465,1 
ripugnante alla ragione, e colla qual macchia una 
poesia non è vera poesia, una letteratura non o vera 
letteratura. Come non è né letteratura né lingua nò- 
atra quella letteratura e quella lingua ohe oggidì usano 

1 nostri pedanti, affettando e simulando di esser an- 
tichi italiani, e dissimulando al possibile di essere 
italiani moderni, di aver qualche idea che gl italiani 
antichi non avessero, perché non poterono (cosi torse 
foce Cicerone verso Catone antico eo. o Virgilio verso 
Ennio ec. ?) ec. oc. Onde seguo che noi oggi non ab- 
biamo letteratura né lingua, perché questa non es- 
sendo moderna, benché italiana, non è nostra, ma 
d' altri italiani, e perché non si dà né si diede mai 
né può darsi letteratura che a' suoi tempi non sia 
moderna : e dandosi, non ù letteratura. 

Quel oh' io dico dell'uso delle favole an ti cho tatto 
alla maniera antica (cioè mostrandone persuasione o 
presentandole in qualunque modo a' lettori o uditori 
come e' ne fossero persuasi, ché altrimenti il preva- 
lersi della mitologia non ha peccato alcuno), latto, 
dico da' poeti cristiani antichi o moderni (massime 
italiani) scrivendo a' cristiani, si (3466) dee diro 
dell' eccessivo uso, anzi abuso intollerabile della mi- 
tologia che fanno c fecoro i pittori e scultori oc. cri- 
stiani, non d'Italia solo, ma d'ogni nazione, e monte 
meno i forestieri che gl'italiani, «e sta ad essi a 
scegliere il soggetto, potete esser sicuro massime 
degli scultori, eh' o' non escirà della mitologia. Ed 
anche grandissima parte de' soggetti eseguiti per com- 
missione, essendo mitologici, seguo che il più dello 
pitturo e massimamente delle sculture che si veg- 
gono in Europa (fuor delle Chiese), sieno mitologiche. 
Par cho tutto lo scopo che si propono uno scnltoro 
(siccome un poeta) sia che la sua opera paia una 



404 



PEW1HKI 



(3466-3467^3468) 



statua antica (corno un pooma antico), dovondo sola» 
mente cercare ch'ella sia tanto bolla quanto un'an- 
tica, o più bolla ancora, quantunque, se si vuole, noi 
genero del bollo antico (19 settembre 1823). 

* Ces homm.es qui existent aitisi (lea Ohartreux de 
Rome) SOttt pouriant ics mèmes à qui la guerre et tonte 
san activité suffiraient à peine s'Us s'y étaient accou- 
tumés. Cesi un sii jet inépui&able de réflexion que (3467) 
Ics diffirenttis combinaisons de la destince humaine sur 
la terre, liso passe dans V intcrieur de Vàme mille ac- 
ddents, il se forme mille habitudes qui font de chaque 
indìvidu un monde et non histoire. Connaìtre un autre 
parfaiiement serali l't'tude d'une vie entière; qu'est-cc 
donc qu'on entend par connaìtre Ics hommes? Ics tjou- 
verner, cela se peut, mais les comprendre, Dieu serti le 
fait. Corinne, livre X, chap. 1, t. II, p. 114. Ciò vuol 
diro elio l'uomo è sommamente e infinitamente o in- 
determinatamente conformabilo, o non è possibilo co- 
noscer mai tutti i modi e tutte le differenze in cui lo 
spirito degl'individui, socondo la diversità delle circo- 
stanze (eh' è infinita o indeterminabile), si conforma o 
si può conformare; per la stessa ragione per cui non si 
possono conoscerò tutte le circostanze possibili ad aver 
luogo, elio possono influire sullo spirito dogi' indivi- 
dui, né tutte quollo che hanno effettivamente influito 
su talo o tale individuo determinato, né le loro com- 
binazioni scambievoli, né le loro minute diversità 
che producono non piccole differenze di carattere oc. 
(3468) La maggior cognizione adunque cho si possa 
avoro dell'uomo è quella di sapere perfettamente e 
ragionatamente che gli uomini non si possono mai ben 
conoscere, perché 1' uomo è indefinitamente variabile 
negl'individui, e l'individuo stesso per so. E il pia 
certo segno di tal cognizione si è quello di non mara- 
vigliarsi inai un punto, e di esser bone o ragionata- 
mente e veramente disposto a non maravigliarsi di 



(3488-3469) 



PENSlEUl 



qualunque strana e inaudita o nuova indole, carattere, 
qualità, facoltà, aziono di qualunque individuo umano 
noto o ignoto ci possa veniro agli orecchi o agli occhi, 
ci accada o possa accader d' intendere o di vedere, in 
bono o in male. Chi è voramento giunto a questa dispo- 
sizione, e l'ha in so ben perfetta, radicata e costante, 
ed efficace, può dire di conoscer l'uomo il più eh' ò 
possibile all'uomo. E più infatti non può se non Dio, 
come ben dice la Stacil, perché Dio solo può conoscere 
e conosce tutti i possibili. Or gli uomini non si pos- 
sono porfettamonte conoscere chi non conosca poco mon 
che tutti i possibili, dico, i possibili di questa natura 
e di questa terra (19 settembro 1823). (3469) 

* Alla p. 2709. Quasi tutti gli antichi che scrissero 
di politica (tranne Cicerone, de rep. e de leyibus), la 
pigliarono puramente o principalmente dalla parte 
speculativa, la vollero ridurre a sistema teorico e di 
ragione, e disegnare una repubblica di lor fattura; e 
questo si fu lo scopo, l' intenzione e il soggetto do'loro 
libri. Ond' è che quantunque i moderni primiera- 
mente abbiano fatto della politica il loro principale 
studio, secondariamente, come privati che orano e 
sono la più parte, e quindi inesporti del governo, 
sieno stati obbligati a tenersi in ciò alla specula- 
zione più che alla pratica, e per la medosima cagione 
abbiano immaginato, sognato, delirato e spropositato 
nolla politica più che in altra scienza ; nondimeno io 
tengo per fermo che gli antichi, anzi i soli greci, aves- 
sero più Utopie ') che tutti i moderni insieme non 
hanno. Utopia è la repubblica di Platone, si quella di- 
sognata nella Politica, si P altra ne' libri delle Leggi, 



•l O piatemi di repubblica o dì legislazione, praticabili o non pra- 
ticabili, ma certo non praticati, o nolo immaginati e oompoatl da' ri- 
cpettlvl untori. Vedi Aristotele, PoWfa», 1. H, P- W» ITI , 179, fine, 116, 
l, IV, p. 2SS»-a2 , p. 358, fine. 



pENsnirti 



diversa da quolla, come osserva Aristotele noi secondo 
d» l PoMtici, p. ÌO(Ì-K). Utopie furono quelle di Filea 
Calcedonio (Aristotele, Politic, L II, od. Viotorii, Elo- 
rcnt., p. 117-20), e d'Ippodamo Milesio (ih., p. 127-35), 
"Utopia ò quella d'Aristotele (vedi il Eabricio). 1 ) E senza 
(3470) fallo Utopie furono ancora i libri politici e 
pori noinon o nomoi di Teofrasto, di Cleante e d'altri 
tali filosofi, mentovati dal Laerzio, e i perduti libri 
pur politici e pori nomon dello stesso Aristotele, e 
molti altri siffatti. 8 ) Aristotele spianta le repubbliche 
degli altri, ma, né più né meno ohe in filosofia, si erodo 
in obbligo di sostituire, o ci dà la sua repubblica o il 
suo sistema. 3 ) E cosi gli altri. Ed è pur notabilo cho 
gli antichi, e nominatamente i greci, o avevano o ave- 
vano avuto in mano gli affari pubblici, o potevano averli, 
o certo, ancorché stati sempre privati, erano pur parte 
delle rispettivo repubbliche, e contribuivano insieme 
col popolo al governo. E generalmente parlando, nello 
antiche repubbliche, tutte libero, i privati, ancorché 
dediti solo a filosofare e studiare, erano più al caso, 
se non altro per li continui discorsi giornalieri, per 
lo essersi trovati assai spesso alle concioni, perché i 
negozi pubblici passavano tutti e succedevano sotto 
gli occhi di tutti, e le cause degli avvenimenti erano 
manifesto, o nulla v' avea di segreto; (3471) erano, 
dico, al caso d'intendersi veramonto di politica, e di 
poterne ragionare per pratica, molto più che i mo- 
derni privati non sono, i quali si trovano e si son 
trovati, por lo più, in circostanze tutte opposte, e 



*) Para ohe anche Kiaclido Politico aorirease de optimo stata ciuit.atìs, 
senza puro Eivor mai trattato lo cobo pubbliche Vedi Cicerone, ad Quìnt. 
fralr,, III, ep. 5; Victor, ad Arisi, l'olii., p, 17i. Mours., t. V, p. 114, 
li-C, t. VI, p, 271), V. 

! ) Cosi lo iróXitefait ili Biogeno Cinico o di Zenone. Vedi il Laerzio 
9 la prelazione (lei Vettori alla politica d 1 Aristotele, !>■ 3, verso il Uno. 
(^na spetta ancora hi Uiropttdia. Vedi ivi, p. 5, 

") Kd A natotelo ora pur do'pirt ilovoti all' osservazione, tra' filosofi 
antichi. 



(347 1-3+72) 



VKNH1EIU 



nemmeno fanno offottivamente parto della loro re- 
pubblica e nazione, né d'altra veruna, se non di nomo. 
E nondimeno essi seguono nella politica l 1 immagina- 
zione e la speculazione molto manco, e l'esperienza 
o i fatti molto più che gli antichi non fecero, e va- 
neggiano o inventano ed errano molto meno (19 set- 
tembre 1823). 

AkistotSIìB, Potó., 1. II, ed. Victor., 
Fior., 1676, ap. Juntas, p. 131 (19 settembre 1823). 

* Alla p. 2916. Questa uniformità di stilo in Eu- 
ropa viene ancora da questo che tutto le moderno lette- 
rature son venute in principio dalla Francia (anche quel 
che v' ha nella letteratura e nello stile italiano e spa- 
gnuolo di moderno) ; laonde e gli stili nelle diverso 
lingue d' Europa sono conformi tra loro di genero, 
perché tutti derivati da una stessa fonte ; e poca va- 
rietà (3472) hanno ciascun d' essi stili verso se me- 
desimo, perché tutti derivati originariamente da uno 
stile che non ne ha veruna, e molti modifìcantisi tut- 
tavia su di questo. 

Del rimanente, egli è tanto certo che l'arte dello 
stile e del dire è propria esclusivamente degli antichi, 
quanto che l'arto del pensare è propria esclusiva- 
mente de' moderni. Gli antichi non solo facevano di 
quell' arte uno studio infinitamente maggiore che noi 
non facciamo ; non solo no possedevano e conoscevano 
mille parti, mille mezzi, mille secreti che noi neppur 
sospettiamo, e che appena e a gran fatica possiamo 
intendere quando e' gli spiegano o ne parlano expro- 
' fosso (come Cicerone, Quintil. eo.), non solo, insomma, la 
detta arte era senza paragone più ampia, stesa, ricca, 
varia, distinta, accurata, spocifìcata, particolarizzaf a 
appo gli antichi che fra i moderni, ma essa era quasi 
1' unico, e senza quasi il principale studio degli an- 



PENS1EH1 



(3472-3473-3474) 



Udii elio pretendevano e aspiravano particolarmente 
al nome di scrittori, e massime di letterati. Si osser- 
vino sottilmente le opore d' Isocrate, di Senofonte e 
di tali altri cento. Tutto parole in sostanza (3473) 
senza più. Gli antichi letterari, se ben guardiamo, 
non si proponevano in concliiusiono altro, che di dir 
bone, correttamente, eultamente e artifìziosamento 
quello che tutti già sapovano e pensavano o facilis- 
simamente avrebbero potuto e saputo pensare da su, 
ma poco sapevano in quel modo significare. E non per 
altro in verità divenivano famosi che per questo (an- 
corché forse né gli altri né essi so ne avvedessero, o 
avessero avuta questa intenzione espressa e distinta o 
a se medesimi manifesta), quando ottenevano il detto 
effetto. E non parlo già qui de' sofisti, i quali, a diffe- 
renza degli altri, avovano o professavano apertamente 
la detta intenzione e la facevano vedere ; e questa si 
era l' unica diversità roalo che passasse tra' più an- 
tichi solisti e i classici, e il genero di scrittura di que- 
sti e dj quelli. Gli uni affettavano di dir bene, e mo- 
stravano di affettarlo, gli altri dicovano bene per arto, 
ma non mostravano di procurarlo e ricercarlo, come però 
facevano. Quanto allo stile, questi e quelli differivano 
notabilmento. Quanto a' concetti, (3474) allo sontonze, 
all' invenzione, alla condotta, all' ordine ec. non v' ò 
divario alcuno. Si considerino attontamonto i due pre- 
detti (nemici ambedue de'Sofisti), e tutti quelli che fra 
gli antichi corcarono e ottennero l'ama di bene scri- 
vere; ') e si vedrà elio no' loro concetti ec. tutto è 
sofistico. No anche bisognerà molta attenzione ad av- 
vedersene. In Senofonte, particolare odiator de' sofisti, 
tanto perseguitati dal suo maestro (vodi la fine del 
Cinegetici)) e a lui por se stesso abbominevoli; in Se- 
nofonte, cosi candido e semplice e naturalo che par tutto 
1' opposto possibilo del sofistico, in Senofonte il sofi- 



') Aristotele, per esemplo, non hi corcò, ne TeofruBto «e. 



(3474-3475-3476) pensieri J 1 ^ 

stico de' concetti dà subito iteli' occhio, tanto oh.' io 

10 sentii notare con maraviglia a persona niente in- 
tendente né di greco né di letteratura antica, che 
avea non più che gittate 1? occhio su certa traduzione 
di queir autore. E Socrate stesso, V amico del vero, 

11 bello e casto parlatore, V odiator do' calamistri o 
do' fuchi e d' ogni ornamento ascitizio e d'ogni affet- 
tazione, che altro era ne' suoi concetti se non un so- 
fista (3475) niente meno di quelli da lui derisi ? E 
per (pianto poco gli antichi generalmente pensassero, 
non è possibile a crederò che i pensieri e lo osser- 
vazioni di Socrate, di Senofonte, di Isocrate, di Plu- 
tarco (tanto più recento) e simili, non fossero, al tempo 
di costoro medesimi, comuni e triviali e volgari (siono 
politici, filosofici, morali o qualunque), o eccedessero 
la comune capacità di pensare, di trovare, di conce- 
pire, di osservare. Ma pochi sapevano esprimorh a 
quel modo, come ho detto di sopra. 

È cosa osservata che le anticho opere classicho, 
non solo perdono moltissimo/, tradotto elio sieno, ma non 
vaglion nulla, non paiono avere sostanza alcuna, non vi 
si trova pregio che l'abbia potuto fare pur mediocre- 
mente stimabili, restano come stoppa e cenere. Il che 
non solo non accado allo opere classiche moderne, ma 
molto di esse nulla perdono por la traduzione, e in 
qualunque lingua si voglia sono sempre le medesime, 
e tanto vagliouo quanto nella originalo. I pensieri di 
Cicerone non sono certo cosi comuni come quelli de' so- 
praddetti ec, né furono de' più (3476) comuni al suo 
tempo, massime tra' romani. Nondimaneo io peno a 
crederò eh' altri possa tollerar di leggere sino al fino 
(o far ciò senza noia) qualunque è più concettosa 
opera di Cicerone, tradotta in qual si sia lingua. Clio 
vuol dir ciò, che vuol dir questa differenza di condi- 
zione tra l' anticho o le moderne opere, tradotto ch'elio 
sieno, se non che negli antichi, anche sommi, scrit- 
tori, o tutto o il più son parole e stilo, tolte o can- 



410 



['UNNI KKI 



giate le quali cose non resta quasi nulla , o le loro 
sentenze scompagnate dal loro modo di significarle 
paiono le più ordinarie, le pia trite, lo più popolari 
cose del mondo. Veramente i pensieri degli antichi, 
più o meno, son persone del volgo; detratta la vesto, 
se le loro formo non appaiono rozze, certo paiono or- 
dinario, e di quelle che per tutto occorrono, senza 
nulla di peregrino, nulla clie inviti l'occhio a con- 
templarle, anzi neppure a guardarlo, nulla insomma 
né di singolare né di pregevole. Nelle opere moderne 
all'opposto tutto è pensieri e persona; stile nulla; 
vesti cosi dozzinali che pili non potrebbero essere'. 
E perciò appunto è necessario che le opere classiche 
antiche tradotto perdano -tutto o quasi tutto il loro 
pregio, cioè quello dolio stile, perché i moderni non 
hanno di gran lunga 1* arte dello stile che gli antichi 
ebbero, né possono nelle loro traduzioni conservare ad 
osso opere il detto pregio ec. Ma non conservando lor 
questo, mimo altro gliene posson lasciare che vaglia 
la pena (iella lettura, e che distingua gran fatto esse 
opere dalle più volgari e mediocri, massime le mora- 
li, filosofiche ec. So che la volgarità de' pensieri ne- 
gli antichi da molti è considerata come relativa a 
noi, che sappiam tanto di più; ma (3477) io dico 
che si fa torto all'antichità, allo spirito e alla ra- 
gione umana universale, se non si crede che questa 
volgarità, almen quanto a grandissima parte d' essi 
pensieri, non sia assoluta, o non fosse volgarità an- 
che al tempo degli scrittori che gli esposoro (19 set- 
tembre 1823). 

* Sonito da sono cut, continuativo o frequentativo (so 
perù non è dal nome sonitm), ma d' incorta lede. For- 
cellini (20 settembre 1823). 

Contentus a um (ondo contentare italiano, contenter 
francese ec.) non è in origine che un participio bello e 



(3477-3478-3479) pensieri _f 

buono. Eppure a poco a poco ei divenne un aggettivo 
Sémplicissimo, e tale egli è unicamente noli' italiano, 
nel francese, nollo spagnuolo (20 settembre 182o). Losi 
falsw ec., di' cui voggasi la p. 3488. Vedi p. 3620. 

* Frivoli, frissonner,— brivido — <ff>i<;aa> (20 settem- 
bre 1823). 

*Allap. 3158. Si potrebbe aggiungere il nostro 
Monti, noi (piale tutto è immaginaziono, e nulla parte 
ha il sentimento, come n' ha grandissima nel più dello 
poesie di Lord Byron (se però quel di Lord Byron o 
ben significato (3478) col nomo di sentimento). Certo e 
che il Monti, benché d'immaginazione senza alcun con- 
fronto inferiore a quella di Lord Byron, o benché non 
abbia di poetico cho l'immaginazione (si nelle cose si 
nollo stile), si lascia leggere non senza piacere, ne 
senza effetto poetico, e l' immaginoso in Ini comparisce 
molto più spontanoo e men comandato che in Lord 
l5yron. Ed è forse al contrario, perché Lord Byron e 
veramente un uomo di caldissima fantasia naturale, e 
Monti, qualch' egli sia per se stesso, nelle sue compo- 
sizioni non è che un buono o valente traduttoro di 
Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio od altri poeti antichi, 
e imitatore, anzi spesso copista, di Dante, Ariosto e 
dogli altri nostri classici. Sicché Lord Byron tira le 
immagini dal suo fondo, e Monti dall' altrui. E se Del- 
l' uno ha doli' impoetico lo sforzo che [nel] suo poetare 
appariscc,neH'altro è veramente impoetico l'imitare e il 
copiare che però nella sua stessa poesia intrinsecamente 
non si lascia scorgere. Ond' è cho le poesie di Lord 
Byron sieno meno poetiche, considerate m so stosso, 
che quelle di Monti. Mentre però questi è infinita- 
mente meno poeta di quello. (3479) I si conchiude che 
lo poesie dell'uno sieno impoetiche, e che l'altro non 
•sia poeta. E l'effetto poetico delle poesie di Monti 
spetta più agli antichi che a lui, ed è piuttosto come 



412 



PENSI E Iti 



(3479-3480) 



di poesia e d' immaginazione antica, olio di inodorila. 
Nel sentimento poi la vena del Monti è al tutto socca 
o provandocisi, il elio ogli fa ben di rado, non ci riesco 
punto, come nel Bardo (20 settembre 1823). 

* Il poeta dee mostrar di avere un fine pili serio elio 
quello di destar delle immagini e di far dello descri- 
zioni. E quando pur questo sia il suo intento princi- 
pale, ei deve corcarlo in modo come s'e' non se ne cu- 
rasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose 
più gravi: ma descrivere fra tanto, e introdurre nel 
suo poema le immagini, come cose a lui poco impor- 
tanti che gli scorrano naturalmente dalla penna; e, 
por dir cosi, descrivere e introdurre immagini, con gra- 
vità, con serietà, senz' alcuna dimostrazione di com- 
piacenza e di studio apposito, e di pensarci o badarci, 
nó di volor che il lettore ci si fermi. Cosi fanno Omero 
e Virgilio e (3480) Dante; i quali, pienissimi di vivis- 
sime immagini e descrizioni, non mostrano pur d' ac- 
corgersene, ma fanno vista di avore un fine molto più 
serio elio stia loro unicamente a cuoro, ed al qual solo 
fesUnent continuamente , cioè il racconto dell' azioni 
e V evento o successo di esse. Al contrario fa Ovidio, 
il quale non dissimula, non elio nasconda ; ma dimo- 
stra e, per dir cosi, confessa quello che è; cioè a dir 
oli' ei non ha maggioro intento nó più grave, anzi a 
nuli' altro mira, che descrivere od eccitare e seminare 
immagini e pitturino, e figurare e rappresentare con- 
tinuamente (20 settembre 1823). 

* Io notava un vecchio ributtantemente egoista 
compiacersi di parlare di certi suoi piccolissimi sa- 
crifizi e sofferemo volontarie (vere o false ch'olle 
fossero, e volontarie veramente o no), o farlo con una 
certa quasi verecondia, che ben dimostrava, massime 
a chi conoscesse il carattere della persona, lui essere 
persuaso di l'aro e sostener cose eroicho, e che quoi 



41 S 

(3480-348 1 -3482) — 

Sacrifid 6 patimenti dimostrassero in lui una gran 
Loriorità d'animo, e rinuncia di se stesso e del suo 
aX proFio. Egli aveva ben caro che co 8 i parere 
S (ìm) altri, e a quarto fino ne parlava, ma dava 
fio ( !J intendere chetale si ora sfatti a sua pro- 
pria opinione. Tanto poteva m nn animo lì pA radi 
ato nel più schietto e compioto egoismo, mtoUeraUt* 
d'ogni mLomo incomedo, e capace 
che che sia ad una sua menoma comodi U tanto 
teva, dico, in un animo qual esso era mfattt, 
totalmente inerte, solitario e segregai o * to dalla 
società il desiderio di parere si agli occhi aitata, si 
Sora a' mxoi propri, capace di ^.«^^ 
per oro all'amor proprio, il contrario di_ egei -ta od 
Lemma eroe. E tanto è vero che non ai trova quasi 
omo cosi impudentemente e perfettamente egoista 
Ti atto, che non desideri 

dmeno a se stesso, e non si persuada effettivamente, 
non si compiaccia sommamente ^'opinione d s- 
sere un eroe. Perocché a tutti e grato 1 ^starna 
S se e si può esser certi che tutti, o m un modo o 
11? altro si stimano, e grandemente, e cosi coutinua- 
^Smo e" i amache vuol dir tuttafiata, = 
TtervaUo alcuno, (3482) benché la jta» 
feome anche l'amore, secondo che altrove a e aimo- 
£o) 3551 ^ mededmo individuo ora il pi* 
t^manco, secondo diverse circostante o cag on 
Del resto puoi vedere la p. 124, 3108-9 e ditti ». 

T" fanità o vogliamo dire **b« OC V^dx 
l'Alfieri di sé che facea gli esercii militai, da pie 



pen sieri (3482-3483) 

colo (20 settembre, vigilia della festa di Maria San- 
tissima Addolorata, 1823). 

* Ne' tragici greci (cosi negli altri poeti o Borili 
tori antichi) non s'incontrano quelle minutezze, quella 
particolare e distinta descrizione e sviluppo delle pas- 
sioni o de' caratteri che è propria de' drammi (e cosi 
degli altri poemi o componimenti) moderni, non solo 
perché gli antichi orano molto inferiori a' moderni 
nella cognizione del cuore umano, il che a tutti è 
noto, ma perché gli antichi né valevano gran fatto 
nel dottaglio, né lo curavano, anzi lo disprezzavano 
e fuggivano, e tanto era impropria degli antichi 
l'esattezza e la minutezza quanto ella è propria e ca- 
i-atteri «tic a de' moderni. Ciò noi modo e per le ragioni 
da me spiegate altrove. 

Oltro di ciò i moderni no' drammi vogliono in- 
teressare col mettere i lettori o uditori in relaziono 
coi personaggi di quelli, col far che i lettori (3483) 
ravvisino e contemplino so stessi, il proprio onoro, i 
propri affetti, i proprii pensiori, le proprio sventuro, 
i proprii casi, le proprie circostanze, i proprii senti- 
menti, no' personaggi del dramma e nel loro cuore, af- 
fetti, casi ec, quasi in un fedelissimo specchio. Si può 
essor certi che l'intenzione de' greci tragici, massime 
de' pili antichi, fu tutt' altra, e in eerto senso contra- 
ria. Questo effetto era troppo debole, molle, intimo, 
recondito, sottile, perché o i poeti antichissimi fos- 
sero capaci di proporsolo, o i loro uditori di provarlo, 
o provato, di compiacersene Secondo la natura do' po- 
poli e de' tempi meno civili, gli spettatori cercavano 
e i poeti si proponevano nel dramma un effetto molto 
più forte e gagliardo ed éclatant, delle sensazioni 
molto pili fiero, pili onergicho, più prononti-w. dolio 
impressioni molto più grandi; ed al tempo stesso meno 
interiori e spirituali, più materiali od estrinseche. I 
tragici greci cercarono lo straordinario c il maravi- 



(3483-3484-3485) pensieri 415 

glioso dolle sventuro e delle passioni, appi-esso a poco 
corno fa oggi Lord Byrou (con molta maggior cogni- 
zione però dell'uno (3484) e dell'altre): tutto 1 op- 
posto di quel ohe si richiedeva per metterle m rela- 
zione, in conformità, o d'intelligenza con quelle degli 
uditori. Sventure e casi orribili c singolari, delitti 
atroci, caratteri unici, passioni contro natura, furono 
i soggetti favoriti de' tragici greci. Tale per certo si 
fu l'iatenzion loro, sebbene la scelta, l'invenzione, 
l'immaginazione non sempre corrispondesso piena- 
mente all'intento, e talor più talor meno, m ehi più 
in chi mono. Ma, generalmente parlando, o massime, 
torno a dire, i più antichi tragici greci, cercarono o 
amarono di preferenza il sovrumano de' vizi e delle 
virtù, delle colpe e delle hello t) valorose azioni, 
de' casi, dello fortune: al contrario appunto de mo- 
derni tragici ohe cercano in trito questo il più umano 
che possono. Quindi coloro si rivolsero per lo più al 
favoloso, quindi il corrispondente apparato della scena 
o degli attori; quindi non solo il soggetto, ma il modo 
di trattarlo, di condurre il dramma, d' intrecciarlo di 
recare lo scioglimento dovettero corrispondere al fine 
del poeta e dell'uditorio, che era in questo di rice- 
vere in quello di produrre una sensazione delle più 
vive, (3485) delle più poetiche ec; quindi anche gh 
episodii dovettero corrispondere alla natura di ta o 
scopo e di tal dramma; quindi le furie mtrodotte 
nel teatro (nelle Kumenidi di Bachilo) che fecero 
abortir le donne e agghiacciare i fanciulli (vedi .ba- 
brioius, Bartheleiny ec); quindi i soggetti per lo pm 
lontani o di tempo o di luogo, di costumi ec. dagli 
spettatori, benché tanti soggetti poetici offrisse ai 
tragici greci la storia, non pur nazionale, ma patria, e 
non pur patria, ma contemporanea ec. ec; quindi le m- 
verisimiglianze d'ogni genere, i salti, le improvvisato 
(fatte por verità, con meno arto, varietà ec che non ia- 
rebboro i moderni e che non si ta ne' moderni drammi 



HQ PBStsmai (3485-3486-3487) 

e romanzi d'intreccio), l'intervento si frequente dogli 
Doi o somidoi oc, oc. I moderni drammatici, come gli 
altri poeti, come i romanzieri ec, si propongono di 
agir sul cuore, ma gli antichi tragici, non men che 
gli altri antichi, sulla immaginazione. Questa osser- 
vazione, che non si può negare, basta a far giudizio 
quanto debbano essenzialmente differire i caratteri 
dell'antico e del moderno dramma, con che diversi 
canoni si debba giudicar dell'uno e dell' altro, quanto 
sia assurdo il tirar le modorne poesie drammatiche a 
parallelo d'arte ec. colle antiche, quasi appartenessero 
a uno stesso genere, eh' è falsissimo. Gli antichi tra- 
gici non vollero altro che por sotto gli occhi o l'imma- 
ginazione degli spettatori quasi un volcano ardente o 
altro (3486) tale terribile fenomeno o singolarità dolla 
natura, che niente ha che fare con quelli che lo ri- 
guardano. Essi rappresentavano cosi quello sciagure, 
quelle colpo, quelle passioni, quelle prodezze, come 
meteore spaventevoli che gli spettatori potessero con- 
templare senza pericolo di nocumento, provando il pia- 
cer dolla maraviglia o dello spaventoso, impotente a 
nuocere, senza però trovare né dover trovare alcuna 
conformità o somiglianza fra esso sciagure ec. o le lor 
proprie, o quelle de' lor conoscenti, anzi neppur de loro 
simili e degl'individui della loro specie. 

Da questo osservazioni si dee raccogliere per 
qual ragione non si trovi, e come sia vano il cercare, 
e più il pretendere di trovare, nelle antiche tragedie, 
qne' dettagli, quelle gradazioni quella esattezza nella 
pittura o nello sviluppo e condotta delle passioni e 
de' caratteri, che si trovano nelle moderne; anzi nep- 
pur cosa alcuna di similo o di analogo. 

Queste osservazioni possono in parte applicarsi 
ancho allo antiche commedie, massimo a quella (3487) 
che in Atene si usò da principio e che poi fu chiamata 
propriamente antica, àpxaEa. Neppuro questa mirava a 
mettere i personaggi in relazione cogli spettatori, so 



(3487-3488) gfflràiBM ^ T 

non coti alcuni in particolare, clic in essa erano 
espressamente rappresentati in caricatura. Ancoressa 
mirava ad agir sull'immaginazione, intento allatto 
alieno dalla moderna commedia, od anello da quella 
che fu chiamata in Grecia la commedia nuova vte, o 
seconda tatC**, oh' ù del genere di Terenzio, tradut- 
tor di Monandro, che no fu il principe. Quindi nel- 
l'antica commedia lo invenzioni strane, non naturali, 
poetiche, fantastiche; i personaggi allegorici corno la 
Ricchezza ec.j lo rane, le nulli, gli uccelli; le mve- 
. rfeimiglianze, le stravaganze, gli Dei, i miracoli oc. 
Lo antiche commedie non erano propriamente azioni 
(8wiu««), ma satire immaginoso, fantasie satiriche, 
drammatizzate, ossia poste in dialogo; come quelle di 
Luciano, conformi in tutto 'alle -antiche commedie, 
so non quanto all'estensione, alla personalità ed al- 
tre tali non qualità ma circostanze estrinseche, acci- 
dentali, arbitrarie oc, che non toccano alla natura .del 
genere ec. (20 settembre (3488) 1823, Vigilia di Ma- 
ria SS. Addolorata). 

* Alla p 2928, margine-fine. Da falsus di fallere 
(fatto aggettivo) gli spagnuoli folto (seppur e' non 
fosse contrazione di fallito, ma non credo, e in tal 
caso -li spagnuoli direbbero anzi faida da un jatuio), 
e falla sostantivo per falsa, e cosi il francese fante, 
cioè falle. E da fallo o da falla il verbo spagnuolo 
fallar per falsare elio noi diciamo, e ohe si disse an- 
cora in latino (vedi l'orcellini), e che i francesi di- 
cono fausser; e per fallare o fallire italiano, fadln 
francese, fallere latino. Fallar la palahra spagnuolo, 
fausser sa parole francese, falsare la fede. Speroni, 
Oraez., Ven., 1596, Oraz. 8 cantra le Cortegiane, par. Il, 
p 195, ovvero fallire la -promessa, ib., p. 198, fino; fal- 
seggiar V amore per mancar delle promesse fatte in amore, 
abbandonando una donna per amare un'altra o amando 
■un' altra insieme, malgrado delle parole date, bporom, 

27 

LeoI'audi. — Pensieri, V, 



418 erosami (3488-3489-3490) 

Dialogo I, Yen., 1596, p. 9, principio. Vedi p. 3772. <) 
Vedi la Crusca o il glossario (21 settembre, Pesta di 
Maria Santissima Addolorata, 1823). 

* Molti sono timidi i quali sono insieme coraggio- 
sissimi. Voglio dire che molti si pordono d'animo 
nella società, i quali né fuggono né temono ed audio 
volontariamente incontrano i pericoli (3489) e i danni 
e le fatiche e le sofferenze ee.; e non sostengono gli 
sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali 
di cui sosterrebbero facilissimamente l'aspetto minac- 
cioso o Tamii nemiche in battaglia o in duello. La 
timidità spetta, per così dire, ai mali dell' animo il 
coraggio a quelli del corpo. .I/una temo do' danni e 
dolio pene interno, l' altro brava i danni e le soffe- 
renze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spiri- 
tuale, l'altro al materiale. E tanto è lungi che la 
timidità escluda il coraggio, che anzi ella piuttosto lo 
favorisce, e da essa si può dedurre con verisimiglianza, 
ohe l'uomo che n' è affetto sia coraggioso. Perocché 
la timidità è abito di temer la vergogna, la quale as- 
sai facilmente e spesso incontra chi teme e fugge i 
pericoli. Ondo il temer la vergogna, eh' è male, per 
cosi dire, interno e dell' animo, giacché nulla nuoce 
al corpo né alle cose esteriori, ed opera sul pensiero 
solo, od ai sensi non dà noia; fa che l'uomo non tema 
l danni estoriori, e non fugga e, bisognando, affronti 
il poncolo ed eziandio la certezza di soffrirli, prepo- 
nendo i mali o i pericoli esterni e materiali agi' in- 
terni e spirituali, (3490) e l'anima, per cosi dire, al 
corpo; o volendo innanzi soffrire no' sensi, nella roba oc. 
che nello spirito, e morire piuttosto olio patir la pena 
della vergogna. Ohe in questo e non altro consiste 
quel coraggio che viene da sentimento di onoro, e gli 
offetti dol medesimo. Il qual coraggio ha origino e 



') Eaompi iiniilnghi ili frasi vedili nuli' Allusi ti, In faillir. 



(3490-3491) F EMSiEKi 4 19 

fondamonto, anzi ò esso stesso una spezie di timidità 
o corto una spezie di qualità contraria alla sfronta- 
tezza, all'impudenza, all' inverecondi!» (21 f^mbre, 
l'està della Beatissima Vergine Addolorata, 
Vedi la pag. seguente. 

*"Non si dà nella orazione, qualunque ella sia, 
tratto veramonte sublime, in cui il lavoro non ceda 
di grandissima lunga alla materia, cioè dove l'altezza 
e il pregio del pensiero, dell' immagine e simili, non 
vinca d'assaissimo la nobiltà, l'eleganza e il pregio 
dell'espressione e dello stile. Una sola virtù del- 
l'espressione può, e deve, in un luogo ch'abbia ad es- 
ser sublimo, andar di pari coll'altezza del concotto, e 
questa si è la semplicità, o vogliamo dir la natura- 
lezza e l'apparenza della spazzatura (21 settem- 
bre 1823). (3491) 

iQéo&atto oi'M» km pi «#' «*w Wf sw (Isacco 
Casaub. scrive ohìh; M pfo K«t Av^v*tv «èwJow ^àtoòc 
ical Soxttv KoXfii? *»fo** v * t! f à P à viu,v * 0Vl KaUla ™ v 
ttylff ^IvWal, «A f$o3< Poti * 0v0 « Sl ^ * « 

(il medesimo legge "Ovo? 8' 8v<j, *««, &« 5 

Kpicarmo comico dell'antica commedia, Coo di patria, 
ma vissuto in Sicilia, contemporaneo di Gorone ti- 
ranno. Frammento recato da Alcino appresso Dio- 
gene Laerzio, in Piai, lib. HI, segm. 16, p. 175 ed. 
Amsltel., 1692, Wetsten. (21 settembre, Testa di Maria 
SS. Addolorata, 1823). 

* Basito as da rado is-rasus, frequentativo. Il con- 
tinuativo si trova in francese, cioè raser, che resta in 
luo"0 del positivo, mancante in quella lingua (22 set- 
tembre 1823). Vedi ancora nello spagnuolo arrasar. 

* Alla pag. precedente. I timidi (cioè paurosi dolla 
vergogna soggetti alla tomutCo, mawatiè hmte) non 
solo sono capaci di non tornare né fuggire il pencolo, 



420 



pensieri (3491-3492-3493) 



il danno, il sacrifizio, ma eziandio di corcarlo, di de- 
siderarlo, di amarlo, di bramar la morto, di procu- 
rarsela collo proprie mani. Lo stosse qualità morali o 
tìsiche che portano sovente alla timidezza (ciò sono 
fra l' altro la riflessione, la delicatezza (3492) e pro- 
fondità di spirito oc, ') onde Rousseau era straboc- 
chevolmente e invincibilinonte timido), portano an- 
cora alla noia della vita, al disinganno, air infelicità, 
e quindi alla disperazione È veramente mirabile e 
tristo, non men che vero, come un uomo che non solo 
non teme né fugge, ma desidera supromamento li 
morte, un uomo eh' è disporato di se stosso, elio conta 
già la vita e le cose umane per nulla, un uomo eh' è ri- 
soluto eziandio di morire; tema ancor tuttavia l'aspetto 
dogli uomini, si porda di coraggio nella società, si 
spavonti dal rischio di essere ridicolo (liscino ch'egli 
ha sempre davanti agli occhi, e il cui pensiero e ti- 
more si è quollo che lo ronde timido), e non abbia 
coraggio d' intraprender nulla per migliorare o ren- 
der mono penosa la sua condiziono, e ciò per tema di 
peggiorar quella vita, della quale egli non fa più caso 
alcuno, della qualo ei dispera, che non può parergli 
possibile a divenir peggioro, odiandola già egli tanto 
da desiderar sommamente d'esserne liberato, o da vo- 
lere determinatamente gittarla via. È mirabile òhe un 
uomo desideroso o (3493) risoluto di morire, un uomo 
che ripone il suo meglio nel non essere, ohe non trova 
per lui miglior cosa che il rinunziare a ogni cosa; 
stimi ancora di avor qualche cosa a perdere, e cosa 
tanto importante, ch'egli tema sommamente di perderla; 
e che questa opinione e questo timore gli renda im- 
possibile la franchezza e il gittarsi disperatamente 
nella vita ch'ei nulla stima; oh' egli ami meglio ri- 
nunziare decisamente a ogni cosa e perdere ogni cosa, 
che mettersi, com'ei si credo, al pericolo di pordere 

') Toglisi lo pagg. 3I8G -9I. 



(3493-3494-3495) i-bn siem 

quella tal cosa, cioó quella riputazione e quella stima 
altrui che l'uomo timido teme a ogni momento di 
perdere, conversando nella società, e ch'egli sa poro 
bene di non avere, o di perderla, mostrandosi timido; 
ma contuttooiò lo rende incapace di franchezza il ti- 
more continuo di perdere, e la continua e affannosa 
cura di conservare, quello eh' ei comprende di non 
possedere, quello ch'ei ben s'avvede o di perdere no- 
cessanamente o di non mai potere acquetare se non 
deponendo quel continuo ed eccessivo femore quella 
SS ed eccessiva cura. Tutte queste misere e 
So contraddizioni (3494) e tutti questi accidente 
hanno luogo (proporzionatamente più o mone ec.) nelle 
jTone thuide, e più quanto elle sono di spmto più 
delicato co., delicatezza che bene spesso è la sola ^ ^ 
principal cagione della timidità. Ma quanto al tomolo 
cola ta v^ogna desiderando la morte 0 e— 
disposto di procurarsela, si spiega col vede re che _quel 
cerando il qnal non nasce da cause fisiche, ne da 
a tetlto naturalo 0 acquisito d' irriflessione ma 
per lo contrario nasce da riflessione accompagnata col 
sentimento d'onore e da delicatezza d'amino (non da 
oomo quell-aluu) 1-1'onsce dativamente 
l morte alla vergogna, e tanto è più pauroso di que- 
sta che di quella, che ad occhi aperti e delibala 
,mente scoglie in fatto la prima piuttosto che la 
sccTdl, e antepone il non vivere alla pena di vergo- 
gnarsi vivendo (22 settembre 1823). 

* Si SU ol dire che gli antichi attribuivano agli 
Dei le qualità ungane, perch'essi avevano troppo 
ba sa idea della divinità. Ohe questa idea non fosse 
a2 loro cosi alta come (3495) tra noi non posso 
appo 101 u egsi attn t ramm o 

«fandonie V aver essi degli uoiniiu e dello cose 
un'io e di quaggiù troppo più alta idea che noi 



422 



PENSIERI 



(3495-3496) 



non abbiamo. E soggiungo elio, umanizzando gli Dei, 
non tanto vollero abbassar questi, quanto onorare e 
innalzar gli uomini ; o eh' ofìottivameuto non pivi in- 
coro umana la divinità che divina l'umanità, si nolla 
lor propria immaginazione e nolla stima popolare, si 
nolla espressione ee. dell'una e dell'altra, nello l'avole, 
nello invenzioni, ne' poemi, nelle costumanze, ne' riti, 
nelle apoteosi, no' dogmi e nello disciplino religioso oc. 
(22 sottombre 1823). Tanto grande idea ebbero gli an- 
tichi dell' uomo e dolio coso umano, tanto poco inter- 
vallo posoro fra quello e la divinità, fra queste e le 
cose divino (non por abbassar l'uno, ma por elevar 
l'altre, né per disistima dell'une, ma per altissimo 
concotto dell'altro), eh' essi stimarono la divinità e 
l'umanità potersi congiungero insieme in un solo sub- 
bietto, formando una persona sola. Ondo immagina- 
rono un intiero genero participanto (3496) dell' umano 
e del divino, participazione che lor sombrò naturalis- 
sima, o ciò furono i somidoi. E similmente i fauni, 
lo ninfo, i pani ed altro tali divinità, anzi semidivi- 
nità 4 ) terrestri, acquatiche, aeree, insomma sublunari, 
reputato mortali, si possono ridurrò a questo genero di 
2>artìcijpanti (vedi il Porcellini in Nympha) : sebben 
olle erano inferiori ai semidei, comò Ercole (di cui 
vedi .Luciano, Dialogo d' Ercole e Diogene, che fa molto 
a proposito), cioè participanti forse di minor parto di 
divinità e più d'umanità o mortalità : siccome gli 
eroi, finob.' essi sono mortali, possono parere un grado 
inferiori a' pani, ninfo oc, cioè mon divini (vodi ii'or- 
cellini in Ileros, Indigetee, Semideus; e Platone nel 
Convito, od. Astii, t. ìli, 498, D-500, E. che fa otti- 
mamente al caso *), (ili antichi non trovarono mag- 
gior dillìcoltà a comporre in un soggetto medesimo 



*) (afflavi?, geiìii, larcs, pcnattf, ttHUMI Ci*. Vedi Porcellini in lutiti 
qneatd voci. 

! ) V<x1l li. 3544. 



(3496-3497-3*98) pensieri 



423 



l'umanità o la divinità, di quel elio a comporre i due 
sessi umani, il maschio e la femmina, uogl' immagi- 
nari ermafroditi; quasi l'umano o il divino ibssoro, 
non altrimenti cho il virile e il donnesco, duo di- 
verso specie, por dir cosi, d'un genero istesso, né 
maggior differenza o intervallo (3497) o distinziou 
di natura fosso tra loro (22 settoml>re 1828). 

:i: Lo speranze che dà all'uomo il cristianesimo 
sono pur troppo poco atto a consolare l' infolico e il 
travagliato in questo mondo, a dar riposo all'animo 
di chi si trova impoditi quaggiù i suoi desidorii, ri- 
buttato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli 
uomini, chiuso l'adito ai piaceri, alle comodità, allo 
utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. 
La promessa e l'aspettativa di una folicità grandis- 
sima e somma ed intiera beasi; ma: 1", che l'uomo non 
può comprendere, né immaginare, né pur concepire o 
congotturaro, in uhm modo di che natura sia, nemmon 
per approssimazione ; 2", eh' egli sa bene di non poter 
mai né concepire, né immaginare, né avorno voruna 
idea finché gli durerà questa vita ; 3°, eh' egli sa 
espressamente esser di natura all'atto diversa od aliena 
da quella che in questo mondo oi desidera, da quolla 
che quaggiù gli è negata, da quolla il cui desiderio 
e la cui privazione forma il soggetto e la causa dolla 
sua infelicità; una tal promessa, dico, e una talo 
(3498) ospottativa è lion poco atta a consolare in que- 
sta vita l'infelice o lo sfortunato, a placaro o sospen- 
dere i suoi desiderii, a compensare quaggiù lo sue 
privazioni. La felicità che l'uomo naturalmente de- 
sidera è una folicità temporale, una felicità matorialo, 
o da essere speri montata dai sensi o da questo nostro 
animo tal qual ogli è presenteuionto o qual noi lo sen- 
tiamo ; una felicità insomma di questa vita e di que- 
sta osistenza, non di un'altra vita e di una esistenza 
elio noi sappiamo dover ossero affatto da quosta di- 



424 



rEKSIERI 



(3498-3499) 



versa, e non sappiamo in niun modo concopiro di olio 
qualità sia por essere. La felicità è la perfezione e il fine 
dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici poroc- 
clié esistiamo. Cosi chiunque vive. E chiaro adunque 
che noi desideriamo di esser felici, non comunque si 
voglia, ma felici, secondo il modo nel quale infatti 
esistiamo. ') E chiaro che la nostra esistenza desi- 
dera la perfezione e il fin suo, non già di un' altra 
esistenza, e questa a lei inconcepibile La nostra esi- 
stenza desidera dunque la sua propria felicità; ché 
desiderando quella di un'altra esistonza, ancorch'ella 
in questa s'avesse poi a tramutare, desidererebbe, si 
può dire, una felicità non propria, ma altrui, (3499) od 
avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui, 
il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia essere 
in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero oc. 
Laonde la felicità che l'uomo dosidora ò necessariamente 
una felicità conveniente e propria al suo presente modo 
di esistere, o della quale sia capace la sua presente 
esistenza. Né egli può mai lasciar di desiderare 
questa felicità per niuna ragione, né per niuna ra- 
gione può mai desiderare altra felicità che questa. E 
non è più possibile che l'uomo mortale desideri vera- 
mente la felicità de' Boati, di quello che il cavallo la 
felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale ; di 
quel che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la 



7~I? nomo non desidera In felicità assolatamente , insi la felicità 
umana (cosi gli alni animali), né la felicita qualch'ella sin., ma. una tale, 
benché non definibile, felioltà. Et la desidera somma e infinita, ma nel 
suo genero, non Infinita in questo senso oVella comprenda la folìeità h i 
Imo, della pianta, doli 1 Angelo o tutti i generi (11 felicità ad uno ad uno. 
Infinita e realmente la sola felicità di Dio. Quanto all' infinità, 1' uomo 
dosidora una felicità come la divina, ma quanto all' nitro qualità ed al 
genere di ossa felicità, l 1 uomo non potrebbe già veramente deimlr-rare la 
felicità di Dio. L'uomo che invidia al ano situilo un vestito, una vivanda, 
un palagio, non è pfoprjamento mai ideco né da invidia ne da desiderio 
doli' Lnùnensa o plana felicità di Dio, so non salo in quanto immensa, e 
pili in quanto piena o perfetta. Veggasi la p. 3503, massime In margino. 



425 



sua natura o la carne di cui lo vegga cibarsi, al- 
l'uomo il piacere degli studi e dello cognizioni, pia- 
cere che l'animalo non può concepire, né che possa 
esser piacere, né come, né qual piacerò sia : e cosi 
discorrendo. È ben vero che né l'uomo, né forse l'ani- 
male, né verun altro essere, può esattamente definire 
né a se stesso né agli altri qual sia assolutamente e 
in genorale la felicità eh' ei desidera ; perocché (3500) 
ninno forso l' ha mai provata, né proveralla, e perché 
infiniti altri nostri concetti, ancorché ordinarissimi e 
giornalieri, sono per noi indefinibili. Massime quelli 
che tengono pili della sensazione che dell' idea : che 
nascono più dall'inclinazione e dall'appetito che dal- 
l' intelletto, dalla ragiono, dalla scienza ; che sono 
pili materiali che spirituali.' Le idee sono per lo più 
definibili, ma i sentimenti quasi mai ; quelle si pos- 
sono bono e chiaramente e distintamente compron- 
doro ed abbracciare e precisar col pensiero, questi 
assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, si 
1! animalo che 1' uomo sa beno o comprendo, o corto 
sente, che la felicità eh' ei desidera è cosa terrena. 
Qaell' infinito medesimo a cui tende il nostro spirito 
(e in qual modo e perché s'è dichiarato altrove), quel 
medesimo è un infinito terreno, bendi' ei non possa 
aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell' im- 
maginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio 
ed appetito de' viventi. Oltre di ciò ninno è che viva 
senz' alcun desiderio determinato e chiaro o definibi- 
lissimo, negativo o positivo, nel conseguimento (3501) 
del quale o di più d' uno di loro ei ripone sempre o 
osprossamente o confusamente, benché pur sempre 
per errore, la sua felicità e il suo ben essere. Quel 
trovarsi senz' alcun dosiderio al mondo, se non quello 
di un non so che. quell' essere infelice senza man- 
caro di nhm bene né patirò assolutamente niun male, 
è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in quosto 
caso, potova parergli che cosi fosse, ma s' ingannava; 



42(1 



rKNSiEKt (3501-3502) 



e niuno mai si trovò veramente in tal caso né è por 
trovarvisi, perché a niuno mai mancò né è per mancar 
materia di qualche dosiderio determinato, pivi o men 
vivo, o eli' esso miri a cosa che ci manchi, o a cosa 
che noi abbiamo o ci dispiaccia. Anzi a nessuno è per 
mancar mai materia di molti e vìvi desidorii deter- 
minati di questa specie. Or tutti questi desidera de- 
terminati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e elio 
non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose ter- 
rone. Promettere all'uomo, promettere all'infelice tulft 
felicità celeste, benché intera e infinita, e superiore 
sonza paragone alla terrona , o a' piccoli beni che 
egli desidera, si è come a un che si muor di famo o 
non può ottonoro un tozzo di pane, preparargli un letto 
morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e bea- 
tissimi odori. Con questo divario che l' affamato con- 
cepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo 
odorato da quella sensazione, (3502) e questo piacere 
sarebbe dolla modesima natura di quello ch'ei desi- 
dera e non ottiene, cioè materiale e sonsibilo corno 
l' altro. Non cosi possiamo diro de' piaceri celesti pro- 
messi a chi desidera e non ottiene i terreni, nel qual 
caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente 
sempre, o l'infolico massimamente, benché tutti a ri- 
gore sono infelici, e lo sono perché tutti e sempre si 
trovano noi detto caso. Ora i piaceri celesti, al con- 
trario di ciò che s' è detto qui sopra, son di natura 
affatto diversi da quelli cho noi desideriamo e non 
ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici: e que- 
sta lor natura non può da noi por vorun modo mai 
essere conceputa. Onde seguo che la consolazione che 
può derivare dallo sperarli sia nulla in effotto; per- 
ché a chi desidera una cosa si promette un' altra, 
oh' è diversissima da quella; a chi è misero per un 
desiderio non soddisfatto si promotto di soddisfare un 
desiderio ch'ei non ha e non può per sua natura avoro 
né formare; a chi brama un piacer noto, e si duole 



(3502-3503-3504) pensieM 



427 



di un male noto, si promette un piacere e un bono 
eh' ei non conosco nó può conoscere, e eli' ei non vedo 
no può vedere come sia por essere bene, e corno possa 
piacergli; (3503) a chi è misero in questa vita, e de- 
sidera necessariamente hi felicità di questa esistenza, 
ed altra esistenza non può concepire né desiderarne 
la felicità, si promette la beatitudine di una tutt' al- 
tra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dico, 
eh' ella è sommamente o totaluionto e più. eh' ei non 
può immaginare diversa dalla sua presente, e eh' ei 
non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Como 
1' uomo non può né collo intelletto né colla immagi- 
nazione né con veruna facoltà né veruna sorta d' ideo 
oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede 
oltrepassarla, e concepire o avere un' idea qualunque 
di cosa non materiale, s'inganna del tutto; cosi egli 
non può col desidorio passare d' un sol punto i limiti 
della materia, né desiderar bene alcuno che non sia 
di questa vita e di questa sorta di esistenza eh' ei 
prova ; e s' ei crede desiderar cosa d' altra natura, 
s'inganna, e non la desidera, ma gli paro di deside- 
rarla. Come dunque oi non può dosiderar bene alcuno 
d' altra natura, cosi la promessa e la speranza di tali 
beni, non può per modo alcuno (3504) consolarlo real- 
mente né de' mali di questa vita nó dolla mancanza 
do' di lei beni, né (quando e' non fosse infelice) ral- 
legrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza del- 
l' aspettativa, e intrattenerlo e contribuire quaggiù al 
suo contento. Di più, l' uomo si pasce por verità e si 
sostieno o vivo grandissima parto della sua vita, anzi 
pur tutta la vita sua, della speranza, ancorché lon- 
tana, la qual è un piacere, ma come e perché? Per- 
ché l'uomo va immaginando e contemplando seco 
stesso a parte a parte il godimento ch'egli attendo 
o spora, e prova diletto nel considerare e rappreson- 
tarsi il modo in che egli no godrà, e le sue qualità 
e condizioni e circostanze, anticipando ed anzi assa- 



428 



PBNSJBKi (3504-3505-3506) 



porando effettivamente colla immaginazione mille volte 
il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa 
rappresentazione, guest' anticipazione, questo gusto o 
assaggio, questo deliro o sogno oli e ci fa parerò e ci 
rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei 
noi sarà qiuindo si troverà presente in effetto (se egli 
si troverà mai presente), come può aver luogo intorno 
a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel 
più e nel meno, o nella specie, ma nel genero, di modo 
che le nostre idee non hanno alcun potere di abbrac- 
ciarne o di avvicinarne né pure una menoma parte? 
Ooine ci può por verun deliro o veruno sforzo dell' im- 
maginazione o dell' intelletto parer presente (3505) 
quello a cui né l' immaginazione né l' intelletto non 
si possono neppure a grandissimo tratto avvicinare; 
quello che non è fatto né per questa immaginazione 
né por questo intelletto; quello eh' è di natura all'atto 
diversa da ciò che l'immaginaziono o l'intelletto può 
concepire o congetturare; quello che non sarebbe ciò 
ch'egli è, s' a noi fosse possibile puro il congotturarlo; 
quello ohe spotta a tutt' altra natura che la nostra 
presente? Come può por alcun modo o in alcuna parto 
entrar nella mento nostra una tutt' altra natura? 

Certo l'uomo desidererà sempre di ossor liberato 
dai dolori e dai mali ch'egli effettivamente prova, e 
di conseguire quelli eh' oi crederà beni in quosta vita, 
e di esser felice in questo mondo in eh' ogli vive. E 
non potendo mai lasciare di desiderarlo niente più 
ch'ei possa ottenerlo, e la religion cristiana non sod- 
disfacendo a questo suo unico e perpetuo desiderio, né 
promettendogli di soddisfarlo mai por niun modo, anzi 
non dandogliene speranza alcuna, segue che lo spe- 
ranze cristiane non sieno atte a consolare effettiva-? 
mente (3506) il mortalo, né ad alleviare i suoi mali 
ne i suoi dosiderii. E la felicità promossa dal cri- 
stianesimo non può al mortale parer mai dosidorabilo, 
se non in guanto infinita, anzi in quanto perfetta 



(3506-3507) 



429 



(che infinita e non perfetta noi contenterebbe), e in 
quanto felicità, astratta mente considerata, ma non già 
in quanto tale qual ella è, e di quella natura di eh' ella 
è. Ed oao dire che la felicità promessa dal pagane- 
simo (e cosi da altre religioni), cosi misera o scarsa 
com'clla è puro, doveva parere molto più desiderabile, 
massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, c la 
speranza di essa doveva essere molto più atta a con- 
solare e ad acquietare, perché felicità concepibile e 
materialo, e della natura di quella che necessaria- 
mente si desidera in terra. 

Osservisi che di due future vite, l'una promessa 
l'altra minacciata dal cristianesimo, questa fa sul 
mortale molto maggior effetto di quella. E perché? 
perché ci s'insegna che nell'inferno (e cosi nel Purga- 
torio) avrà luogo la pona del senso. Onde ci si rende 
concepibile nel genere, benché non concepibile nel- 
l'estensione, la pona che dee aver luogo in una vita 
e in un modo di essere (3507) a noi d' altronde in- 
concepibile non meno cho quello de' Beati del Para- 
diso. E sebbene noi non possiamo concepire il modo 
in cui questa pena possa aver luogo nell'altra vita e 
nell' anime ignudo, pur ci si dico eh' ella ha luogo 
niìris sed veris modis (S. Agostino), restando fermo 
ch'ella è pona sensibile e materiale; onde noi non 
sapendo né immaginando il corno, sappiamo però bene 
e concepiamo il quale sia quella pena. 

E perciò può dirsi con verità che il cristiane- 
simo è più atto ad atterrire che a consolare, o a ral- 
legrare, a dilettare, a pascere colla speranza. Ed è 
cortissimo infatti che l' influenza da lui esercitata 
sullo azioni dogli uomini è sempre stata ed è tut- 
tavia come di religion minacciante assai più che come 
di religion promettente; ch'egli ha indotto al beno e 
allontanato dal male, e giovato alla società ed alla 
inoralo assai più col timore che colla speranza; cho 
i cristiani osservarono e osservano i precetti delia 



4SI ) 



pensieri (3507-3508-3509; 



religion loro più per rispetto dell' inferno e del Pur- 
gatorio cho del Paradiso. E Dante che riesco a spa- 
ventar dell'intorno, non riesce, né ancko poeticamente 
parlando, a invogliar punto del Paradiso; (3508) e 
ciò non per mancanza d'arte né d'invenzione eo. 
(anzi ambo in lui son somme ec), ma per natura 
de' suoi subbiotti e degli uomini (similmente, con 
proporzione, si può discorrere doli' Eliso e dell' in- 
ferno degli antichi, questo molto più terribile che 
quello non è amabile; dello stato de' reprobi e della 
felicità de' buoni di Platone ec). 

E anche certo che siccome il cristianesimo senza 
il suo inferno e il suo Purgatorio, e col solo suo Para- 
diso, non avrebbe avuta e non avrebbe sulla condotta e 
sui costumi degli uomini quella influenza eh' egli ebbe 
ed ha, cosi non l'avrebbe avuta, o minore assai, se 
e' non avesse minacciato noli' inforno e nel Purgatorio 
una pena di qualità concepibile, e s'egli avesso solo 
minacciata la pena del danno eh' è di qualità incon- 
cepibile, e di natura diversa dalle pene di questo 
mondo; benché non tanto, quanto la beatitudine ce- 
leste dallo terreno; perché noi concepiamo pure e sen- 
tiamo per esperienza come ci possa fare infelici la 
privazione e il dosiderio di beni non mai provati, 
mal conosciuti, ed anche non definibili; dei desideri! 
vaghi ec. Onde anche non concependo il bone del 
Paradiso, possiamo in qualche modo concepire corno 
la privazione irreparabilo e il desiderio continuo ed 
eterno di osso possa fare infelici , massime chi sa di 
non poter esser mai soddisfatto, (3509) o pur sempre 
dosidera, e sa d' aver sempro a desiderare, e chi ò 
certo di penar sempro allo stesso modo, e di essere 
eternamente infelice senza riparo, e senza sollievo 
alcuno ec. Tutto ciò noi possiamo ben concepire, quasi 
secondari a monte, come possa esser causa di somma 
infelicità, benché non possiamo concepirlo primaria- 
mente, cioè la qualità di quel bone cho nell'inferno oc. 



(3509-3510) pensieri 

si desidera, e la cui privazione o desiderio fa info- 
liei i dannati ec. (23 settembre 1823). 

* Niente d' assoluto. — Voggasi il pensiero antece r 
dento, in particolare p. 3498-9, margine, nel qualo si 
dimostra òlio né 1» uomo né alcun vivente non desi- 
dera neppur la felicità assolutamente, ma relativa- 
mente, e solo s' ella conviene alla di lui propria 
natura, ed è richiesta dal di lui modo particolare di 
ossero oc. e in quanto ella sia tale ec. Né perché una 
cosa sia felicità, per questo solo ei la desidera, ne si 
compiace nello sperarla, quando ella non convenga al 
suo modo di essere ec. Si può poro dire por un lato, 
che l'uomo desidera la felicità assolatamente, Veggasi 
la p. 3506. Ei non desidera tale o> tale felicità, s'a lui 
non conviene : e dovendo desiderare una tale felici- 
tà ei non può desiderar se non la conformo e propria 
al' suo modo di essere. Ma la felicità assolutamente 
e indeterminatamente considerata, e s' ei cosi la con- 
sidera, ei non può non bramarla, cioè in quanto feli- 
cità semplicemente. — Di qual cosa par che si possa 
ragionare più assolutamente che dolla lunghezza o 
estensione di ima data porzione di tempo? la qualo 
si misura esattamente coll'oriuolo, e si divide (3510) 
perfettamente in parti anche minutissime, non col 
pensiero solo, ma con gì' istrumenti da ciò, e come 
fosse quasi materia, e queste parti si annoverano e si 
raccolgono, e il loro numero si conosce colla certezza 
ohe dà V aritmetica. Ora egli è cortissimo che la lun- 
ghezza di una medesima quantità di tempo ad altri 
è veramente maggiore ad altri minore, e ad un me- 
desimo individuo può ossero, ed è, quando maggiore 
quando minore. Onde può dirsi con verità che una 
medesima data proporzione di tempo or dura più or 
meno ad un medesimo individuo, ed a chi più a chi 
mono. Lasciamo stare che il tempo disoccupato, an- 
noiato, incomodato, addolorato e simili, riesce e si 



432 



i'ensiimu (3510-3511-35)2) 



sente esser più lungo ohe quel medesimo o altret- 
tanto spazio di tempo occupato , dilettevole, passato 
in distrazione e simili ; ') e ciò ad un medesimo in- 
dividuo, o a diversi individui d' una sola specie in 
un tempo medesimo, o in tempi diversi. Lasciando 
questo, si osservi che agli animali i quali vivono 
meno dell' uomo per lor natura, a quelli clic vivono 
al più trentanni, venti, dieci, cinqu' anni, (3511) uitì 
anno solo, alcuni mesi, un solo mese, alcuni giorni 
soltanto (che egli v' ha effettivamente animali che ri- 
spondano a tutte queste differenze di durata, e a conto 
e mill! altre intermedie) ; a questi animali, dico, una 
data porzione di tempo è veramente più lunga e dura 
più cho all'uomo, o tanto più quanto la lor vita natu- 
ralo è più corta ; e l' idea che ciascun d' essi si forma 
ed acquista naturalmento della durata e quantità di 
una tal porzione qualunque di tempo, è assolutamente 
maggiore di quella che l'uomo concepisce; e maggioro 
in ragione esattamente inversa della lunghczza°ordi- 
naria del viver loro. E s' ogli è vero, corno dicono, che 
nel fiume Apanis nella Scizia vi abbia degli animaletti, 
tra i quali, quei, i quali essendo nati il mattino muo- 
iono la sera, sono i più vecchi, e muojono carichi di 
figli, di nipoti, di pronipoti, e di anni, a lor modo (Ge- 
novesi, Meditazioni filosofiche .sulla lìctigione e sulla 
Morale. Meditazione I. Piacere dell' esistenza, §. o, arti- 
colo 12, Bassano, Eemondini, 1783, p. 26. Vedilo dal- 
l' articolo 11, a l fine della Meditazione); (3512) se 
questo, dico, è vero (che ben può ossere, 2 ) e se non 

bollii rimembranza e molto volto il contrarlo, cho più coito paro 
il tempo passato sonza occupazione o uniformemente, porcini allora natia 
niomorla 1' una ora o 1' un di ni confonde e quasi sovrappone coli' altro, 
in morto che molti paiono un solo, non avendovi differenza tra loro né 
moltitudine di azioni o passioni cho si possa nnmeraro, l' idea dolla miai 
molUtnaine si e quella che produco l' idea della, lunghezza del tempo, 
massime passata no. Ma di questo pensiero altrove s'è scritto. 

-) Se non e, può essere, e al nostro caso tonto 6 il poter ossere 
quanto l'essere in fatto, Immaginiamo, se non è, ohe sia. e corno di 
nh ipotesi (Iiscorrmino quello che neceBanriamentc tegnlroblia so cosi 



(3512-3513) 



PENSIERI 



433 



d'essi animaletti, d'altri, visibili o invisibili ; e so no, 
discorrasi proporzionatamente di quelli che, come di 
certo si sa, vivono pochissimi giorni), egli è certissimo 
che P idea che questi animaletti si formano e natural- 
mento acquistano (iella durata e quantità, per esom- 
pio di una mezz' ora di tempo, è tanto maggioro (iella 
nostra idea, che noi non possiamo pur concepirò il 
quanto. E veramcnto una mezz' ora dura per essi in- 
definibilmente più che per noi , stante la rapidità 
delle loro azioni, sensazioni, passioni ed eventi ; il 
velocissimo succedersi di questi, gli uni agli altri ; 
la inconcepibile prontezza del loro sviluppo ; la rapi- 
dità, per cosi dire, della lor vita ed esistenza: e 
stante eh' essi in una mezz' ora, in un minuto, vivono 
ed esistono, si può ben dire, assai più che noi né gli 
altri più macrobii animali, in quel medesimo spazio, 
non fanno ; e la loro esistenza in un minuto ò vera- 
mente di quantità e d'intensità ce. maggioro che la 
nostra non è, in altrettanto spazio, e che noi non pos- 
siamo pure immaginare. In contrario senso ragionisi 
dell' idea elio dovettero aver gli nomini naturalmente 
della durata e quantità di una data porzione di tem- 
po, quando la (3513) lor vita naturale era straboc- 
chevolmente pili lunga della presente, e proporziona- 
tamente dell' idea che debbono averne le nazioni (se 
ve n' ha) che vivono ordinariamente più di noi (sic- 
come v'ha corto di quelle oho vivono mono, e pre- 
stissimo giungono alla maturità, e ciò ne' climi caldi, 
come nell'Amorica meridionale, ove le donne si ma- 
ritano di dieci o dodici anni. ') e tra gli orientali ec; e 
vedi a questo proposito P Indica di Arriano, c. IX, 
sect. 1-8 e Plinio so ha nulla ee.) ; e dell' idea clic 

foeae. Kaaoudo l' Ipotesi possibilissima e Biffiiliwima al vovo, V argomento 
avrii la medesima l'orza, o tanto noi cubo predente varrà a proverà l'Ini- 
macinazione e la supposizione, quanto la verità, tanto il supposto e Vlm. 
maftimito quanto il vero ort effettive. 
') Vedi p. 3898. 
Leopardi. — Tentieri, V. 28 



434 



PJSHSIERI 



(3513-3514) 



n'hanno gli animali pili longevi dell'uomo, come l'ele- 
fante, il cervo, la cornice, la tartaruga, alla quale, pi- 
grissima e tardissima nelle sue operazioni, la natura 
diede, non lunghissima vita, ma moltissimi anni. E dico 
nonlunghissima vita, perch'ella, stante la tardità de'suoi 
movimenti ed azioni, alla quale corrisponde quella del 
suo incremento e sviluppo naturale ec. e di tutta la 
sua natura, vive ed esiste in un dato spazio di tempo 
assai meno che 1' uomo in altrettanto spazio non fa. 
E cosi proporzionatamente gli altri animali più lon- 
gevi di noi. E dalle suddetto osservazioni si raccoglie 
che la somma o quantità della vita, e però la (3514) 
durata e lunghezza della medesima, è generalmente 
e appresso a poco altrettanta in effetto negli animali 
ed esseri bracMbiotati, che ne' macrobiotati e negl'in- 
termedii, e niente minore, e cosi viceversa. Onde la 
durata di un medesimo spazio di tempo è naturalmente 
e genoralmento e costantemente, salve le varie circo- 
stanze della vita di una stessa specie e individuo, ac- 
cennate di sopra, come la noia, il piacere ec. che va- 
riano l' idea e '1 sentimento della durata ec, sempre 
però dentro i limiti e la proporzione e in rispetto del- 
l'idea d'essa durata, propria particolarmente dello spe- 
cie per sua natura oc, por gli uni maggiore per gli 
altri minoro oc e non si può determinare ec. né giu- 
dicarne assolutamente corno noi facciamo ce (24 set- 
tembre 1823). 

* Transito as, da transeo-transìtus. Vedi il Porcel- 
lini in Transitanti. Oggi questo verbo ei ò connine, e 
lo trovo ancora nello .spaglinolo moderno, e ini par 
eziandio nel francese. Ma in tutte tre queste lingue 
egli è piuttosto termine di gazzetta (inutilissimo), 
che voce degna della lingua oc (25 settoinbre 1823). 

* Alla p. 2984. Vìeil da veculus come ceil da oculus, 
orinile da auvicula o aurccula (corrottamente) ec, ver- 



(3514-3515-3516) pensieri 435 

meil, vermiglio, vermejd da vermimhà o vermccuhis ec. 
Sommìl è certamente un sornnìculus diminutivo, proso 
in senso positivo, come somme da somnus. Resta però 
il senso diminutivo (3515) a nommciller che vion da 
somnieulara, come il nostro sonnacchiare, e che serve 
a confermar la derivazione di sommili da somniculus. 
Apparati, apparecchio, apparecchiare, sparecchio eo., 
aparejo, aparejar dimostrano un diminutivo positi- 
vato appariculare per apparare (corno mÌ80ulare por 
miscere, di cui altrove), appariculus per apparutusi ) 
voci ignote del buon latino, ma comuni alle tre lin- 
gue figlie. Vedi glossario oc. (25 settembre 1S23). 

* A quello che altrove ho dotto di occhio e di ojo 
formati regolarmente da oeutys, non da ocm, come po- 
trebbe parere, aggiungasi che anche ce.il viene mani- 
festamente da oculus (vedi la pag. qui dietro), e non po- 
trebbe venire da ocus. Aggiungi ancora, a quello che 
ho detto in tal proposito, che da somniculosus abbiam 
fatto oltre sonnacchioso e sonnocchioso, anche sonno- 
gUoso e sonniglioso, mutato il cui in gli, come in vermì- 
glio da vermiculus, di cui vedi pur la pag. antecedente, 
e in periglio da periculum, e in coniglio (conejo) da 
cuniculns. Quindi i diminutivi spagnuoli in ilio, da 
iculus (25 settembre 1823). Abbiamo anello xormoloso. 
(3516) 

* Axilla era voce antiquata fin dal tempo di Cice- 
rone e sostituitavi ala (vedi porcellini in Axilla, in 
X eo) Antiquata nel parlare e nello scriver cólto. Ora 
il volgo conservala sempre, tanto che la trasmise a 
noi, i quali usiamo ancora volgarmente e tuttodì que- 

i) Parecchi, pardi, onda apparHllor, sono da partaiUu co. Vedi 
a L «, • «««io (cioè- par) parejura oc. FeUtja, pOUjo, pelUoo; pOr 
JL. Pinolo 'JZJ velli!, da pria* eo. Lo w»otó 
tó^aohfn poS & •** Oxaiite d, oviouta co., come 



43G 



PENSIERI 



(3516-3517) 



sta voce latina che al tempo di Cicerone era già di- 
susata. Ancella, aìssellc. Cosi dito di maxilla (mascella, 
mexilla), che pur si trova usata da scrittori posteriori, 
ina ciò dovette essor con poca eleganza. Ala o mala 
che al tempo di Cicerone in questi significati erano 
più recenti e più usate di quell'altro, oggi, restando 
queste, sono esse affatto perdute in tali significazioni 
(25 settembre 1823). Al contrario pahts è riinasto, 
paxilhts perduto ; velum è rimasto, vexìUum non è per 
noi che voce poetica ec. (25 settembre 1823). 

* Testa si dice ancho per ogni genere di coccia, 
come di quella de' pesci, onde la tartaruga è detta 
testitelo ec. Quindi si conforma la congettura da ino 
fatta altrove sopra 1' origine del dir te.sta, cioè coccia, 
per capo. Si Gomineiò a dar quel nome al cranio, ed è 
metafora o metonimia ec. molto naturale. Vedi Por- 
cellini (25 settembre 1823). (3517) 

* Alla p. 3412, fine. Altrettanto però è certo che 
una società capace di repubblica durevole non può 
ossoro che leggermente o mezzanamente corrotta; che 
una società pienamente corrotta (come la moderna) 
non è assolutamente capace d'altro stato durevole che 
del monarchico quasi assoluto; e che il non essere 
assolutamente capace se non di assoluta monarchia, 
e l' essere incapace di durevole stato franco è certo 
segno di società pienamente corrotta. Cosi apparen- 
temente si ravvicinano i due estremi, di società pri- 
mitiva, di cui non ò proprio altro stato che la mo- 
narchia; e di società totalmente guasta, di cui non è 
propria che l' assoluta monarchia. Colla differenza che 
questa società non è onninamente capace di altro stato 
durevole, , quella si; e che in questa non può durar 
che una monarchia assoluta, cioè dispotica, in quella 
una tal monarchia non poteva assolutamente durare; 
ma l'era propria una monarchia piena bensì ed intera, 



PENSIERI 



437 



ma non assolutane dispotica; una monarchia dove il 
ré era padron di tutto, e il suddito niente manco li- 
boro. Del resto, s'egli è (3518) proprio carattere si 
della società primitiva come della più corrotta l'es- 
sere ambedue per natura monarchiche di governo, non 
ò questo il solo capo in cui si veda che lo cose limane 
ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo er- 
rore ai loro principii, e giunte (corno or pare che 
siano) al termine di lor carriera, o tanto più quanto 
a questo termine più s'avvicinano, si trovano di nuovo 
in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo 
luogo, stato ed essere che nel cominciar d'essa car- 
riera. Bensì per cagioni ben diverse e contrarie a 
quello d'allora; onde questi effetti e questo stato sono 
ben peggiori ritornando, che allora lion furono; e se 
e dove furon buoni e convenienti all'umana sociotà 
ed alla felicità sociale nel principio, son pessimi nel 
ritorno e nel fine ec. (25 settembre 1823). 



FINE DSL VOLUME QUINTO.